venerdì 31 ottobre 2014

Outing o coming out?


Succede ogni volta. È successo anche con il coming out di Tim Cook. Molti hanno commentato e commentano scambiandolo per outing (ovvero non sono io a dichiarare il mio orientamento sessuale, ma sei tu a renderlo pubblico – azione spesso connotata da intenzioni molto diverse, più prossime allo sputtanamento o alla denuncia dell’ipocrisia politica di chi ha posizioni conservatrici e di condanna dell’uguaglianza; l’esposizione della legittima riservatezza che si vuole mantenere sulla propria vita privata può invocare ragioni più o meno condivisibili, ma è comunque molto diversa dalla decisione di fare coming out).

Next, 31 ottobre 2014.

martedì 21 ottobre 2014

Così report condanna gli OGM


Domenica scorsa è andato in onda Report. Domenica scorsa Report ha di nuovo parlato di OGM. Per chi non ha visto la puntata può andare qui oppure leggersi il pdf.
La prima mossa nota e scorretta è quella di mischiare gli OGM a qualcosa di pauroso e dannoso. Comincia Jeff Moyer, «ex direttore del National Organic Standards Board». E già «Organic» è una spia della strategia naturista, ovvero uso parola che ha un’aura positivo: biologico, naturale, organico sono spacciati come sinonimi di genuino, sano, incontaminato. Il problema è che «Organic is a production term – it does not address the quality, safety or nutritional value of a product» (sull’idea di «natura» si legga anche questo).
Dice Moyer: «Ai consumatori americani non è mai stato chiesto se li volevano.
 Se qui negli Stati Uniti fermi qualcuno per strada e gli chiedi se sarebbe disposto a mangiare alimenti geneticamente modificati, probabilmente non sa neppure di cosa stai parlando. Se lo sapesse, ti risponderebbe di no.
 Ma la realtà è che già lo fa perché questi prodotti sono parte della sua dieta e delle sue abitudini alimentari.
 Se gli chiedessi: “Vorresti più antibiotici nella carne?”, ti risponderebbe di no, senza sapere che ce li mettono già. Non abbiamo la stessa libertà di scelta di cui finora hanno potuto godere gli europei. Forse, le future politiche commerciali non lasceranno libertà di scelta nemmeno a voi. Chi sa?». Che è come chiedere: vuoi questo sano e bello oppure quest’altro che fa male e fa ingrassare (che sia vero non è rilevante)?



Next, 21 ottobre 2014.

martedì 14 ottobre 2014

Brittany Maynard e il diritto di morire


Brittany Maynard ha 29 anni e un glioblastoma – ovvero uno dei tumori più aggressivi e meno trattabili. Ha deciso di morire tra meno di un mese. Non vorrebbe morire, ma la sua malattia le ha concesso poco spazio e poco tempo e Maynard non vuole lasciare che il tumore le mangi il cervello, non vuole rischiare di soffrire dolori inutili e difficilmente gestibili. Non vuole rischiare di vivere gli ultimi giorni in una condizione che lei giudica – per se stessa – non dignitosa. Non vuole morire, insomma, come il cancro la farebbe morire. “Voglio morire alle mie condizioni”, ha detto.

Chi ha il diritto di imporle una scelta diversa? Chi, meglio di lei, può decidere se e come avere a che fare con una diagnosi tanto spaventosa e con una patologia con sintomi tanto invadenti? Il suo video ha suscitato molte reazioni, tanto che Maynard ha aggiunto una nota al sito della sua fondazione (A Note from Brittany): non ho lanciato questa campagna perché volevo attenzione, ha scritto, ma l’ho fatto perché vorrei che tutti avessero la possibilità di morire con dignità. Sono fortunata perché ho una famiglia straordinaria e degli amici meravigliosi, e spero che tutti voi porterete avanti questa battaglia. (Sottotitoli: “avere la possibilità” non significa che tutti quelli con la stessa patologia dovrebbero scegliere come Maynard; scegliere vuol dire che ognuno dovrebbe poter fare come preferisce).

Tra le reazioni c’è stata anche la lettera di una donna, Kara Tippetts. Tippetts ha 36 anni, 4 figli e un tumore terminale. “Sto morendo anche io, Brittany”, le ha scritto. Le ha anche scritto che la sofferenza non è assenza di bontà e bellezza, ma “forse potrebbe essere il posto in cui la vera bellezza può essere conosciuta”.

Scegliendo di morire (o meglio, di morire un po’ prima della malattia e senza arrivare a soffrire fisicamente e psichicamente dolori che Maynard non vuole patire), secondo Tippetts, Maynard priverebbe quelli che la amano di questi momenti di “tenerezza”, della opportunità di conoscerla negli ultimi momenti e di amarla negli ultimi respiri.

