domenica 30 agosto 2009

Deduzioni convergenti

Giuseppe D’Avanzo sulla Repubblica di oggi a proposito dell’«informativa» su cui si è basato Il Giornale per attaccare Dino Boffo («Su Boffo una velina che non viene dal Tribunale», 30 agosto 2009, p. 1):

È falso che quella “nota” accompagni l’ordinanza del giudice, come riferisce il Giornale. L’“informativa” riepiloga l’esito del procedimento. Non è stata scritta, quindi, durante le indagini preliminari, ma dopo che tutto l’affare era già stato risolto con il pagamento dell’ammenda. Dunque, non è un atto del fascicolo giudiziario. […] La “nota informativa”, pubblicata dal Giornale del presidente del Consiglio, è dunque soltanto una “velina” che qualcuno manda a qualche altro per informarlo di che cosa è accaduto a Terni, anni addietro, in un “caso” che ha visto coinvolto il direttore dell’Avvenire.
[…]
Risolte le domande preliminari, bisogna ora affrontare il secondo aspetto della questione: chi è quel qualcuno che redige la “velina”? Per quale motivo o sollecitazione? Chi ne è il destinatario?
C’è un secondo stralcio della cronaca del Giornale che aiuta a orientarsi. Scrive il quotidiano del capo del governo: “Nell’informativa si legge ancora che (...) delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo ‘sono a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori’”. C’è qui come un’impronta. Nessuna polizia giudiziaria, incaricata di accertare se ci siano state o meno molestie in una piccola città di provincia (deve soltanto scrutinare i tabulati telefonici), si dà da fare per accertare chi sia o meno a conoscenza nella gerarchia della Chiesa delle presunte “debolezze” di un indagato. Che c’azzecca? E infatti è una “bufala” che il documento del Giornale sia un atto giudiziario. È una “velina” e dietro la “velina” ci sono i miasmi infetti di un lavoro sporco che vuole offrire al potere strumenti di pressione, di influenza, di coercizione verso l’alto (Ruini, Tettamanzi, Betori) e verso il basso (Boffo). È questo il lavoro sporco peculiare di servizi segreti o burocrazie della sicurezza spregiudicate indirizzate o messe sotto pressione da un’autorità politica spregiudicatissima e violenta. È il cuore di questa storia. Dovrebbe inquietare chiunque. Dovrebbe sollecitare l’allarme dell’opinione pubblica, l’intervento del Parlamento, le indagini del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), ammesso che questo comitato abbia davvero la volontà, la capacità e soprattutto il coraggio civile, prima che istituzionale, di controllare la correttezza delle mosse dell’intelligence.
Conclusioni molto simili le avevate già lette due giorni fa qui.

sabato 29 agosto 2009

Jesus vs Satan?

The fundamentalist community has a strong interest for some bizarre reason in converting homosexuals into heterosexuals. They consider homosexuality nothing but a bad personal choice, and therefore all gay people need is a little Jesus and they'll switch back to finding the other sex more attractive.

It never seems to occur to them that that implies that their own sexual orientation would then be an arbitrary matter of a trained esthetic, and that that would imply that they should be easily flipped into homosexuality themselves (probably with a little Satan). It's strange: I'd be rather upset if a group of Baptists tried to brainwash me into thinking Al Mohler, president of the Southern Baptist Theological Seminary, was a hot dude I ought to fantasize about.
Gay conversion works! If you ignore the data and the methods, that is, PZ Myers.

venerdì 28 agosto 2009

Il caso Boffo e la forza della Chiesa

La vicenda di Dino Boffo, direttore del quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, che il Giornale di Vittorio Feltri sostiene oggi essere stato condannato nel 2004 per molestie a una donna (Gabriele Villa, «Boffo, il supercensore condannato per molestie», 28 agosto 2009, p. 3; la notizia era già apparsa in forma parziale tempo fa su Panorama, come si legge in un post di Malvino dell’epoca), in una palese ritorsione per i giudizi negativi espressi da Boffo sulle propensioni sessuali del Presidente del Consiglio, si presta a molteplici riflessioni (ammesso naturalmente che la notizia si riveli fondata: in un comunicato di pochi minuti fa Boffo accusa il Giornale di avere montato «una vicenda inverosimile, capziosa, assurda», e annuncia velatamente querela). Una riflessione, in primo luogo, sull’involuzione sempre più smaccatamente autoritaria di un capo del governo che risponde con l’intimidazione e il dossieraggio alle critiche della stampa – non sembra una coincidenza che la vicenda coincida con la querela di Berlusconi a Repubblica; sulla miseria del Giornale, che tiene a rivelarci la presunta omosessualità di Dino Boffo (la fonte che Villa cita riporterebbe che «il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione»), ben sapendo che per una larga fetta del suo pubblico è questa – e non tanto la persecuzione di una donna – la ‘colpa’ vera; sulla perdurante propensione della Polizia alla schedatura degli omosessuali in quanto omosessuali, come sembra emergere dal passo citato (l’«attenzionamento» precede chiaramente i fatti di rilevanza penale imputati a Boffo); sull’ipocrisia del direttore di Avvenire – se davvero fosse omosessuale – che dirige un giornale che non è mai stato noto per la sua indulgenza nei confronti degli omosessuali che praticano la propria sessualità.

Due riflessioni meritano un po’ più di spazio. La prima è sulla fonte del Giornale: all’inizio dell’articolo si cita «la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore del quotidiano Avvenire, disposto dal Gip del Tribunale di Terni il 9 agosto del 2004», e si aggiunge subito dopo che «Copia di questi documenti da ieri è al sicuro in uno dei nostri cassetti». La prima impressione è che la fonte sia un atto giudiziario di qualche tipo, appena precedente il rinvio a giudizio o contemporaneo ad esso; ma più avanti nell’articolo la fonte citata, sempre tra virgolette, ci informa dell’esito del processo, e deve essere quindi posteriore al rinvio al giudizio. Capiamo infine di che genere di informativa si tratti alla fine del pezzo: «Nell’informativa, si legge ancora che della vicenda, o meglio del reato che ha commesso e delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo, “sono indubbiamente a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori”». Questo genere di deduzioni sembra tipico di un’informativa dei servizi segreti; se questo è vero, vuol dire che la situazione è arrivata a un punto grave; si noti come il Giornale non tenti di mascherare più di tanto la natura della fonte, in un gesto dal valore intimidatorio – pour encourager les autres, diciamo. A meno che – ipotesi meno probabile ma da non scartare – non si sia voluta dare l’apparenza di una fonte proveniente dai servizi segreti a un documento costruito in casa...
L’ultima riflessione è su come reagiranno le gerarchie ecclesiastiche a questa sfida. Non leggeremo mai più sulla stampa controllata dalle gerarchie una critica alle imprese di «Papi», e la pace riconquistata tra esecutivo e Vaticano verrà magari celebrata sulla pelle dei malati in stato vegetativo? O assisteremo al contrario a un’escalation, con una rottura totale fra Vaticano e governo di centrodestra? La risposta, credo, dipenderà in massima parte dalla percezione che la Chiesa ha del proprio potere nella politica e, soprattutto, nella società. Il Vaticano può scegliere la via più semplice e chinare la testa; ma in questo modo avrà mostrato a tutti di essere ormai soltanto una tigre di carta.

giovedì 27 agosto 2009

Sì, viviamo più a lungo

È uno dei vanti della modernità: grazie ai progressi della medicina, delle tecniche di conservazione dei cibi e di trattamento delle acque reflue etc., viviamo più a lungo dei nostri predecessori; sempre più a lungo. Negli Stati Uniti, per esempio, la speranza di vita alla nascita era di 45,6 anni nel 1907, di 66,4 nel 1957 e di 75,5 nel 2007. I nemici della modernità non possono negare queste cifre; hanno tentato quindi di screditarle con un argomento che si sente ripetere spesso. La speranza di vita, sostengono, è aumentata più che altro a causa della diminuzione della mortalità infantile (cioè del numero di bambini minori di un anno morti per ogni mille nati vivi), che sempre negli Stati Uniti era di 99,9 nel 1907, 26,3 nel 1957 e 6,8 nel 2007. Non è dunque che nel 1907 la gente cadesse morta a frotte prima di arrivare a 46 anni; piuttosto, per chi superava lo scoglio dell’alta mortalità infantile, che faceva abbassare la media, la durata della vita residua era paragonabile alla nostra, che è poi ancora quella biblica: «settanta sono gli anni della nostra vita (ottanta per i più robusti)».
Già dal punto di vista dei valori in gioco questo argomento è criticabile: la sconfitta quasi totale della mortalità infantile è una conquista immensa, che ha cancellato lo strazio di chi vedeva buona parte dei propri figli morire. (Se ricordo bene, ho visto usare l’argomento in questione anche da alcuni integralisti, per i quali curiosamente la vita dei bambini minori di un anno sembrava non costituire un bene così fondamentale: si vede che per loro vale più quella degli embrioni...) Ma c’è di più: l’argomento è sbagliato anche di fatto, come ci aiuta a capire John Hawks sul suo blog («Human lifespans have not been constant for the last 2000 years», John Hawks Weblog, 25 agosto 2009):

