Dunque: un quotidiano italiano pubblica un pezzo su una ricerca apparsa l’anno scorso in una autorevole rivista scientifica. Lo studio esaminava le modalità con cui l’eutanasia infantile viene praticata in un paese europeo in cui si parla olandese, e riportava il numero di casi in cui la morte di un infante è preceduta da una decisione medica. Il giornalista italiano travisa il significato del dato, e straparla indignato della strage di innocenti in atto in quel paese.
«Noooo, basta!», grideranno i lettori di Bioetica. «Ancora a rivangare la storia di Giulio Meotti che ha capito Roma per toma, e ha scambiato 600 casi di morti infantili in Olanda “precedute da una decisione medica” per altrettanti casi di eutanasia? Sappiamo già tutto, grazie: l’articolo sul Protocollo di Groningen pubblicato nel 2005 dal New England Journal of Medicine, il pezzo sul Foglio del 9 marzo, la figuraccia co(s)mica denunciata da almeno un giornalista e da tre o quattro blogger, e Il Foglio che fa finta di niente (ma lancia un concorso per trovare errori introdotti a bella posta nelle sue colonne: così chi si imbatte nel prossimo sfondone pensa “Uh, no, questo è per il gioco”)».
Tranquilli, non è una storia vecchia. Perché il quotidiano è Avvenire, la ricerca è stata pubblicata da Lancet, il paese è il Belgio (e più precisamente le Fiandre), il giornalista si chiama Lorenzo Fazzini, e il suo articolo è stato pubblicato il 13 aprile («Eutanasia infantile, il Belgio è tentato», p. 4 dell’inserto). Solo l’errore è praticamente identico nei due casi.
Cominciamo dall’articolo di Avvenire:
un altro dato, a dir poco agghiacciante, [è stato] rivelato l’anno scorso dalla prestigiosa rivista scientifica The Lancet: secondo una ricerca, nella regione di lingua olandese del Belgio la metà dei neonati poi successivamente morti sono stati “aiutati” a morire dagli stessi dottori che li avevano in cura.
Vediamo invece cosa dice veramente lo studio originale (Veerle Provoost
et al., «
Medical end-of-life decisions in neonates and infants in Flanders»,
Lancet 365, 2005, pp. 1315-20):
Paediatricians are confronted increasingly commonly with end-of-life decisions in relation to extremely ill patients. Three main categories of such decisions were addressed in this study: the withholding or withdrawal of potentially life-prolonging treatments; the alleviation of pain and clinical signs with opioids in doses that could potentially shorten life; and the administration of drugs with the explicit intention of shortening the patient’s life.
Va subito premesso che le
end-of-life decisions non sono necessariamente le decisioni mediche che
causano la morte di un paziente, ma piuttosto le decisioni mediche che affrettano o possono affrettare la morte di un paziente: il medico che rimanda a casa a morire in pace il malato di cancro su cui le terapie non hanno quasi più effetto prende una
end-of-life decision che potenzialmente può affrettare di poco la fine del paziente, ma ovviamente in questo modo non uccide nessuno. E infatti, mentre la terza categoria di cui parlano gli autori dello studio è effettivamente composta di bambini sottoposti ad eutanasia attiva, la seconda categoria non ha ovviamente nulla a che fare con l’eutanasia: si tratta di bambini sottoposti a cure palliative del tutto legali. La prima categoria è invece più incerta: può comprendere sia bambini per i quali si rinuncia all’accanimento terapeutico (che anche la Chiesa Cattolica non ritiene obbligatorio), sia bambini sottoposti alla cosiddetta eutanasia passiva. Qual è la differenza? Possiamo adottare questa definizione: rifiutare l’accanimento terapeutico significa rinunciare a prolungare dolorosamente l’agonia di un morente; praticare l’eutanasia passiva significa invece causare la morte (attraverso la rinuncia a intraprendere o proseguire le cure) per risparmiare a un paziente non terminale una vita di sofferenze intollerabili. Non esiste un confine netto tra le due pratiche, ma concettualmente sono ben distinte.
Vediamo adesso un po’ di numeri. Su 298 bambini morti nelle Fiandre tra il 1999 e il 2000 a meno di un anno di vita, è stato possibile ricostruire le cause del decesso in 253 casi. Di questi, 110 non sono stati preceduti da una decisione sulla fine della vita; dei restanti 143, in 86 i medici hanno deciso di non iniziare o di sospendere i trattamenti, in 40 hanno somministrato oppioidi per controllare il dolore, e in 17 hanno posto fine direttamente alla vita dei piccoli pazienti. Per arrivare alla metà (scarsa) dei 253 di cui parla Lorenzo Fazzini, si dovrebbero sommare
tutti gli 86 casi del primo gruppo ai 17 del terzo. Ma il primo gruppo, come abbiamo visto, potrebbe comprendere anche casi di rinuncia all’accanimento terapeutico; come fare a distinguere? Una maniera, sia pure piuttosto rozza, consiste nel misurare l’accorciamento della vita in seguito alla decisione medica, valutato dai pediatri che avevano in cura i bambini: molto – forse troppo – prudentemente, fissiamo a una settimana il limite tra rinuncia all’accanimento terapeutico ed eutanasia passiva. Ebbene, i casi in cui la vita del bambino è stata abbreviata di più di sette giorni sono 26; purtroppo i dati riportati non consentono di assegnarli tutti con certezza alle tre categorie già definite. Se, irrealisticamente, li attribuiamo tutti alla prima, allora avremo
al massimo un totale di 43 casi tra eutanasia passiva e attiva (26+17): meno di un sesto dei 253 totali. E, ripeto, si tratta di una valutazione sicuramente errata per eccesso.
In conclusione, possiamo avanzare le seguenti tre ipotesi esplicative: ad
Avvenire non sanno leggere un articolo scientifico; oppure non conoscono il catechismo della Chiesa Cattolica; oppure distorcono volontariamente la realtà. Escluderei recisamente quest’ultima spiegazione; rimangono in piedi le prime due.