venerdì 31 luglio 2009

La beffa?

Questo è il comunicato stampa n. 120, 30 luglio 2009, dell’Agenzia Italiana per il Farmaco (il corsivo è mio):

Il Consiglio di Amministrazione dell’AIFA ha deliberato l’autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco mifepristone (Mifegyne).
La decisione assunta conclude anche in Italia quell’iter registrativo di Mutuo Riconoscimento seguito dagli altri Paesi europei in cui il farmaco è già in commercio, interrompendone l’uso off-label.
Il Consiglio di Amministrazione ha ritenuto di dover precisare, a garanzia e a tutela della salute della donna, che l’utilizzo del farmaco è subordinato al rigoroso rispetto della legge per l’interruzione volontaria della gravidanza (L. 194/78). In particolare deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’art. 8 della Legge n.194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza escludendo la possibilità che si verifichino successivi effetti teratogeni. La stessa legge n.194 prevede inoltre una stretta sorveglianza da parte del personale sanitario cui è demandata la corretta informazione sul trattamento, sui farmaci da associare, sulle metodiche alternative disponibili e sui possibili rischi, nonché l’attento monitoraggio del percorso abortivo onde ridurre al minimo le reazioni avverse (emorragie, infezioni ed eventi fatali).
Ulteriori valutazioni sulla sicurezza del farmaco hanno indotto il CdA a limitare l’utilizzo del farmaco entro la settima settimana di gestazione anziché la nona come invece avviene in gran parte d’Europa. Tra la settima e la nona settimana, infatti, si registra il maggior numero di eventi avversi e il maggior ricorso all’integrazione con la metodica chirurgica.
Il Consiglio di Amministrazione si è avvalso anche dei pareri forniti dal Consiglio Superiore di Sanità e ha raccomandato ai medici la scrupolosa osservanza della legge.
La decisione assunta dal CdA rispecchia il compito di tutela della salute del cittadino che deve essere posto al di sopra e al di là delle convinzioni personali di ognuno pur essendo tutte meritevoli di rispetto.
È chiaro che se davvero le donne fossero costrette a restare in ospedale fino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza (cioè fino all’espulsione dell’embrione), l’aborto farmacologico diventerebbe sostanzialmente impraticabile: l’espulsione dell’embrione, in questo tipo di intervento, è imprevedibile, e benché avvenga a volte poco dopo l’assunzione del primo dei due farmaci previsti dalla procedura (la RU-486) senza neanche aspettare il secondo (il misoprostol), è possibile anche che passino giorni o, in rari casi, persino settimane. Non c’è bisogno di spiegare che una degenza ospedaliera di durata non prevedibile è inaccettabile per la stragrande maggioranza delle donne; inoltre molti dei vantaggi rispetto all’aborto chirurgico – riduzione dei tempi di attesa, riduzione al minimo dei contatti con l’ambito ospedaliero (in Italia spesso ostile) e dell’impegno logistico delle stesse strutture sanitarie, riconduzione dell’esperienza abortiva nel contesto domestico e degli affetti familiari – sarebbero annullati.
La decisione positiva dell’Aifa è stata dunque una beffa? La risposta non è tanto semplice. Un ospedale non ha infatti il potere di trattenere le donne contro la loro volontà (farlo configurerebbe il reato di sequestro di persona); se una paziente vuole essere dimessa dopo poche ore dalla somministrazione della RU-486 bisognerà accontentarla. Detto questo, è possibile però che la decisione condizionata dell’Aifa possa essere usata domani, una volta constatata la sua inapplicabilità di fatto, come un grimaldello per tornare sui propri passi e ritirare l’autorizzazione concessa.

Due chiarimenti sul comunicato dell’Aifa. Gli «effetti teratogeni» di cui si parla sono le malformazioni che la RU-486 o il misoprostol possono causare al feto, nell’eventualità che dopo la loro somministrazione la gravidanza non si arresti e giunga al termine (può capitare in rarissimi casi). Ovviamente per evitare questa ed altre complicanze basta una visita di follow-up; è vero che alcune donne si sottraggono a questo passo (in genere perché l’interruzione di gravidanza è avvenuta senza problemi), ma un semplice screening delle pazienti da ammettere a questo tipo di aborto può limitare il problema, e la considerazione che anche le donne – checché ne pensino alcuni – sono esseri umani responsabili di sé e delle proprie azioni può servire a inquadrarlo correttamente.
Il richiamo infine all’art. 8 della legge n. 194/1978 è quanto di più pretestuoso si possa concepire. L’articolo in questione specifica quali professionisti siano abilitati a «praticare» l’interruzione di gravidanza e in quali strutture sanitarie possano farlo. Se i farmaci che causano l’aborto vengono somministrati da uno di questi professionisti in una di queste strutture ma l’espulsione dell’embrione avviene altrove, diremo dunque che l’aborto è stato «praticato» dalla donna stessa? E questo sarebbe un caso indistinguibile da quello in cui invece la pillola sia stata somministrata da Amalasunta la Mammana nel sottoscala della sua casa di abitazione di Vicolo dei Miracoli? «Praticare X» significa eseguire l’azione che causa X o fare esperienza dell’effetto X? Se una legge imponesse che la cura dei tumori con la radioterapia venga «praticata» solo da certi specialisti e presso certe strutture abilitate, il paziente dovrebbe per questo essere sempre trattenuto fino all’avvenuta remissione? La risposta sembra ovvia...