Well, it’s just not true. You can see for yourself easily with a little reading. For example, a free article (PDF) by John Bongaarts and Griffith Feeney reviews the concepts and provides convenient summary figures of mortality rates by age in the U.S. for 1950 and 1995. Age-specific mortality rates have declined across the adult lifespan. A smaller fraction of adults die at 20, at 30, at 40, at 50, and so on across the lifespan. As a result, we live longer on average. Reductions in juvenile and infant mortality also contribute to increased life expectancy at birth, but the same trend is evident if we consider life expectancy at 15, 20, 30, or even 80. We live longer now than in the past.
What about 2000 years ago? […] there’s no doubt that Romans, Egyptians, and Greeks were dropping dead at age 30, 40, 50 and 60 – at much higher age-specific mortality rates than today […] if human lifespan had really not changed in 2000 years, then 35-year-olds shouldn’t have left their skeletons very often in the Roman catacombs. Unfortunately (for them), we find those 35-year-old bodies. A rough estimate (gleaned from tomb inscriptions that give ages) is that half of Romans who lived to age 15 – and therefore escaped juvenile mortality – were dead before age 45.
[…]
In every way we can measure, human lifespans are longer today than in the immediate past, and longer today than they were 2000 years ago. Infant and juvenile mortality do make a difference – especially if we use “life expectancy at birth” as the statistic – but age-specific mortality rates in adults really have reduced substantially.
That’s a good thing!
Più empiricamente, ricordo di aver letto anni fa l’epistolario di Emily Dickinson, che copriva grosso modo il periodo a cavallo del 1850: quel che colpiva di più era la sequenza inarrestabile, angosciante, terribile di morti – morti non solo di infanti o di anziani, ma di giovani adulti. Morti a cui avrebbe posto fine solo l’installazione di una moderna rete fognaria: uno di quei ritrovati bassamente materialistici che i nemici della modernità usano così spesso deridere.

mercoledì 26 agosto 2009

Gay Liberation Monument

Gay Liberation Monument

Gay Liberation Monument by George Segal.
Cristopher Park, New York City (set).

La doppia etica della vita

Un articolo che vale la pena riportare integralmente: Chiara Saraceno, «La doppia etica della vita» (La Repubblica, 24 agosto 2009, p. 1).

Il Bossi che se la piglia con le parole di condanna del Vaticano sulla crudeltà dei respingimenti è lo stesso che parla di identità cristiana-cattolica e di valori cristiano-cattolici quando vuole contrapporre il “noi” italiano (e meglio ancora padano) al “loro” dei migranti. Il Giovanardi che dichiara che parlare di Shoah nel caso delle centinaia (migliaia) di migranti che muoiono lungo le vie della migrazione – nei deserti, nelle prigioni libiche, in mare – è lo stesso che non fa una piega quando papa e vescovi parlando dell’aborto come assassinio, che si è scatenato contro la pillola Ru486, che parla degli embrioni appena fecondati come fossero esseri umani da proteggere (purché italiani, ovviamente).
Insieme al governo e alla maggioranza di cui fanno parte, ed anche con l’attivo sostegno di una parte dei cattolici dell’opposizione, hanno sostenuto le posizioni della Chiesa in difesa della “vita nascente” e perché si continuino a mantenere artificialmente in vita corpi che hanno ormai perduto ogni traccia di vita umana. Hanno promosso leggi “in difesa della vita”. E sempre “in difesa della vita” si sono opposti e si oppongono fino allo spasimo vuoi a sentenze dei tribunali, vuoi a pareri dei medici e delle comunità scientifiche. Apparentemente va bene difendere gli embrioni (italiani) e accanirsi su corpi impotenti (italiani) in nome della vita e dell’etica cristiana, chiamando assassini coloro che invece cercano di distinguere tra esseri umani e esseri che non lo sono ancora o non più. Quando si tratta di immigrati invece cadono tutti i principi, tutte le norme di difesa della vita e della dignità della persona. Gli immigrati sono vite impunemente spendibili, senza valore, meno umani di un embrione al primo stadio e di un corpo da cui si è allontanato ogni barlume di coscienza e di capacità di vita (respirare, nutrirsi) autonoma. E questa siderale distanza nel valore attribuito alla vita umana che deve dare scandalo, non il fatto, in sé del tutto legittimo, di reagire anche duramente ad un giudizio della Chiesa cattolica. Non soccorrere chi è in pericolo, rimandare, come si sta facendo, chi arriva sulle nostre coste nei paesi da cui provengono senza contestualmente preoccuparsi dei rischi per la loro vita che in molti casi questo comporta – è uno scandalo in sé, a prescindere dalle idee che si hanno su aborto e fine vita.
Ma diventa intollerabile, inaccettabile, se queste azioni sono promosse da chi, quando si tratta di aborto, fecondazione assistita, fine vita e testamento biologico, dichiara di aderire al concetto di vita umana proposto dalla Chiesa cattolica e lo impone per legge a tutti. Per una volta, verrebbe da dire finalmente, la Chiesa cattolica ha usato nei confronti delle morti tra i migranti per mancanza di soccorso e solidarietà umana termini simili a quelli che normalmente riserva a chi decide di abortire o di porre fine a una vita solo artificiale. A mio parere si tratta di situazioni assolutamente incomparabili. E l’accusa di esagerazione, rivolta da Bossi e Giovanardi alle parole del vescovo Vegliò, presidente della pontificia opera per i migranti, dovrebbe riguardare piuttosto l’accusa ricorrente di assassinio per le donne che abortiscono e per chi pietosamente sospende le cure a chi non può vivere più. Non il fatto di denunciare le responsabilità politiche e umane di chi abbandona al proprio destino di morte i disperati delle migrazioni, impaurendo e minacciando di sanzioni anche chi vorrebbe aiutarli. Non è il laicismo che sta corrodendo le basi morali della nostra società. È piuttosto l’uso strumentale della religione per scatenare campagne amico-nemico, noi loro, buoni-cattivi, salvo poi rivendicare ogni possibile eccezione quando serve, nei comportamenti privati come nelle politiche pubbliche.

martedì 25 agosto 2009

Sulla testa di Monsignor Fisichella

Salvatore Dama, «Cena Vaticano-PdL contro la legge sui gay» (Libero, 24 agosto 2009, p. 17):

È il rettore della cappellania della Camera. Ruolo che gli offre un osservatorio privilegiato, ma anche un canale di relazione diretta con la politica. Una sorta di ambasciatore della Santa Sede presso il Parlamento. Si tratta di monsignor Rino Fisichella. E capita che il Vaticano possa affidargli dei messaggi da far pervenire al di qua del Tevere. Alla maggioranza e al governo. L’ultima volta? Alcune settimane fa – era già agosto, le Camere chiuse per ferie – quando Fisichella ha cenato con un gruppo di parlamentari del Popolo della Libertà. Onorevoli scelti tra quelli considerati più vicini alle posizioni della Chiesa. Due le questioni intavolate: il progetto di legge sull’omofobia e quello che istituisce i DiDoRe, diritti e doveri delle coppie conviventi. Il Vaticano, e non è una notizia, è contrario a entrambe le iniziative legislative. Il timore è che si finisca per introdurre nella legislazione italiana una terza identità di genere: dopo la donna e l’uomo, l’omosessuale. E ciò, pur nella convinzione che le discriminazioni sessuali vadano punite, per la Santa Sede è inconcepibile. Non i presunti festini del presidente del Consiglio: sono questi i temi per cui l’alto prelato si sarebbe detto «molto preoccupato». Ed è a quel punto che i commensali avrebbero dato rassicurazioni. I DiDoRe sono finiti in un cassetto. E lì rimarranno per il resto della legislatura.
L’omofobia? La proposta di legge è ferma in Commissione a Montecitorio. E, caso unico a Palazzo, il relatore di maggioranza del provvedimento appartiene alla minoranza: la deputata del Partito democratico Paola Concia. Il PdL, in pratica, molla la pratica in mano all’opposizione e lascia libertà di coscienza ai suoi. Il che significa che quel testo non passerà mai. La maggioranza non alzerà un dito perché ciò accada. […]
La notizia della cena sembra credibile, vista la fonte (che comunque mi sembra mostrare qualche accento inusitato – lasciando da parte l’orrendo svarione sulla «terza identità di genere»). E del resto è ben noto che simili cose accadono.
Non so quanto potrebbe essere efficace la legge contro l’omofobia; ma provvedimenti come questo contribuiscono anche indirettamente a mutare un clima culturale. Per questo, il sangue degli aggrediti di questi giorni ricade in parte anche sulla testa di Monsignor Fisichella e dei suoi commensali.

