Marcello Pera torna sulla tesi che gli è più cara: nella relazione introduttiva a un convegno tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, ripresa in parte dall’Osservatore Romano («I diritti umani? Prima non c’erano», 1 ottobre 2009, p. 4), sostiene che «l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini rispetto ai loro diritti» dipende dalla «legge morale cristiana», per la ragione che «nel cristianesimo, e più in generale nella tradizione biblica, l’uomo è creato a immagine di Dio. E se l’uomo rispecchia Dio fino a essere fatto come lui, allora ogni uomo è una persona, è figlio di Dio, fratello di ogni altro uomo, membro della stessa famiglia». Ne segue che «se si toglie la morale cristiana, si toglie anche il fondamento dei nostri Stati liberali», e «senza quel fondamento, si mette a rischio lo stesso Stato liberale e secolare. Esso diventa una cittadella senza guarnigione: come si potrebbe sostenerlo e difenderlo?». Conclude Pera che «se il secolarismo oggi nega qualunque rapporto fra politica e religione, nega anche il fondamento di quella stessa tolleranza che vuole promuovere e finisce col distruggere se stesso».
Nel suo rozzo schematismo la tesi di Pera è ovviamente da rigettare: la creazione dell’uomo a immagine di Dio non è condizione sufficiente a spiegare la moderna dottrina dell’uguaglianza dei diritti, visto che almeno 1600 anni separano quest’ultima dalle prime formulazioni della morale cristiana, e ancor di più dal primo racconto biblico della creazione. La stessa tradizione biblica, che è molto più varia di quanto alcuni possano pensare, ospita non solo apprezzabili professioni di universalismo, ma anche pagine di crudo particolarismo. Il fatto che la prima parola a essere storicamente traducibile con «uguglianza di fronte alla legge» sia isonomia, che è una parola greca, dovrebbe indurre a qualche riflessione: è vero, donne, schiavi e barbari non facevano parte di quella comunità di uguali, ma la concezione sottostante era fortemente dinamica, dato che nel volgere di pochi anni aveva condotto all’inaudita estensione dei diritti ai nullatenenti di Atene.
Inoltre, la circostanza che la riscoperta umanistica della civiltà greca abbia preceduto di poco le prime formulazioni dell’uguaglianza dei diritti (nonché del moderno metodo scientifico) ha molte meno probabilità della nascita dei diritti in terra cristiana di essere una mera coincidenza, checché ne pensino quanti sembrano ignorare che post hoc, ergo propter hoc è una fallacia logica, non un principio dell’indagine razionale.
Ma la creazione dell’uomo a immagine di Dio non è forse neppure condizione necessaria per spiegare la moderna uguaglianza dei diritti: si pensi soltanto al pensiero di un Seneca, che nelle Lettere a Lucilio poteva scrivere «Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te!» (come qualche ottimista cerca ancora di spiegare a un pubblico chiaramente refrattario), tanto che la tradizione cristiana ha poi tentato di sminuire l’imbarazzante precedente creando dal nulla un’immaginaria corrispondenza del filosofo con San Paolo. Nel contesto umanistico del ritorno all’antico queste idee possono avere avuto un influsso potente. Con il che non si vuole comunque negare il ruolo delle tradizioni bibliche nella nascita del pensiero moderno dei diritti, ma solo mostrare che quel ruolo non è stato probabilmente né unico né insostituibile.
Ma ammettiamo pure, per amore di discussione, che Pera abbia ragione. Cosa ne dovremmo dedurre? Dovremmo fare nostre anche le sue conclusioni sulla promozione della morale cristiana? Vediamo.
Il punto chiave è lo status della «legge morale da cui dipende la cultura dei diritti umani», per usare la terminologia di Pera. Si tratta di un’evidenza di ragione, fondata per esempio sulla constatazione empirica di una sostanziale uguaglianza in certi attributi (autocoscienza, capacità di provare dolore, interesse a vivere) e su un principio razionale di economia che ci imponga di trattare allo stesso modo chi è uguale? In questo caso potremmo dire che la tradizione biblica ha scoperto (assieme eventualmente ad altre tradizioni) un principio indipendente, non che lo fonda. E per comprendere e aderire a quel principio sarebbe allora del tutto superfluo immedesimarsi in tutto e per tutto con coloro che lo hanno scoperto, così come per capire la teoria della relatività speciale è inessenziale essere dei giovani ebrei tedeschi, farsi assumere dall’Ufficio Brevetti di Berna e imparare a suonare il violino.
O si tratta invece di un’ideologia storicamente determinata, che non ha nessuna esistenza indipendente dai gusti e dagli interessi contingenti di chi la propugna? Questa è la tesi del relativismo radicale (ed è curioso che sembri essere anche la tesi di Marcello Pera, che contro il relativismo tuona ogni tre per due; che non si sia accorto della contraddizione?); tesi opposta a quella precedente, ma non nelle conclusioni. Infatti, in assenza di un principio astorico razionale, in nome di che cosa dovremmo opporci alla fine della morale cristiana e, con essa, nell’ipotesi, alla fine dell’ideologia dell’uguaglianza dei diritti? Le nostre preferenze ovviamente cambierebbero di conseguenza – anzi, secondo chi la pensa come Marcello Pera sarebbero già cambiate: il nichilismo sta già avanzando, e l’eugenismo, e la mentalità eutanasica... Perché opporre resistenza al flusso della storia (cosa sempre scomoda e pericolosa) se ammettiamo che le nostre preferenze sono storicamente determinate? Ancora un attimo, ed esse saranno diverse: opprimeremo con gioia i deboli e schiacceremo con gusto gli inferiori. Certo, la prospettiva sarebbe diversa per questi ultimi (e per gli inguaribili nostalgici del passato), che avrebbero tutto l’interesse a mantenere la «vecchia» uguaglianza dei diritti; ma neppure per loro seguirebbe la necessità di aderire alla morale cristiana. Perché stare a cincischiare con fondazioni indirette dell’uguaglianza, infatti, quando sono in gioco interessi vitali? Che bisogno ha, il malato congenito, di riandare al racconto della creazione, quando (nell’ipotesi) ciò che lo motiva è la propria volontà di salvare la pelle ed evitare l’iniezione letale?
