martedì 30 ottobre 2012

A Boston si vota sul suicidio assistito


Il prossimo 6 novembre i cittadini del Massachusetts voteranno sul suicidio assistito. Se la maggior parte di loro sceglierà per la legalizzazione sarà il terzo Stato degli Usa, dopo l’Oregon e Washington, a permettere ai medici di prescrivere un farmaco letale.
Il Massachusetts Death With Dignity Act consentirebbe ai residenti di scegliere di morire in caso di malattia terminale - o meglio di scegliere come morire nel caso in cui l’aspettativa di sopravvivenza sia inferiore ai sei mesi, le condizioni di vita siano diventate insopportabili o il dolore sia intrattabile.

Il Corriere della Sera, La Lettura #50, 28 ottobre 2012.

Anoressia: troppo facile incolpare le modelle


“L’anoressia? È tutta colpa di Twiggy e dell’icona di donna pelle e ossa che ha generato”. E se Twiggy è invocata da chi era giovane negli anni Sessanta, e le nuove generazioni l’hanno sostituita con qualche altra modella o attrice, la connessione causale rimane intatta: si diventa anoressici perché il modello culturale ci rimanda una donna magrissima, vogliamo adeguarci a quel modello e l’anoressia non è altro che il nostro desiderio imitativo che ci sfugge di mano. La moda è spesso considerata la pecora nera nel fragile mondo della rappresentazione e dell’istigazione all’ossessione per la magrezza. Vale anche al contrario: alla fine di settembre alcuni autoscatti di Lady Gaga con qualche chilo in eccesso sono stati presentati - e interpretati da molti - come un esempio di ribellione autocompiaciuta alla magrezza imposta. In questa nebbia il recente libro di Carrie Arnold (Decoding Anorexia: How Breakthroughs in Science Offer Hope for Eating Disorders, Routledge) indica una strada diversa, nascosta dal brusio colpevolizzante verso i modelli culturali spigolosi.

Il Corriere della Sera, La Lettura #49, domenica 21 ottobre 2012.

giovedì 25 ottobre 2012

Voglio Restare

Voglio Restare: le risposte di una generazione che non si arrende.
La campagna è qui (Roars).


martedì 23 ottobre 2012

Aborto: ricorso Ong su legge 194, troppi medici obiettori

(ANSA) - STRASBURGO, 23 OTT - In Italia non ci sono sufficienti medici non obiettori di coscienza per assicurare il diritto delle donne all'interruzione di gravidanza. Questa la tesi sostenuta nel ricorso presentato dall'Ong International Planned Parenthood Federation European Network (Ippf En) contro l'Italia al Comitato europo dei diritti sociali del Consiglio d'Europa, che entro questa settimana deve pronunciarsi sulla sua ammissibilita'. Secondo l'organizzazione non governativa la legge 194 del 1978 non garantisce, come dovrebbe, il diritto all'interruzione di gravidanza, e quindi viola il diritto delle donne alla salute, e quello a non essere discriminate, sanciti dalla Carta sociale europea. L'Ippn En sostiene che la violazione della Carta sociale e' dovuta alla formulazione dell'articolo 9 della legge. Nel regolare l'obiezione di coscienza degli operatori sanitari, l'articolo 9 non indica le misure concrete che gli ospedali e le regioni devono attuare per garantire un'adeguata presenza di personale non obiettore in tutte le strutture sanitarie pubbliche, in modo da assicurare l'accesso alla procedure per l'interruzione di gravidanza. Il numero insufficiente di medici non obiettori, soprattutto in alcune regioni, mina, sostiene l'ong, il diritto delle donne alla salute e discrimina quelle che per motivi finanziari non possono recarsi in un'altra regione o in strutture private. (ANSA)

domenica 21 ottobre 2012

Sesso, droga e chiesa: le pazze riviste ANVUR sempre più pazze (episodio 2 della trilogia)

Chi offre di più?
Sesso, droga e chiesa: le pazze riviste ANVUR sempre più pazze (episodio 2 della trilogia), by Antonio Banfi and Giuseppe De Nicolao, Roars, 15 ottobre 2012.