lunedì 24 agosto 2009

Il diritto alla alimentazione è in verità il dovere di prendersi un tubo ficcato in pancia senza fiatare


Esiste qualcosa di più odioso della imposizione, ed è una imposizione mascherata da diritto, da privilegio. Insomma qualcosa che potrebbe prendere il nome di presa per il culo senza timore di usare una espressione troppo forte o troppo colorita.
Il nostro caro ministro del Welfare Maurizio Sacconi non è nuovo a dichiarazioni insensate e stavolta anche l'intervistatore meriterebbe una dura critica («Salari differenziati dai nuovi contratti o saltano gli sgravi alle retribuzioni»: una intervista su vari temi di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, 24 agosto 2009, che non fa una piega, non aggiunge un commento, non fa una domanda per denudare le fandonie del caro ministro, niente: le parole riportate con un copia-incolla che non meriterebbe una firma in fondo alla pagina. Viene da pensare che se le dichiarazioni di Sacconi sugli altri temi sono del tenore di quelle che stiamo per commentare non c'è davvero da stare allegri... perdonate se non ho voglia di leggermi tutto il papiello).

Sulla bioetica tutto il governo ha avuto finora posizioni laicamente unitarie, a vole­re difendere e attuare la legge 194 e rigorosamen­te verificare la compatibilità della pillola Ru486 con la legge stessa. Proprio perché riteniamo che si debbano salvaguardare i criteri che hanno evi­tato la solitudine della donna di fronte al dramma dell'interruzione di gravidanza. E per la regolazio­ne della fine di vita tutto il governo si è espresso a favore del diritto inalienabile all'alimentazione e all'idratazione per chi non è autosufficiente. A questo proposito, per attenuare la conflittualità parlamentare, potremmo ipotizzare l'immediata approvazione di queste norme rinviando a solu­zioni più condivise quelle relative alle dichiarazio­ni anticipate di trattamento.
Laicamente? Verrebbe da chiedere a Sacconi quale sia la sua strampalata idea di laicità perché di laico ultimamente in Italia si è visto davvero poco, e non per difetto di osservazione.
E anche sulla difesa della 194 verrebbe da interrogare il ministro: conosce le percentuali degli obiettori di coscienza? O i problemi delle attese e delle carenze del personale? Sa di cosa sta parlando o parla tanto perché si trova davanti qualcuno che gli fa le domande?
Infilare il dramma delle donne e la loro solitudine è davvero squallido da parte di chi è almeno corresponsabile di quanto accade negli ospedali, della solitudine causata dalle circostanze in cui molte donne si trovano ad abortire, la solitudine e le difficoltà non intrinseche nella decisione di abortire ma determinate dalle condizioni logistiche e culturali di un Paese in cui la possibilità di interrompere una gravidanza è troppo spesso carta straccia.
Ma il meglio deve ancora venire: il diritto alla nutrizione (nutrizione, ministro, nutrizione e non alimentazione perché come diceva sarcasticamente qualcuno le parole sono importanti e, aggiungerei, veicolano un mondo concettuale che è meglio avere chiaro e non incasinato come nella testa di Sacconi ove diritto e dovere si mischiano, nutrizione e alimentazione pure, libertà e laicità sono svuotate di significato)! Il diritto nessuno lo mette in discussione, nessuno che sia un essere ragionante e ragionevole. Ma qui non si parla di diritto (qui come nel ddl Calabrò, tanto per ricordare quel capolavoro legislativo e umano), ma di dovere. Si parla di qualcuno che decide per tutti gli altri, perché noi cittadini siamo tutti coglioni che devono essere nutriti e assistiti più o meno solo quando non lo vogliamo. Per tutto il resto c'è mastercard. Gli altri possono anche fottersi.

domenica 23 agosto 2009

Vito, rileggi l’Eutifrone

Roberta De Monticelli polemizza dalle pagine di Repubblica con Vito Mancuso («I valori condivisi dell’umanesimo ateo», 22 agosto 2009, pp. 40-41), che qualche giorno fa ha in parte dato ragione al papa nell’affermare che l’etica senza fondamento trascendente non è capace di sostenersi autonomamente ma può soltanto dar luogo al nichilismo.

Ed ecco l’argomento a difesa della tesi che l’umanesimo ateo non implica necessariamente il nichilismo morale. Risale a Platone, a quel suo dialogo che libera l’etica dalla religione. Sostenere che ateismo implica nichilismo è sostenere che se Dio non c’è tutto è permesso. Ma questa tesi è vera solo se, nel dilemma di Eutifrone, è vero uno dei due corni dell’alternativa: il bene è bene perché Dio lo vuole. Solo in questo caso, evidentemente, se Dio non c’è, “tutto è permesso”. Non c’è una differenza fra il bene e il male. Allora, “bene” è ciò che di volta in volta gli uomini decidono che sia – e chi ha il potere lo decide per gli altri, e a chi vi si oppone non resta che appellarsi a se stesso. Questo è il volontarismo, la tesi cioè che non c’è verità e falsità nelle questioni di valore, ma solo le volontà (e il loro conflitto). Ma naturalmente può invece essere vera la tesi alternativa del dilemma: che, semmai, Dio vuole il bene perché è bene. In questo caso, anche se Dio non c’è, il bene resta bene, il male male.
È nelle cose umane stesse che ci sono qualità positive e negative. Ripagare con cariche pubbliche favori privati è male. Ogni forma di mafiosità dei comportamenti è un male. Ogni volta che ce ne sdegniamo, facciamo esperienza del bene e del male. Certo, un’interpretazione dell’umanesimo ateo che implica il nichilismo c’è, ed è precisamente quella volontaristica. Fu quella, ad esempio, di Sartre – ed è oggi la tragedia di quella cultura anche progressista e liberale che non riesce a liberarsi dal relativismo valoriale. Addio alla verità è il titolo dell’ultimo libro di un influente filosofo postmoderno e mi pare si commenti da se. Ma dovremmo forse decretare che non può esistere un ateismo compatibile con l’etica?
Questo sarebbe confondere l’ethos – che è lo stile di vita e la scala di valori, la vocazione e la fede, l’identità personale o morale di ciascuno – con l’etica, che è il dovuto da ciascuno a tutti. E il primo dovere etico qual è, se non quello di accordare all’ethos del mio simile ateo, purché si dimostri compatibile con l’etica, lo stesso rispetto che esigo per il mio? Non è questa una versione della regola aurea?
La distinzione tra ethos ed etica è fondamentale. Quando i laici sostengono che esistono infinite concezioni del bene, tutte potenzialmente valide, e infinite scale di valori, fra loro non commensurabili, si riferiscono quasi sempre a ciò che è bene per l’individuo, ai valori che questo persegue nella sua sfera personale; all’ethos, non all’etica. Nelle questioni di giustizia, in ciò che si deve fare nei rapporti interpersonali, non c’è posto per il relativismo (pur nel riconoscimento della problematicità e della varietà delle teorie morali, com’è inevitabile per chi si pone al di fuori dell’aderenza cieca al dogma).

Where’s the Rulebook for Sex Verification?

So where do we draw the line between men and women in athletics? I don’t know. The fact is, sex is messy. This is demonstrated in the I.A.A.F.’s process for determining whether Semenya is in fact a woman. The organization has called upon a geneticist, an endocrinologist, a gynecologist, a psychologist and so forth.

Sex is so messy that in the end, these doctors are not going to be able to run a test that will answer the question. Science can and will inform their decision, but they are going to have to decide which of the dozens of characteristics of sex matter to them.

Their decision will be like the consensus regarding how many points are awarded for a touchdown and a field goal — it will be a sporting decision, not a natural one, about how we choose to play the game of sex.

These officials should — finally — come up with a clear set of rules for sex typing, one open to scientific review, one that will allow athletes like Semenya, in the privacy of their doctors’ offices, to find out, before publicly competing, whether they will be allowed to win in the crazy sport of sex. I bet that’s a sport no one ever told Semenya she would have to play.