Si potrebbe obiettare che questa dicotomia è un po’ troppo schematica; che, per esempio, i diritti umani si basano sì su un imperativo categorico autonomo, ma che ciò non basta – specie presso le masse più riottose – a far sì che quest’ultimo sia seguito e praticato con coerenza. In questo caso la religione diventa per così dire instrumentum regni, e aiuta a perseguire l’ideale in sé giusto dell’uguaglianza, fornendo motivazioni più immediate e comprensibili.
Qui la risposta non può più rifarsi a ragionamenti di principio, ma deve appellarsi a un criterio squisitamente empirico: è vero o no che la morale cristiana aiuta il progresso dei diritti? Nel nostro paese la morale cristiana è identificata in genere con l’insegnamento della Chiesa; ci chiederemo allora: la Chiesa è stata ed è a favore dell’uguaglianza dei diritti degli omosessuali? La Chiesa è stata storicamente la forza propulsiva dietro le richieste del movimento delle donne? La Chiesa ha favorito le richieste di uguaglianza giuridica delle varie classi subalterne che si sono succedute, dalla Rivoluzione Francese fino a oggi? Lascio la risposta a Marcello Pera, nel pezzo che stiamo qui commentando: «non è un’obiezione che la Chiesa cattolica abbia impiegato quasi due millenni per proclamare formalmente i diritti umani, o che molti prelati di casa nostra pongano ancora mano all’aspersorio al solo sentir parlare di liberalismo […]. Il punto è concettuale». Tutto giusto – tranne per il fatto che il punto, qui, come abbiamo appena detto, non è concettuale ma empirico. E qui la Chiesa fallisce; fallisce miseramente. Il 20 giugno 1866, in risposta ai dubbi di un vicario apostolico in Etiopia, il Sant’Uffizio rispondeva che, a certe condizioni, «non ripugna al diritto naturale e divino che un servo sia venduto, comprato, scambiato, donato». Nel 1866, non nell’Alto Medioevo.
Lascio aperta la possibilità che una fede cristiana non confessionale, indipendente o perfino opposta alle Chiese organizzate, possa comunque essere d’appoggio alla causa dell’uguaglianza dei diritti; il futuro, sempre più secolarizzato (almeno fuori d’Italia) ce lo dirà. Ma certo non è a questo che si riferiva Marcello Pera; si può stare sicuri che l’Osservatore non gli avrebbe altrimenti pubblicato la relazione...
venerdì 2 ottobre 2009
Marcello Pera e i diritti
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8 commenti:
Marcello Pera e i diritti. Sono due cose che non stanno nella stessa frase.
splendido post, grazie.
Questo non lo linko, lo rubo.
Pera è,ahimè,mio concittadino. E' noto per avere sostenuto in tutta la sua vita le posizioni più disparate al servizio di vari diversi "ideali". Sono epiche le giravolte del suo percorso mentale e culturale. Ha rivestito il suo ruolo istituzionale in un modo così fazioso che solo Schifani è in grado di competere, e da presidente del Senato, ha imbastito una guerra di potere contro il sindaco della sua città ( del suo stesso partito),di cui se ne pagano ancora le conseguenze. Che altro dire?
Posso dire: parole sante? sono in arrivo dal caro Laicista, scusa l'intrusione.
Gians: sei il benvenuto!
Io credo, o spero, di essere un relativista conseguente, ed in un certo senso concordo con Pera riguardo ai legami genealogici che legano la tradizione monoteista, giudeocristiana in particolare, con cultura della "uguaglianza di tutti gli uomini rispetto ai loro diritti" (cfr. http://www.dirittidelluomo.org).
Ma, senza voler con questo sorvolare con la natura molto controversa della opposizione a tale cultura da parte ad esempio di Slavoj Žižek (http://www.newleftreview.net/?page=article&view=2573) o del sotoscritto, non c'è dubbio che è tale complesso rapporto di filiazione che deriva ad esempio l'idea di una riduzione della sovranità popolare, nella fondamentale legislazione che riguarda appunto la materia dei diritti soggettivi, ad un ruolo puramente notarile rispetto ad una "legge di natura" valevole ovunque e per sempre.
Una legge il cui segreto sarebbe scrutato unicamente dai chierici che la possiedono quale verità rivelata, e che perciò ben avrebbero il diritto di imporne l'osservanza a parlamenti come a cittadini, ai giudici come ai "barbari" stranieri.
Direi che però non bisogna confondere la legge di natura del tomismo, che deriva valori "universali" da un supposto finalismo intrinseco alle cose, con derivazioni razionalistiche di principi di giustizia più generali (à la Kant, Rawls, Gewirth, etc.). E' la prima alla base delle pretese odierne dei chierici, non le seconde. Dall'altra parte ogni negazione di diritti pregiuridici rischia appunto di porre nella stessa compagnia di Pera & Co.: se è la sovranità popolare l'ultima fonte del diritto, diventa difficile opporre argomenti alle pretese smodate di maggioranze cattoliche, cui non manca per giunta la combattività.
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