La Laiga sulla Relazione ministeriale (194)

La Laiga ha scritto questa lettera aperta in seguito alla pubblicazione della Relazione ministeriale sulla applicazione della legge 194.

Gentile Signor Ministro,
Le scriviamo certi di meritare tutta la Sua attenzione, dal momento che la nostra associazione, LAIGA (Libera Associazione Italiana dei Ginecologi per l’Applicazione della legge 194), raccoglie quella esigua parte dei ginecologi italiani, cosiddetti “non obiettori”, cioè quegli operatori che, pur fra mille difficoltà, si fanno carico di applicare una legge dello Stato.
Abbiamo finalmente potuto leggere la Sua relazione al Parlamento sullo stato di applicazione della legge 194, ed abbiamo notato come questa si differenzi significativamente da quelle che l’hanno preceduta, sganciandosi dal rigido tecnicismo della comunicazione e dell’interpretazione dei dati, per fare un ragionamento più generale sugli obiettivi e le finalità della legge.
Obiettivo primario, Lei ci dice, è la prevenzione dell’aborto; in quest’ottica, Lei inserisce la legge 194 in un contesto più ampio, che comprende la legge 405 sui consultori familiari, la sentenza n. 27 del 1975 della Corte Costituzionale, e il documento del Comitato Nazionale di Bioetica del 2005 intitolato “Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum”. Il nesso tra aborto e depressione post-partum non è così immediato, ma intuiamo che la chiave di interpretazione sia la supposta fragilità psicologica delle donne, una fragilità “esistenziale”, che si accentua drammaticamente in gravidanza e che sarebbe la causa di gran parte (se non di tutte) le interruzioni di gravidanza. Sarebbe dunque possibile prevenire gli aborti con un adeguato sostegno psicologico e “spirituale” alle donne: allora, ci suggerisce Lei, i medici obiettori (certamente i più qualificati e certamente spinti da più alti principi etici) potrebbero essere utilizzati nei consultori, per convincere le donne a non abortire.
Gentile Signor Ministro, Le ricordiamo che le leggi da lei citate, la 194 e la 405 sui consultori familiari, sono nate proprio grazie alla determinazione, alle lotte e all’impegno civile di quelle donne, cittadine del Suo Paese, che Lei ritiene meritevoli di “tutela” perché incapaci di fare autonomamente una scelta che riguarda la loro vita e la loro salute.
D’altra parte, gentile Signor Ministro, ci sembra che questa, sotto altra veste, sia la stessa logica che portava taluni ad osteggiare l’aborto medico in quanto “aborto facile”: l’idea, in questo caso, era che, vista la maggiore facilità, le donne sarebbero corse ad abortire senza pensarci tanto, e che dunque il numero degli aborti sarebbe sicuramente aumentato. E’ l’idea che sostanzia il parere del Consiglio Superiore di Sanità, acriticamente seguito dalla quasi totalità delle amministrazioni delle nostre Regioni: ignorando i dati riportati dalla letteratura scientifica internazionale e le esperienze sanitarie degli altri Paesi, si è perseguito il fine di rendere più difficile l’accesso all’aborto farmacologico, consigliando il regime di ricovero ordinario con tre giorni di ospedalizzazione! Eppure, gentile Signor Ministro, i dati contenuti nella Sua relazione, seppur frammentari ed incompleti, smentiscono questa logica: nonostante infatti il crescente ricorso all’aborto farmacologico, il numero totale degli aborti è ulteriormente diminuito, e non si sono avute maggiori complicazioni, in accordo con i dati degli altri Paesi, in molti dei quali la pillola per abortire viene addirittura dispensata in consultorio. D’altra parte, poiché l’aborto farmacologico viene praticato in epoche gestazionali precoci, e poiché l’incidenza di complicazioni è tanto minore quanto più precoce è l’epoca gestazionale, facilitare l’accesso a questa metodica non può che essere un’azione per la salute delle donne.