Da leggere tutto (Alice Dreger sul New York Times di oggi). Inutile cercare articoli di questo spessore sui nostri idioti quotidiani.

sabato 22 agosto 2009

Il problema è l’autonomia

Silvia Ballestra si conferma uno dei commentatori più sensibili e ragionevoli sui temi bioetici. Ecco cosa scriveva ieri a proposito della pillola abortiva («La tecnica, l’etica e il corpo femminile», Repubblica, 21 agosto 2009, p. 52; la stessa autrice aveva già toccato l’argomento qualche mese fa):

Ma perché desta tanto scandalo la pillola abortiva quando l’aborto è legale da trent’anni? Qual è il vero salto culturale? Cos’è che turba tanto gli oppositori più veementi?
Intanto va detto che la pillola rende la donna più autonoma rispetto al medico, il quale, quindi, viene sollevato da una parte del lavoro. Con la Ru486, non è più il medico a praticare materialmente l’aborto mediante aspirazione o raschiamento, ma è la donna stessa che, assumendo due pillole, agisce in prima persona sul proprio corpo. Il medico può limitarsi a verificare che vi siano le condizioni adatte, seguire il buon andamento, verificare l’esito, ma è la donna che, sveglia e presente, gestisce il proprio aborto, porta a compimento, fino alla fine, la decisione intrapresa. Colpisce una testimonianza riportata da Giovanni Fattorini nel suo libro Aborto: un medico racconta trent’anni di 194: parla di una ragazza che ha scelto la Ru486 non per la minore invasività, ma per la volontà di vivere fino in fondo l’esperienza del lutto, lontana da ipocrisie sanitarie. “Aveva deciso di rinunciare a un figlio e voleva farlo lei, non delegarlo a nessuno. Un estraneo le avrebbe messo le mani addosso con perizia, e magari con delicatezza, ma sempre con una partecipazione distante”. È chiaro che questo atto ulteriore di autodeterminazione spaventa e indigna quelli convinti che l’aborto sia un omicidio (e per i quali, dunque, in Italia girerebbero a piede libero milioni di assassine: nel caso, le vostre stesse nonne, madri, mogli, compagne, figlie). Ma è anche un ottimo modo per risolvere, in parte, l’annoso problema dell’obiezione di coscienza che – al contrario delle interruzioni di gravidanza, dimezzate in trent’anni – è la vera emergenza a proposito di aborto. E che riguarda ginecologi, anestesisti, infermieri e persino portantini. Ma con la Ru486 non è più il medico a farsi carico di un atto doloroso e pesante: la responsabilità ricade interamente sulla donna. Inoltre con la Ru486, l’aborto diventa un atto più discreto, circoscritto al rapporto medico-paziente, mentre adesso, con il chirurgico, è prevista una serie di passaggi per cui una quantità di persone può venirne a conoscenza: inutile dire che nei posti piccoli la “pubblicità” di una tale decisione, soprattutto in questo clima di demonizzazione, costituisce un peso in più per la donna, peggio se giovane.
È proprio così: quello che terrorizza gli integralisti non è la presunta «facilità» dell’aborto farmacologico, e men che meno la sua presunta pericolosità per la salute femminile; è la perdita di controllo – sia pure relativa – sulle donne, che la pillola sottrae alle forche caudine dell’obiezione di coscienza e della pressione sociale conformista.

domenica 16 agosto 2009

Un bieco illuminista

Stanley Kubrick, intervistato da Eric Norden nel settembre del 1968:

Ciò che è più terrificante riguardo all’universo non è il fatto che ci sia ostile ma bensì che ci sia indifferente; ma se riusciremo a venire a patti con questa indifferenza e ad accettare le sfide della vita entro i confini della nostra mortalità – qualunque sia la distanza cui l’uomo sarà in grado di spostarli – la nostra esistenza in quanto specie potrà avere un significato e un compimento genuini. Per quanto vaste siano le tenebre, dobbiamo procurare noi stessi la luce.
Nell’originale inglese:
The most terrifying fact about the universe is not that it is hostile but that it is indifferent; but if we can come to terms with this indifference and accept the challenges of life within the boundaries of death – however mutable man may be able to make them – our existence as a species can have genuine meaning and fulfillment. However vast the darkness, we must supply our own light.

venerdì 14 agosto 2009

Nel rispetto del Concordato

Rosalux (o Rosalucsemburg) di Rosalucsemblog ha mandato una lettera all’Unità, indirizzata ai dirigenti del Partito Democratico, a proposito della polemica sul Tar e l’ora di religione («Il PD, o della Politica Dello struzzo», 14 agosto 2009):

Cari Dirigenti del Partito Democratico,
sono una vostra elettrice, una di quelle che vi garantisce – da sempre ma non per sempre – il voto con l’unica ragione del “minor male possibile” […]
È un semplice dato di fatto che l’ora di religione – così come è concepita – non possa dare crediti formativi, visto che la sua fonte giuridica è, paradossalmente, il concordato stesso, e precisamente dall’articolo 9 comma 2:

Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento.
All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.


È troppo, chiedervi di ricordare che il TAR ha semplicemente fondato la sua decisione sul concordato? Un credito formativo che possa essere ottenuto attraverso un’ora di religione dà luogo – ovviamente – ad una discriminazione: chi non la frequenta non potrà ottenerlo e sarà dunque discriminato, non avendo in orario scolastico alternative valide e altrettanto paganti.
Da leggere tutto; e già che ci siamo, da leggere anche il dibattito, avviato dalla stessa Rosalux sul newsgroup it.cultura.religioni.cristiani, a proposito di «RU 486 e stili propagandistici», da cui traggo questa citazione (sempre sua; messaggio del 10 agosto, 19:52):
È proprio l’aspetto disumanizzante del negare la differenza tra uno zigote e un bambino, tra ciò che esiste già e ciò che potrebbe esistere un giorno, in nome di concetti astratti come “destino” o “finalità” che mi lascia senza parole e mi fa parlare di “diversità antropologica”. Mentre capisco perfettamente che qualcuno possa pensare all’anima, o al destino e considerare l’aborto un tabù, mi terrorizza l’idea che una persona possa davvero considerare un bambino come una cellula.
Difficile dirlo meglio di così.

mercoledì 12 agosto 2009

L’estinzione delle culture

Scritto poco fa su Facebook da un’amica antropologa:

E io che vado a studiare il nascente laicismo in Nepal, mentre a casa ci sarebbe da fare l’etnografia di quello morente.

martedì 11 agosto 2009

È in calo l’uso della RU-486?

Da uno che ha fatto partorire una donna di 63 anni e che ha annunciato di aver clonato un essere umano non te lo aspetteresti; ma Severino Antinori ama stupire, e forse la contraddizione è minore di quanto possa apparire a prima vista. Ecco parte delle sue dichiarazioni sulla pillola abortiva battute ieri da un’agenzia di stampa:

(Adnkronos) Roma, 10 ago. - «Da ginecologo consiglierei l’aborto chirugico. Quello farmacologico, molto più doloroso, comporta conseguenze più lunghe e traumatiche. Le donne sono più esposte così a rischi e infezioni. In Francia e in altri paesi avanzati, ad esempio, rispetto all’introduzione si è registrato un calo nell’assunzione del farmaco, chiaro segno che la pillola non è poco traumatica».
Che l’aborto farmacologico non sia sempre una passeggiata è vero; la RU-486 è un farmaco, e come tutti i farmaci può comportare effetti indesiderati. Ma è anche vero che a causa di questo si è registrato in Francia un calo nell’assunzione di questo farmaco?
Andiamo a consultare l’ultimo fascicolo disponibile delle statistiche sull’aborto in Francia, curato da Annick Vilain: Les interruptions volontaires de grossesse en 2006 (Études et Résultats, 659), Paris, Direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques (DREES), 2008. A p. 2 troviamo questo grafico, che illustra l’evoluzione della percentuale degli aborti farmacologici sul totale delle interruzioni volontarie di gravidanza:
Ora, questo andamento si potrebbe anche interpretare come un calo – ma solo a patto di guardare non il grafico direttamente ma il suo riflesso in uno specchio... In realtà, come si vede, dal 1993 in avanti non c’è stato un anno in cui la percentuale degli aborti farmacologici non fosse maggiore – nella sanità pubblica, in quella privata e nel complesso delle due – di quella dell’anno precedente (per quanto riguarda i numeri assoluti, basti sapere che dal 1991 in poi il numero di IVG in Francia si mantiene pressoché costante).
Gli unici anni in cui si registra un calo percentuale sono il 1991 e il 1992. Può essere una coincidenza, ma in quei primi anni dall’introduzione della RU-486 si verificarono tre reazioni avverse particolarmente serie – di cui una purtroppo fatale – al sulprostone, che era la prostaglandina usata allora per completare l’aborto (nel 1992 il sulprostone fu sostituito dal misoprostolo). Quindi forse Antinori ha ragione: un calo nell’assunzione potrebbe essere collegato a problemi del farmaco. Però prima occorre assicurarsi che il calo ci sia stato veramente...