4 commenti:

paolo de gregorio ha detto...

Più che altro la decisione stride perché sappiamo (e probabimente sanno all'agenzia) che l'effetto reale sarà che le donne che ricorreranno al farmaco saranno in seguito adeguatamente ignorate dal personale medico e paramedico obiettore. Hai visto mai che se andassero a casa qualcuno preparasse loro un tè caldo con zucchero e limone, ogni tanto?

Il punto cruciale l'ha inquadrato Giuseppe: l'unica differenza sarà che per uscire dovranno mettere una firma su un foglio, invece che essere congedate.

Anonimo ha detto...

Quel che i cattolici integralisti veramente pensano, ma che non hanno, quasi mai, il coraggio di dire...

Intervista a cossiga
http://www.ilfoglio.it/soloqui/3069

"...il male minore è l’aborto chirurgico. Anche per la presa di coscienza cui obbliga: c’è un colloquio da fare, poi un’operazione chirurgica. Qui si tratta di mandar giù una pillola e via..."

In buona sostanza: hai deciso di abortire? E allora devi soffrire il più possibile, il trauma psicologico dell'aborto non è abbastanza.

"...Una parte dei cattolici è convinta che la legge debba essere laica, o meglio senza riferimento a una qualsiasi morale..."

Un modo per dire, tra le righe, che la Laicità porta all'immoralità.

Ma tutto ciò diventa veramente grottesco rileggendo le affermazioni rilasciate pochi mesi or sono del devoto cossiga:

http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/10/23/%C2%ABvoglio-sentire-il-suono-delle-ambulanze%C2%BB/
"Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interni [...] Gli universitari? Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì."

Ma in fondo, in quel caso, si trattava solo di studenti e docenti universitari...

paolo de gregorio ha detto...

Anonimo: forse una riconciliazione logica è possibile farla, se ipotizziamo che a Cossiga piaccia splatter, in entrambi i casi. Tanto che l'embrione deve essere terminato, meglio allora con la violenza fisica che con il veleno. (warning! sarcasm.)

paolo de gregorio ha detto...

Parlando di cattolici della sottoschiera integralista che finalmente dicono quello che veramente pensano. Qualche giorno fa su Repubblica ho letto qualche estratto di commento.

Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita:
"E in definitiva [la pillola Ru486] vuole cancellare fino in fondo l'idea che c'è di mezzo la vita di un figlio. Come si fa a dire che c'era davvero un bambino se per ucciderlo basta bere un bicchier d'acqua o poco più?"

Spesso si dice che uno attribuisce agli altri le proprie paure.

Ma poi, come se la verità dei fatti venisse cancellata dalla censura. Sì, basta un bicchier d'acqua o poco più (non è così anche per il veleno?): e allora? Ciò diventa per caso falso se la pillola viene vietata? Il giudizio morale è per caso legato a questo?

Monsignor Luigi Negri, vescovo della diocesi di San Marino-Montefeltro: questa pillola "sarà usata per togliersi qualsiasi possibilità di avere un imprevisto di carattere medico".

Altro che salute della donna, rischi di infezione se non di decesso. Casomai il contrario.

Ho letto a più riprese affermare, in forme diverse, il concetto che il problema sarebbe che l'importante sia non eliminare il carattere di sofferenza e invasività verso la donna per non derubricare il gesto. Lo dico onestamente: secondo me, al di là di cosa si pensi dell'aborto (io sono un briciolo simpatetico in definitiva con chi ha problemi ad accettarlo), fare questo tipo di riflessioni è indice di un grvissimo problema psicologico, scusate, da cura immediata (prima che queste persone creino danni gravi a se stesse e agli altri). Sembra come se l'aborto per queste persone sarebbe un pizzico più accettabile se, mettiamo per dire, causasse nella donna menomazioni fisiche permanenti, lasciando "i segni inequivocabili" di quel gesto. E poi ci tocca pure stare a disquisire sui reali rischi del farmaco? Ipocrisia allo stato più puro.