Gentile Signor Ministro, a tal proposito le facciamo notare che, in tempi di crisi economica e di “spending review”, la scelta di eseguire l’aborto farmacologico in regime di Day Hospital permetterebbe di ridurre notevolmente sia i costi per il nostro Sistema Sanitario Nazionale, grazie ad un più razionale utilizzo dei posti letto, sia i rischi di complicazioni legati ai lunghi tempi di attesa.
A Lei, che con questa relazione ha voluto essere non solo “tecnico”, chiediamo di allargare lo sguardo e di muoversi nella logica non della semplice prevenzione dell’aborto, ma in quella della prevenzione delle gravidanze indesiderate, promuovendo in primo luogo un più facile accesso alla contraccezione sicura. Siamo certi che i ginecologi obiettori sarebbero felici di essere impiegati a tal fine nei nostri consultori.
Gentile signor Ministro, siamo convinti che anche Lei ritenga la legge 194 una delle migliori del nostro Paese, il che è peraltro sottolineato dal dato, riportato anche dalla Sua relazione, che in poco più di trent’anni dalla sua approvazione il numero di aborti in Italia è più che dimezzato. Tuttavia, la Sua stessa relazione sottolinea le numerose criticità per la piena applicazione della legge; fra queste, a nostro avviso merita una considerazione particolare il problema dell’obiezione di coscienza, o, per meglio dire, dell’uso strumentale dell’obiezione di coscienza. Nel nostro Paese, caso unico tra quelli che si sono dati una legge per regolamentare il ricorso all’aborto, la percentuale di ginecologi obiettori è altissima, tanto da ostacolare in molti casi la possibilità per le donne di esercitare appieno un loro diritto.
Nella Sua relazione Lei ci parla di una stabilizzazione generale del fenomeno dell’obiezione di coscienza, che nel 2010 è stata sollevata dal 69,3% dei ginecologi italiani; i dati in nostro possesso, nati dalla necessità di verificare la sensazione dell’esistenza di uno “scollamento” fra i dati ufficiali e quelli reali, fotografano una situazione molto più grave: la percentuale di obiettori nel Lazio è pari al 91,3% del totale dei ginecologi delle strutture ospedaliere pubbliche; sempre nel Lazio, su 31 strutture pubbliche, ben 9 non dispongono di un servizio di pianificazione familiare e non praticano aborti, e in ben tre provincie del Lazio non si eseguono aborti terapeutici, in assoluta inadempienza proprio di quell’art.9 della legge che disciplina la possibilità di sollevare obiezione di coscienza. Questi i numeri, gentile Signor Ministro. Sono inquietanti, ma sono numeri. Sono importanti, ma al tempo stesso non sono sufficienti a descrivere e definire la realtà, perché non raccontano le condizioni di lavoro dei non obiettori, costretti a sobbarcarsi un carico di lavoro considerato generalmente “bassa manovalanza” ma che non lascia spazio ad altro, non raccontano l’esasperazione, la stanchezza, i rischi personali e professionali, la voglia, a volte, di gettare la spugna. Ne’ parlano dell’impegno civile, dell’ostinazione, della passione per la nostra professione, che, invece, ci spingono a continuare a lavorare per la tutela della salute riproduttiva.
A Lei, Ministro “tecnico” chiediamo dunque di incontrare noi “tecnici”, perché l’azione di governo per migliorare l’applicazione di una legge miliare del nostro Paese possa sostanziarsi dell’esperienza e dei suggerimenti di chi realmente lavora “sul campo”.

domenica 14 ottobre 2012

mercoledì 10 ottobre 2012

martedì 2 ottobre 2012

Perché voglio fare la madre io? (Perché sono un utero)