Per quanto riguarda gli altri paesi «avanzati», possiamo ricorrere a quest’altro grafico, tratto da Rachel K. Jones e Stanley K. Henshaw, «Mifepristone for Early Medical Abortion: Experiences in France, Great Britain and Sweden» (Perspectives on Sexual and Reproductive Health 34, 2002, pp. 154-61), che purtroppo si arresta al 2000:
La differenza delle percentuali francesi rispetto al grafico precedente è dovuta al fatto che qui si usano le percentuali sugli aborti precoci, non sugli aborti totali. Per il resto, il quadro è identico.
Infine un grafico per la situazione svedese, tratto da Sveriges officiella statistik, Aborter 2008 (Stockholm, Socialstyrelsen, 2009, p. 19), con lo stesso tipo di dati del grafico precedente: la linea nera e quella blu indicano le percentuali degli aborti chirurgici con aspirazione praticati rispettivamente prima di 12 e 9 settimane di gestazione; la linea rossa e quella verde le percentuali degli aborti farmacologici praticati prima di 9 e 12 settimane (si tenga presente che in questo paese dal 1991 gli aborti precoci sono in costante aumento rispetto al totale degli aborti praticati, vd. il grafico 4 alla stessa pagina):
Abbastanza eloquente, direi.

lunedì 10 agosto 2009

Gli ex sessantottini e l’ex contadino

Sulle pagine dell’Altro è in corso da qualche giorno una polemica, innescata da un articolo di Gilberto Corbellini sugli Ogm e l’agricoltura biologica («Il biologico è moda, il futuro è OGM», 1 agosto 2009, p. 1) che esordiva significativamente così:

Una domanda agli ex-sessantottini che oggi si sono riciclati businessman e lobbisti dell’industria del cibo biologico, e che, con qualche conflitto d’interesse, hanno lanciato anatemi contro quei parassiti degli scienziati inglesi che hanno semplicemente ri-dimostrato quello che si sapeva da dieci anni; cioè che i cosiddetti cibi naturali non sono nutrizionalmente migliori di quelli tradizionali.
Non è che gli 8 milioni di italiani che, secondo un sondaggio Coldiretti-Swg, provano almeno una volta all’anno un prodotto naturale, penseranno di avere più diritti o di essere moralmente migliori degli 8 milioni di italiani che secondo l’Istat vivono in povertà? Magari perché questi ultimi non si possono permettere di consumare quello che prescrive il dottor Petrini. Dato che costa almeno il 30% in più, e loro non ce la fanno neppure ad arrivare alla fine del mese, andando a fare spesa nei discount. Vogliamo dire che gli 8 milioni di italiani poveri prodotti da una classe politica incompetente hanno almeno gli stessi diritti di chi può permettersi i sapori e le atmosfere delle catene di slow food, o una cena nel ristorante di Vissani?
Vari commenti all’articolo si sono succeduti nei giorni seguenti: di Roberto Musacchio e Francesco Martone («il principio di precauzione, fondativo dell’Europa […]»), di Rina Gagliardi («se ti mandassi un articolo […] contro l’aborto e il femminismo, lo pubblicheresti?»), di Gaia Pallottino («Che ci faceva il pessimo articolo di Gilberto Corbellini in un giornale così attento ai diritti umani, pacifista e quindi necessariamente ambientalista?»), di Vinicio Giandomenico («avete perso un lettore»). Da questa sequela di reazioni stizzite, indignate, incredule; da questo piccolo catalogo des idées reçus, si capiscono due cose: perché la sinistra radicale è virtualmente svanita dal panorama politico italiano; e perché questa scomparsa è una delle pochissime cose positive accadute ultimamente in questo paese.
Ai critici ha risposto in nome del giornale Nanni Riccobono, e ha soprattutto replicato lo stesso Corbellini in un articolo apparso ieri, di cui va assolutamente letta almeno la prima parte («Vorrei una sinistra darwinista», 9 agosto, p. 1):
Sulla polemica nata in queste pagine da un mio articolo su Ogm e agricoltura biologica vorrei svolgere una riflessione un po’ più generale e allo stesso tempo personale. Perché la condizione di vuoto culturale e di riflusso vittimista in cui si sta avvitando la cultura politica di sinistra è l’esito di un processo che non ho vissuto stando chiuso nelle biblioteche. E perché i temi sociali ed economici della produzione agricola non sono per me una questione meramente accademica, o una scoperta strumentale.
Comincerò dall’ultimo punto. Ancora esattamente trent’anni fa, di questi giorni, non ero certo in vacanza. Accadeva già da almeno una decina di anni, che tutte le estati io dovessi lavorare come salariato agricolo stagionale e trattorista, dato che, per i miei genitori, mantenermi agli studi era una spesa che incideva significativamente sul bilancio. Se volevo godermi il privilegio di studiare dovevo contribuire a pagarlo. Tutta la mia famiglia, fino ai bisnonni, materni e paterni, ha condotto una vita contadina, prima come braccianti e poi salariati agricoli. I miei nonni, e anche qualche mio coetaneo, venivano ancora dati in affitto dalle loro famiglie quando erano bambini – forse qualcuno sa che esistevano i “famei”, cioè appunto i bambini affittati in cambio di vitto e alloggio e che dovevano lavorare come schiavi presso famiglie contadine più agiate. Con tutta la buona volontà, ricordando molto bene i racconti dei miei nonni, e la mia infanzia, non riesco a trovare traccia di quelle rappresentazioni bucoliche descritte dagli Olmi, dai Celentano e dai Petrini quando teorizzano l’idea della Terra Madre. Io ricordo solo povertà, malattie, fatica, violenza, soprattutto nei confronti di donne e bambini, discriminazione e ignoranza intesa come analfabetismo. E una società patriarcale che nei secoli ha fatto più morti delle guerre mondiali e dei conflitti combattuti nel Novecento: che vorrei veder seppellita per sempre e anche più profondamente delle scorie tossiche.
Dunque io non parlo di agricoltura e prodotti agricoli per sentito dire. È qualcosa che conosco bene, non solo sul piano scientifico o tecnico, ma anche del cosiddetto vissuto. Non voglio fare del moralismo e rispetto tutti. Anche quegli amici e compagni che, diversamente da me, provenivano da famiglie ricche e non hanno mai dovuto fare particolari sacrifici, e che oggi mi trattano da reazionario perché voglio che tutti abbiano la possibilità di scegliere come vivere mentre loro teorizzano o praticano un ritorno obbligato per tutti alla povertà economica (che chiamano con termine colto “decrescita”).
Il mio pensiero è che chiunque deve essere libero di vivere e fare come vuole, senza pretendere di limitare la libertà di chi preferisce fare scelte diverse. Nella misura in cui le scelte e i comportamenti di ciascuno non producono danni fisici o interferiscono con la libertà di altri si dovrebbero rispettare. Credo che questo sia il minimo presupposto per convivere democraticamente. Al di sotto di questo la democrazia scompare. Orbene, questo significa però che non ci si possono inventare dei pericoli inesistenti per limitare delle scelte che magari non coincidono con le nostre preferenze ideologiche. Altrimenti si ragiona come gli integralisti cattolici che si inventano le peggio cose sull’omosessualità e il sesso in generale, con lo scopo appunto di reprimere delle libertà e dei diritti fondamentali.
Aggiornamento 19 agosto: Corbellini aggiunge un altro articolo alla serie, sempre sull’Altro: «Le staminali sì, gli Ogm no. Ma non sapete dire perché» (18 agosto, p. 1).

domenica 9 agosto 2009

Pillole e contraddizioni

Roberta De Monticelli, «Una pillola da non scomunicare», Il Sole 24 Ore (8 agosto 2009, p. 9):