Mi era proprio sfuggito, ma quando su segnalazione leggo su Gli Altri quanto avrebbe scritto Luisa Muraro salto sulla sedia (La femminista contro le adozioni gay:“Invidiosi della fecondità femminile”, Laura Eduati, 2 ottobre 2012, da leggere se si esclude Muraro). Non c’è la fonte e allora cerco con Google e trovo di meglio: in una botta sola trovo la fonte (Metro) e un commento di Marina Terragni che si dice “perfettamente rappresentata” (non mi avventurerò nei link che segnala Terragni all’inizio del suo post, tanto è ben rappresentata da Muraro e allora andiamo a vedere cosa avrebbe scritto Muraro).
“Meglio avere genitori omosessuali che non averne affatto”, ha detto il sindaco di Milano, secondo i giornali. Avrà detto proprio così? Me lo chiedo perché in queste parole ci sono due semplificazioni.
Avere dei genitori non è sempre meglio del non averli. Ci sono genitori indegni del loro compito. Quanto all’adozione, Pisapia sa bene che la nostra legge è diventata molto prudente nel concederla. Troppo, dicono alcuni, senza sapere dei molti bambini prima adottati e poi respinti. Ci vuole una valutazione severa, per esempio: sono adatti alla paternità i politici di professione, gli artisti?
Seconda semplificazione. Il sindaco ha parlato di coppie omosessuali, senza specificare se maschili o femminili. Ma è una differenza enorme. Le coppie femminili che desiderano figli, possono averli e così già fanno, con il tacito consenso della società circostante. Il problema si pone alle coppie maschili, in quanto naturalmente e ovviamente sterili.
 Qui non prendo posizione pro o contro l’adozione. Affermo soltanto che, quando si ha davanti un problema, conviene dirsi chiaramente come stanno le cose. Il problema dell’adozione è degli uomini, non delle donne. E dietro alla pressante richiesta maschile di poter adottare, potrebbe nascondersi un’antica invidia verso la fecondità femminile. Mi sbaglio? Non lo escludo, ma in tal caso l’uomo dica apertamente: perché non voglio chiedere a una donna il dono di diventare padre? Perché voglio fare la madre io? 
E non riduciamo il problema a una questione di diritti. A questo mondo i desideri, compresi quelli giusti, non si traducono automaticamente in diritti.
Muraro fa le pulci a Pisapia, ma poi inciampa non solo in semplificazioni peggiori di quelle che attribuisce al sindaco di Milano, ma pure in equivoci psicanalfondamentalisti che sembrano usciti da una cantina polverosa e rimasta chiusa per 40 anni (basterebbe qui invocare Sokal e Bricmont e quello che scrivono a proposito di Julia Kristeva e Jacques Lacan o altri tipi del genere).
Certo che ci sono genitori indegni, ma ciò che (verosimilmente) voleva intendere Giuliano Pisapia è che la variabile omosessualità non è intrinsecamente negativa. Se dovessi proprio commentare, direi che questo modo concessivo (magari strategicamente funziona) mi disturba, e che sarebbe meglio dire: perché l’omosessualità dovrebbe essere considerata a priori come dannosa per i figli? Non ha alcun senso, e sarebbe giusto sottoporre tutti i potenziali genitori adottivi al percorso di valutazione, senza soffermarsi pornograficamente sulle preferenze sessuali. Ancora troppa gente pensa che l’eterosessualità sia il golden standard e che gli altri orientamenti siano una caricatura, un errore, un peccato, qualcosa di immorale - insomma bene che ti va ti prendi uno sguardo di compassione. Finché questa convinzione - sbagliata, delirante, presuntuosa e violenta - sarà conficcata nelle teste inciampreremo in domande che dovrebbero essere superlfue, inutili e considerate come noiose. Si è buoni o cattivi genitori per ragioni che nulla hanno a che vedere con le nostre preferenze sessuali.
Sulla difficoltà dell’adozione, poi, ne scriveva pochi giorni fa Daniela Ovadia e non mi ci soffermo (chiarisco solo che sono difficoltà che nulla, pure loro, hanno a che fare con l’orientamento sessuale).
Ma il bello arriva con la “differenza enorme”, per non dire di dubbie entità come “il consenso della società circostante” e il “naturalmente sterili” (Muraro forse avrebbe dovuto dirci come ci regoliamo con una donna sterile - la consideriamo innaturale al pari di un uomo?).
Ma diciamoci chiaramente come stanno le cose, ci esorta Muraro: il problema dell’adozione è degli uomini, perché in fondo ci sta una invidia malcelata e mai risolta. Degli uomini verso le donne. Degli uomini verso l’utero. Sarà.
A me sembra che eliminare dal proprio panorama cerebrale il fatto che si possa desiderare di essere padri - meglio, genitori così magari ci liberiamo di qualche stereotipo che la mamma è premurosa e affettuosa e il papà è l’ordine e la disciplina - ridurre gli individui a ruoli predefiniti, sempre più angusti, sempre più irrigiditi e incollati come capelli inondati da una lacca scaduta, decidere al posto degli altri quali siano i desideri giusti e quelli sbagliati, ecco tutto questo mi sembra essere di una presunzione sconfinata. Non solo, si può provare almeno a metter su un mezzo argomento che non puzzi di marcio e stantio, si può provare ad uscire dall’ossessione della retorica della maternità, che spinge perfino a chiamare “mammo” un uomo che esprime piacere e desiderio nell’occuparsi dei figli. Mammo, capite?
Per non parlare della coincidenza tra capacità riproduttiva e desiderio genitoriale, della riduzione delle emozioni agli organi che abbiamo, quelli che ci funzionano oppure no, quelli che ci permettono di riprodurci o quelli che richiedono l’intervento di tecniche. Non oso pensare cosa direbbe Muraro (magari lo ha già detto ma passo per oggi)  della maternità surrogata e delle tecniche riproduttive, tutti rimedi innaturali e sicuramente un ripiego delle vere donne, quelle con l’utero funzionante.
Insomma, ci bastava Giuseppe Di Mauro, o no?