[O]nestà vorrebbe che lo si dicesse chiaro: quello che della pillola abortiva non va bene è il fatto che umanizza una condizione dolorosissima. Il fatto che, come sempre la medicina, diminuisce la nostra sofferenza quando è inutile.
Se una prende una decisione che la sua guida spirituale giudica malvagia, che almeno soffra il più possibile, e soprattutto che sia il più possibile dipendente dal medico (cioè da colui che dovrebbe invece essere semplicemente al servizio del paziente libero, responsabile e informato, quando si tratti di sanità pubblica). Anzi: ben venga la dipendenza e l’onerosità, come forza dissuasiva, e pazienza se la peccatrice non avrà peccato solo per evitare quest’onere. Certo una profonda stima della maturità morale dei cittadini, questa: non facilitate l’aborto, se no le remore morali verranno meno!
Qualche vescovo ha detto ciò chiaramente? Nemmeno per sogno: su questo punto la nebbia si fa fittissima. Scrive il cardinal Poletto: «La nostra scelta di parlare è nata per contrastare un punto di vista che consideriamo molto pericoloso e sbagliato, quello per cui la pillola renderebbe l’aborto facile e indolore». Ma se non lo rendesse facile e indolore (siamo d’accordo!) – perché opporsi a essa invece che direttamente alla 194?
C’è un altro argomento che invece sarebbe chiarissimo: troppa libertà. La vicenda di Eluana prima e ora quella della RU486 «ci fanno vedere – scrive il cardinal Bagnasco – un indirizzo prevalente se non assoluto verso la libertà dell’individuo, una libertà che sembra essere assoluta». Ecco, ma su questo punto le persone che infine scelgono e decidono, secondo quanto finora previsto dalla legge, cioè gli individui adulti e responsabili, in particolare le donne, sono o non sono “troppo” libere? Al dunque, sì e no, insieme.
Poverette. «Gravissime sono le ricadute psicologiche – recita il documento dell’Ufficio per la pastorale della salute della Diocesi di Torino – perché il medico, quando non sceglie di avvalersi dell’obiezione di coscienza, assume il ruolo di assistente passivo e la donna diventa protagonista dell’atto abortivo che si protrae nel tempo, finché, dopo interminabili ore vissute nell’angoscia e con inevitabili sensi di colpa, è costretta a vedere il figlio espulso, rifiutato come un corpo estraneo». «Costretta»? Ma il problema non era che era troppo libera?
Da leggere tutto.

venerdì 7 agosto 2009

Guzzanti non ha tutti i torti, ma io do ragione alla Carfagna

Va bene, lo confesso subito: l’argomento di questo post non è per niente (o quasi per niente) quello che vi aspettavate che fosse dopo aver letto il titolo. Ma quest’ultimo, lo giuro, è pertinente, come converrete anche voi alla fine.

Tutto inizia dall’articolo di Paolo Guzzanti, comparso sul numero in edicola di Panorama (12 agosto 2009, p. 73), a proposito della legge del doppio cognome. Già dal titolo, «Una legge inutile e furbastra», è evidente cosa pensa Guzzanti di questa innovazione; ed ecco le sue ragioni:

Che trovata, che modernità: un ritorno all’antico costume spagnolo di appiccicare il cognome della madre a quello del padre […]. La notizia è attendibile: dopo un accurato inciucio, l’Italia si prepara a varare una legge politically correct che, d’ufficio e senza opzioni di scelta, applicherà a ogni bambino il cognome della madre accanto a quello del padre. Conseguenza: quando la signorina Maria Rossi si sposerà con il signor Mario Bianchi, metterà al mondo un piccolo Giuseppe Rossi Bianchi il quale poi, caduto nelle pene d’amore per Albertina Verdi Colombo, metterà al mondo con lei Gian Marco Rossi Bianchi Verdi Colombo e così via. Questo scherzo potrà durare un paio di generazioni e poi ci vorrà un’altra legge per tornare come prima o magari assumere la matrilinearità o il sorteggio dei cognomi per i neonati insieme ai numeri del lotto.
In effetti, sulla stessa pagina di Panorama un altro articolo ci informa che la decisione sarebbe stata già presa, e che «non sarà una facoltà [cioè non sarà facoltativo, ma bensì obbligatorio] assumere i cognomi di entrambi i genitori. Una riforma che si limitasse ad attribuire la semplice facoltà difficilmente produrrebbe effetti concreti». Decisione infelice, sia perché inutilmente paternalistica – siamo così sicuri che gli italiani non adotterebbero con favore il doppio cognome? – sia perché potrebbero esserci ottime ragioni a indurre dei genitori, di comune accordo, a chiamare i figli con uno soltanto dei loro cognomi. (Per quanto riguarda invece la moltiplicazione dei cognomi temuta da Guzzanti, mi sembra difficile che la commissione che si sta occupando della questione non ci abbia pensato e non abbia ideato qualche semplicissima contromisura.)
Guzzanti, a quanto sembra, non gradirebbe comunque neppure una legge che lasciasse la più ampia libertà di scelta:
È una legge furbastra, quella del doppio cognome destinato a moltiplicarsi per quattro, otto, sedici, trentadue, fino all’intero elenco del telefono perché, in un momento in cui il femminismo è morto, si costruisce sulla sua tomba la finzione di uno Stato delle false pari opportunità che compensa con metrate, chilometrate di inutili cognomi le donne devastate dall’uso mercantile del loro sesso […].
Ora, che una misura di questo genere non possa neanche lontanamente sostituire la costruzione di un’uguaglianza sostanziale fra i sessi è pacifico; ma questo non autorizza il benaltrismo di Guzzanti. Io ho un metodo empirico per valutare la possibilità delle misure politically correct – che contrariamente a quanto si pensa, non sono sempre inutili e ridicole – di incidere concretamente sul costume: leggo cosa ne pensa la parte più retriva della società e della politica. Se l’opposizione a un provvedimento è isterica e apocalittica, allora quella misura tocca qualche interesse, anche solo simbolico, e non risulterà probabilmente del tutto inutile. Ebbene, il doppio cognome ha appunto suscitato reazioni di quel tipo: si veda cosa ne hanno detto in passato Luca Volontè, Marcello Pera e tanti altri.

Quella che ci vuole è dunque una legge semplice, non burocratica, che lasci la più ampia libertà, e su cui possibilmente non si debba perdere troppo tempo. Dobbiamo scrivercela da soli? Non è detto; di proposte in materia ne sono state presentate tante in Parlamento. Diamo un’occhiata. Troviamo alcune mostruosità normative (diffusissima, per esempio, la stramba ossessione di porre comunque al primo posto il cognome paterno), ma anche proposte di buon senso. Nelle due ultime legislature – non sono risalito più in là – mi pare che la proposta migliore sia il ddl C. 1551 della XV legislatura, «Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli», presentato alla Camera il 1 agosto 2008, e avente come primi firmatari l’On. Maria Rosaria Carfagna e l’On. Enrico La Loggia (sì, sono sorpreso anch’io). Consta di un solo articolo in cinque commi:
  1. L’ufficiale dello stato civile, sentiti i genitori, attribuisce al figlio all’atto della nascita il cognome del padre, ovvero il cognome della madre, ovvero entrambi i cognomi nell’ordine determinato di comune accordo tra i genitori stessi.
  2. In caso di mancato accordo tra i genitori, l’ufficiale dello stato civile attribuisce al figlio all’atto della nascita i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico.
  3. Ai figli successivi al primo, generati dai medesimi genitori, l’ufficiale dello stato civile attribuisce d’ufficio lo stesso cognome attribuito al primo figlio.
  4. Il cittadino cui siano attribuiti i cognomi di entrambi i genitori può trasmetterne al figlio soltanto uno, a propria scelta.
(Ometto il quinto comma, che si occupa del cittadino maggiorenne che vuole cambiare cognome.)
È quasi perfetto – evita pure la crescita esponenziale dei cognomi nelle future generazioni. Manca solo quello che potremmo chiamare l’emendamento Regalzi, che modifica il quarto comma in questo modo, tanto per coprire proprio tutti i casi: «Il cittadino cui siano stati attribuiti due cognomi può trasmetterne al figlio soltanto uno, a propria scelta; può trasmetterli entrambi solo nel caso in cui l’altro genitore rinunci a trasmettere il proprio».

Lo so: sarebbe meglio avere un paese senza doppio cognome, ma dove in compenso le donne che fanno carriera – fino alle più alte posizioni – non fossero troppo spesso quelle che hanno elargito favori sessuali a uomini potenti. So anche che si potrebbe fare qualche amara ironia su quel disegno di legge e su chi l’ha firmato. Ma siamo proprio sicuri che rinunciando all’uguaglianza nelle piccole cose si affretti l’uguaglianza in quelle grandi?

giovedì 6 agosto 2009

Zichichi e l’equinozio

Ho la sensazione che Antonino Zichichi scriva meno di un tempo; e questo è un peccato, perché i suoi articoli costituiscono quasi sempre un piacevolo stimolo intellettuale. Prendiamo per esempio quello pubblicato ieri su Avvenire (quotidiano che già di suo è un’altra fonte generosa di riflessione, come ben sanno i lettori più fedeli di Bioetica): «Se la scienza nasce dal cuore della fede», 5 agosto 2009, p. 27, dove possiamo leggere queste parole:

Nasce così l’esigenza di conoscere la data esatta dell’equinozio di primavera che non può essere né in ritardo né in anticipo, rispetto alla data che indica il calendario. […] Oggi l’equinozio è sempre il 21 marzo e così resterà nei secoli grazie al calendario gregoriano, che tiene conto del terzo movimento della Terra [cioè la precessione degli equinozi, ndGR].
Chiunque ricordi le lezioni di geografia astronomica alla scuola superiore rimarrà un poco perplesso: l’equinozio di primavera (cioè il primo dei due giorni dell’anno in cui le durate del giorno e della notte sono praticamente identiche), infatti, non cade affatto sempre nella stessa data, e questa data, negli ultimi anni, è stata solo raramente il 21 marzo.
Per sincerarsene basta dare un’occhiata al sito dello U.S. Naval Observatory, dove c’è una pagina che elenca i tempi precisi in cui si verificano equinozi e solstizi: ebbene, dal 2000 al 2020 l’equinozio di primavera cade per diciannove volte il 20 marzo e soltanto due il 21, rispetto al Tempo Universale Coordinato (che equivale per quel che qui ci interessa al vecchio Tempo del meridiano di Greenwich); in Italia, dove siamo un’ora avanti, l’unica differenza è che l’equinozio si verificherà il 21 marzo anche nel 2011.
Diamo un’occhiata più da vicino, partendo proprio dal 2000. Da un anno a quello seguente, l’istante preciso dell’equinozio di primavera accusa un ritardo variabile, ma che in media sembra essere di circa 5 ore e 50 minuti (la variazione è sempre solo di pochi minuti). Dopo 4 anni, nel 2003, il ritardo accumulato porta l’equinozio a «sforare» al 21 marzo, ma l’anno dopo si ha un balzo indietro alle prime ore del 20 marzo e il ciclo, apparentemente, ricomincia. Apparentemente: perché a guardar bene l’equinozio non si verifica alla stessa ora di quattro anni prima, ma ha un anticipo di circa 45 minuti (il ritardo annuale rimane invece costante attorno a 5 ore e 50 minuti).
A questo punto il lettore più attento si porrà una questione: ma se ogni quattro anni il ciclo riprende spostato indietro di 45 minuti, questo vuol dire che anche lo sforamento al 21 marzo avrà un margine sempre più esiguo, e alla fine non si verificherà più; anzi finirà per verificarsi all’altro estremo, e avremo quindi equinozi di primavera il 19 marzo. In effetti, basta dare un’occhiata alla tabella per accorgersi che il 2007 è stato l’ultimo anno in cui l’equinozio – rispetto al Tempo di Greenwich – poteva verificarsi il 21 marzo (in Italia l’ultimo anno sarà il 2011). Una tabella più completa, per il periodo 1788-2211, ci conferma questa conclusione: il 2007 sarà per moltissimo tempo l’ultimo anno in cui l’equinozio di primavera si sarà verificato il 21 marzo; solo nel 2102 avremo di nuovo un equinozio in quella data, mentre dal 2044 potranno capitare equinozi anche il 19. Altro che «resterà nei secoli»...
La spiegazione di questo curioso fenomeno è in realtà molto semplice. Da un equinozio di primavera al successivo passano in media 365,2424 giorni; ma il calendario di giorni ne ha soltanto 365. La differenza media di 0,2424 giorni equivale a 5 ore e 49 minuti (le variazioni sono dovute al fenomeno della nutazione), ed è appunto questo che causa il ritardo dell’equinozio. Ogni quattro anni l’aggiunta del giorno bisestile fa ripartire il ciclo, ma non esattamente, dato che 5h 49m × 4 = 23h 16m, il che provoca l’anticipo di quasi 45 minuti che abbiamo visto. Il calendario gregoriano rimedia anche a questa discrepanza, sopprimendo il giorno bisestile negli anni divisibili per 100 (ma non per 400), come per esempio il 2100; ma ciò non può impedire che le date di equinozi e solstizi varino nel modo che abbiamo visto.
E Zichichi? Come ha fatto a sbagliarsi? Per prima cosa, tra il 1900 e il 1943 il 21 marzo è stata effettivamente la data più frequente dell’equinozio; Zichichi è nato nel 1929, e all’epoca è probabile che si ripetesse quasi sempre che la data era quella, senza andare tanto per il sottile. Ma soprattutto, allo scopo di semplificare il computo della data della Pasqua la Chiesa considera per l’equinozio di primavera una data fissa, che è appunto il 21 marzo, lasciando da parte la realtà astronomica. Probabilmente è questo che ha tratto in inganno il nostro autore (e non solo lui: nella cultura popolare la data che tutti conoscono è il 21); ma dal suo errore abbiamo tratto lo spunto per un ripasso di astronomia. Appunto dicevo che i suoi articoli costituiscono quasi sempre un piacevolo stimolo intellettuale...

mercoledì 5 agosto 2009

Mele a scoppio ritardato

Luca Volontè, «La pillola abortiva è l’ultimo regalo del governo Prodi» (Libero, 4 agosto 2009, p. 6):

Il biennio Prodi porta ancora i suoi effetti, anzi talune di queste mele velenose, scoppiano in ritardo con effetti deflagranti.
Attento alla sovrapposizione di metafore, caro Luca: può avere talvolta un effetto – uhm, come dire? – deflagrante...

lunedì 3 agosto 2009

Se esci dall’ospedale chiamo la polizia

Stavo leggendo l’articolo di Flavia Amabile sulla pillola abortiva comparso ieri sulla StampaTest psicologico per la Ru486», 2 agosto 2009, p. 9), quando mi sono imbattuto in un passo piuttosto allarmante:

L’unica strada da percorrere per il governo per rendere più forte l’obbligo a rimanere in ospedale potrebbe essere la minaccia di denunce penali per le donne che dovessero abortire fuori dagli ospedali dopo aver preso la Ru486 in quanto si tratterebbe di un’interruzione di gravidanza illegale, avvenuta senza rispettare l’articolo 8 della legge 194. «Ma in questo caso – replica Viale – significherebbe tornare indietro di quasi quarant’anni, l’aborto diventerebbe di nuovo una pratica illegale».
Purtroppo non si capisce dal testo se l’ipotesi cui si fa riferimento sia stata proposta da qualche esponente governativo, oppure se sia solo una congettura della stessa giornalista; non trovo riscontri altrove, ma è del tutto possibile che l’idea venga in mente prima o poi a qualcuno in grado di darle seguito, e vale quindi la pena di discuterne brevemente.
L’art. 19 della legge 194/1978 recita:
Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni. La donna è punita con la multa fino a lire centomila.
L’art. 8, a sua volta, elenca in quali strutture sanitarie è consentito praticare l’interruzione della gravidanza a «un medico del servizio ostetrico-ginecologico». Come abbiamo già detto qui su Bioetica, nessuna persona dotata di un minimo di onestà mentale potrebbe ravvisare nell’espulsione dell’embrione avvenuta fuori dalle pareti ospedaliere a causa dell’assunzione della pillola abortiva una violazione dello spirito o finanche della lettera della 194; ma l’onestà mentale non è esattamente la dote in cambio della quale certi personaggi hanno assunto responsabilità di governo.
Cosa succederebbe dunque se prevalesse questa interpretazione? Le conseguenze sembrerebbero analoghe a quelle della prima versione del decreto sicurezza, che obbligava medici e infermieri a denunciare i clandestini che avessero fatto ricorso a cure mediche: il sanitario, in quanto pubblico ufficiale oppure incaricato di pubblico servizio, sarebbe verosimilmente obbligato a denunciare la donna all’autorità giudiziaria, a norma degli artt. 361 e 362 del Codice Penale (non parrebbe valere l’esimente del secondo commma dell’art. 365 C.P., che si applica ai delitti e non ai reati puniti solo con una contravvenzione). Suppongo che a loro volta le autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza dovrebbero accertarsi se il «reato» si sia già compiuto, e riaccompagnare in caso negativo la colpevole in ospedale, dove rimarrebbe piantonata fino al compimento del processo abortivo...
Questa mostruosità verrebbe perpetrata presumibilmente in nome della salute della donna (ufficialmente è questo il bene che secondo gli avversari della RU-486 sarebbe messo in pericolo dalla «violazione» dell’art. 8 della legge 194). Un magistrato coscienzioso non potrebbe non notare la flagrante contraddizione con l’art. 32 della Costituzione, e decreterebbe inevitabilmente che il fatto non costituisce reato. Da quel momento in poi, gli eventi acquisterebbero senza dubbio un inconfondibile aspetto di déjà vu...
In questioni del genere non possiamo certo sperare che vinca il buon senso; speriamo almeno, allora, che vinca il desiderio di evitarsi grane.

domenica 2 agosto 2009

Intanto la Roccella...