Aggiunta per chi avesse voglia di leggere prima di elencare sentenze: APA, Colage, ACLU, AACAP, Stacey & Biblarz (posso continuare su richiesta).

lunedì 1 ottobre 2012

Is Anorexia a Cultural Disease?

Un post molto interessante sui disturbi alimentari di Carrie Arnold su Slate.

From the outside, my eating disorder looked a lot like vanity run amok. It looked like a diet or an obsession with the size of my thighs. I spewed self- and body-hatred to friends and family for well over a decade. Anorexia may have looked like a disorder brought about by the fashion industry, by a desire to be thin and model-perfect that got out of hand.

Except that it wasn't. I wasn't being vain when I craned my neck trying to check out my butt in the mirror—I truly had no idea what size I was anymore. I was so afraid of calories that I refused to use lip balm and, at one point, was unable to drink water. I was terrified of gaining weight, but I couldn't explain why.

As I lay in yet another hospital bed hooked up to yet another set of IVs and heart monitors, the idea of eating disorders as a cultural disorder struck me as utterly ludicrous. I didn't read fashion magazines, and altering my appearance wasn't what drove me to start restricting my food intake. I just wanted to feel better; I thought cutting out snacks might be a good way to make that happen. The more I read, the more I came to understand that culture is only a small part of an eating disorder. Much of my eating disorder, I learned, was driven by my own history of anxiety and depression, by my tendency to focus on the details at the expense of the big picture, and by hunger circuits gone awry. The overwhelming amount of misinformation about eating disorders—what they are and what causes them—drove me to write my latest book, Decoding Anorexia: How Breakthroughs in Science Offer Hope for Eating Disorders.