... elabora le strategie future:

(ANSA) - ROMA, 1 AGO - Per l’intervento di aborto farmacologico con l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 «sarà fondamentale il consenso informato da parte della donne» e, nell’ambito del consenso informato, «è possibile pensare anche ad un questionario, sul modello di quelli già in uso in altri paesi, per appurare l’esistenza di requisiti minimi di sicurezza ai fini dell’attuazione dell’intervento stesso». A spiegarlo è il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella. Per il ricorso all’aborto farmacologico, «le condizioni saranno previste proprio nell’ambito del consenso informato, a partire dal ricovero». Tra le ipotesi, ha affermato Roccella, «anche l’utilizzo di un questionario per appurare l’esistenza di alcune condizioni essenziali perchè l’intervento risulti sicuro per la donna, come ad esempio la vicinanza di un ospedale alla abitazione o il fatto che non sia sola». L’eventuale decisione da parte della paziente che richiede l’intervento di firmare per la dimissione dalla struttura ospedaliera dopo l’assunzione della pillola Ru486, ha concluso Roccella, «dovrà essere scoraggiata dagli operatori sanitari e, comunque, risulterà appunto fondamentale il consenso informato».
Altri particolari su Repubblica (Carmelo Lopapa, «“Non ci sarà un altro caso Englaro”: il governo prepara la contromossa», 1 agosto, p. 3):
Due le condizioni allo studio per arginare una liberalizzazione tout court dell’utilizzo della pillola abortiva. “Si tratta di misure da concordare con le Regioni, sia chiaro – spiega il sottosegretario Roccella – che potrebbero essere inserite in un provvedimento più ampio finalizzato alla piena attuazione della 194, finora poco applicata nella parte dedicata alla prevenzione”. Punto primo, ricorso alla Ru486 solo a condizione che l’espulsione dell’embrione coincida col ricovero obbligatorio. Punto secondo, subordinare l’utilizzo della pillola alle sole donne che superano una sorta di test socio-psicologico, sulla scia del questionario adoperato in Francia, dove l’aborto chimico è datato 1988. Il test consentirebbe di vietare la pillola per le categorie considerate più a rischio: le donne che non hanno conoscenze linguistiche adeguate (straniere da poco in Italia), chi risiede ad oltre un’ora da un ospedale, chi non ha un’alta tolleranza al dolore, le donne sole o prive di assistenza, quelle prive di un’auto. È una bozza, un’ipotesi in cantiere che tuttavia – sanno bene al ministero – non potrà essere imposta, semmai pilotata attraverso protocolli di intesa con le Regioni.
In sé, l’idea delle condizioni non è sbagliata: è ovvio che esistono dei requisiti minimi da soddisfare perché l’aborto farmacologico possa avvenire in sicurezza. Ma a che altezza sarà posta l’asticella? Saranno tutte ragionevoli e necessarie le condizioni? Che senso ha, per esempio, imporre fra queste la disponibilità di un’automobile quando già viene richiesto di risiedere a meno di un’ora da un ospedale?
Può essere utile, per giudicare la ragionevolezza di queste e di altre future condizioni, fare un confronto con quelle che in Francia l’Association Nationale des Centres d’Interruption de grossesse et de Contraception (ANCIC) raccomanda di verificare ai medici prima di praticare un aborto con la RU-486. Si noti che l’ANCIC fa riferimento all’aborto farmacologico praticato fuori dagli ospedali: in Francia, a partire dal 2001, è consentito a medici qualificati di somministrare la pillola abortiva nei loro studi; le pazienti possono tornare subito alle proprie occupazioni. La situazione non è comunque drasticamente diversa da quella di una donna dimessa subito o entro poche ore da un ospedale dopo l’assunzione del farmaco; ritroviamo in queste raccomandazioni la residenza entro un’ora di tragitto dall’ospedale e la vicinanza di un’altra persona, ma non ovviamente la disponibilità di un’auto. (A proposito: da dove avrà tirato fuori, la Roccella, la notizia del «questionario adoperato in Francia»? Non ne trovo traccia da nessuna parte, nemmeno nella circolare del 26 novembre 2004, che regola l’aborto farmacologico fuori dagli ospedali, e in cui si parla solo di una consultation psycho-sociale – cioè di una «visita psico-sociale» – comunque solo facoltativa per le donne maggiorenni.)
Le cose peggiorano – e parecchio – con lo «scoraggiamento» richiesto agli operatori sanitari, che ovviamente non trova paralleli in nessun altro sistema sanitario. Certo, la donna avrà sempre il diritto di infilare la porta e andarsene; ma la prospettiva di dover probabilmente litigare con qualcuno che ti sbarra la strada e ti urla che stai andando incontro a morte quasi certa – qualcuno che magari sa che la sua carriera dipende da quante donne riesce a trattenere, o che è stato pescato direttamente dal serbatoio dei puri e duri – non è propriamente incoraggiante. A quel punto l’aborto chirurgico sembrerà forse la strada più semplice.
Non ci resta, direi, che sperare nelle Regioni...

sabato 1 agosto 2009

RU-486: tutti attenti, parla la Binetti

Il quotidiano online Affaritaliani intervista Paola Binetti a proposito della pillola abortiva («RU486/ Paola Binetti ad Affari: “L’aborto torna alla clandestinità”», 31 luglio 2009):

“Non ne farei una questione di scomunica: non è il modo che cambia la sostanza e l’aborto è sempre sbagliato per un cattolico – spiega la senatrice – Qui invece si sta andando verso l’aborto fai da te, l’aborto bricolage, che restituisce le donne alla loro solitudine”.
Questo della «solitudine» delle donne è un argomento molto gettonato dagli avversari della RU-486. Con l’aborto farmacologico l’espulsione dell’embrione può avvenire dopo che la donna è uscita dall’ospedale dove le è stata somministrata la pillola; ebbene, per i prolifers, in qualsiasi luogo ciò avvenga la donna vi si troverà sempre sola. Mariti, compagni, genitori, fratelli e/o sorelle, amiche, vicine di casa, passanti premurose: per qualche misterioso fenomeno la donna che ricorre alla RU non può contare su nessuno di costoro, mai. Forse sarà il senso di colpa inconsapevole – abortire, e per giunta con una pillola simile a una caramella! – che la spinge a ficcarsi in un buco sperduto ad espiare in solitudine; forse sarà la punizione divina che rende il paesaggio circostante identico a una città appena colpita dalla bomba al neutrone; il risultato comunque è quello.
Vuoi mettere invece la festosa compagnia che ti tocca con l’aborto chirurgico? L’infermiere che ti fa accomodare sul lettino, l’anestesista che ti chiede di contare alla rovescia... Forse riesci persino a vedere il chirurgo che ti opererà; e, se sei fortunata, arriva anche la polizia. Tutta un’altra cosa, decisamente.
Il problema principale delle commercializzazione della Ru486? “Si sta riportando l’aborto a una condizione di clandestinità, non legale, ma psicologica, sociale... che riconsegna le donne alla solitudine. La casa farmaceutica che produce questa pillola punta alla vendita diretta nelle farmacie”.
Certo sarebbe bello che la Binetti offrisse qualche prova di quest’ultima asserzione, così recisa: chessò, un memorandum interno della Exelgyn, una dichiarazione intercettata dei suoi manager, un dossier confidenziale prontamente divulgato da qualche sottosegretario... Senza queste pezze d’appoggio qualcuno potrebbe altrimenti essere indotto a pensare che si tratti di una illazione tendenziosa e del tutto campata in aria: il che sarebbe gravemente ingeneroso verso l’onorevole Binetti, ma purtroppo – si sa – la gente tende a pensare male.
“Inoltre – conclude – questo tipo di somministrazione prevede che debba avvenire entro la settima settimana, termine al di sotto di quello previsto dalla 194. Se però questo termine viene superato si rende necessario un raschiamento e un intervento chirurgico successivo. Insomma, stiamo uscendo da una situazione in cui l’aborto chirurgico è diventato una sorta di aborto sicuro per entrare in un’altra condizione, quella dell’aborto chimico in cui la sicurezza sembra diventata un optional”.
Temo di non riuscire bene a seguire il pensiero della Binetti, qui. Sette settimane, cioè 49 giorni, rientrano nel limite di 90 giorni per l’aborto non terapeutico previsto dalla legge 194, sì; ma non capisco in che modo questo sia significativo. Il peggio però viene subito dopo: perché mai passate le sette settimane una donna dovrebbe essere sottoposta a un raschiamento (e a un innominato «intervento chirurgico successivo»)? Se il termine per l’aborto farmacologico è passato la donna verrà sottoposta semplicemente a un comune aborto per aspirazione (il metodo chirurgico più indicato entro il primo trimestre di gestazione). Sembrerebbe che la Binetti abbia fatto confusione con ciò che succede quando l’aborto farmacologico fallisce, cioè quando l’embrione rimane in tutto o in parte nell’utero: è in questo caso che si rende necessario il raschiamento (e basta; può anche andare bene una semplice aspirazione).
Ma immagino che qui la Binetti sia stata male interpretata da chi la stava intervistando. Altrimenti dovremmo concluderne che l’onorevole non sappia di che cosa sta parlando; e questo, ne converrete, è assolutamente impossibile...