Pagina99, 13 ottobre 2014.

lunedì 13 ottobre 2014

Cherry picking

Scrive Giuliano Guzzo sul suo blog («Sorpresa: la 194 è sempre meno tabù», 13 ottobre 2014):

Negli stessi giorni in cui vengono presentati sondaggi molto discutibili sulle nozze gay – discutibili per metodologia, tempistiche di rilevazione e modalità di presentazione dei risultati – che rileverebbero come la maggioranza degli Italiani ne sarebbe entusiasticamente a favore, è stata effettuata una ricerca che, anche se non ha avuto visibilità a livello nazionale, merita un’attenta riflessione, non foss’altro per gli esiti sorprendenti che ha avuto. Stiamo parlando di una rilevazione a cura dell’Istituto Demos – lo stesso i cui risultati vengono sovente ripresi anche da Repubblica – la quale, esaminando gli atteggiamenti politici del Nord Est (Veneto, Friuli-Venezia Giulia e della provincia di Trento), ha registrato come il 43% degli interpellati sia d’accordo con l’idea che «bisogna rivedere la legge sull’aborto per limitare i casi in cui è lecito».
Un piccolo particolare non del tutto trascurabile che si cercherebbe invano nel post di Guzzo: chi ha curato il sondaggio «molto discutibile» sul matrimonio gay è l’Istituto Demos, lo stessissimo identico istituto che ha curato quello sull’aborto, che invece «merita un’attenta riflessione».

Aggiornamento 14 ottobre: da notare come in base ai dati Demos, il numero di intervistati nel sondaggio sull’aborto sia stato minore rispetto a quello sulle nozze gay (1019 contro 1265), e di conseguenza maggiore il margine di errore (3,07% contro 2,8%).

domenica 12 ottobre 2014

Medico nega pillola del giorno dopo. Ancora una volta.


Nonostante la pillola del giorno dopo non sia abortiva, nonostante il TAR, nonostante le giuste proteste della coppia. Continuano a mascherare una omissione di servizio da coscienza fina. L’obiezione di coscienza non c’entra nulla con il rifiuto di prescrivere la contraccezione d’emergenza. Ma perché non cambiano lavoro?

Next, 12 ottobre 2014.

sabato 11 ottobre 2014

Mario Adinolfi, i numeri e gli omosessuali /1

Auspicavo poco tempo fa che Mario Adinolfi volesse aggiungere quanto prima un seguito alla sua opera più fortunata, Voglio la mamma. Il seguito ancora non l’abbiamo, ma due giorni fa Adinolfi ha annunciato un’edizione aggiornata del suo capolavoro, che comprenderà anche quattro capitoli nuovi di zecca. L’autore generosamente ha già reso disponibile in rete uno dei capitoli («I numeri della condizione omosessuale in Italia», Facebook, 9 ottobre 2014), che qui esamineremo, cercando non solo di apprendere qualcosa del modus operandi di Adinolfi, ma anche – soggetto indubbiamente più interessante – di dare qualche risposta parziale a delle difficili domande: quanti sono gli omosessuali nel nostro paese? Quante sono le coppie omosessuali conviventi? Quanti sono i figli degli omosessuali?


1. Quanti sono gli omosessuali?

Scrive Adinolfi:

Le menzogne fondamentali su cui costoro [cioè «la lobby Lgbt»] basano poi ogni azione rivendicativa è quella dei numeri. Quanti sono gli omosessuali italiani? Secondo costoro sono cinque o sei milioni. Quanti sono i figli di coppia omogenitoriale (cioè nati per autoinseminazione o fecondazione eterologa in vitro nel caso di coppia lesbica, via utero in affitto nel caso di coppia gay)? Secondo Arcigay sono centomila, seconda Arcilesbica sono duecentomila, il guaio è che questi dati sono […] dati falsi.
Per avere i dati veri non è che si debba poi fare troppa fatica. Basta andare alle fonti reali e scientifiche, quelle neutrali, prive di qualsiasi tentazione di propaganda. […] Allora, andiamo a verificare sulle fonti reali e scientifiche i numeri.
Partiamo dalla domanda primaria: quanti sono gli omosessuali in Italia? La risposta chiara e netta ce la offre l’Istat, che ha dedicato alla questione uno dei suoi Rapporti. Gli italiani che si dichiarano “omosessuali o bisessuali” sono un milione. Poco più dell’uno per cento dei sessanta milioni di cittadini italiani, eliminando la quota di “bisessuali” possiamo tranquillamente dichiarare supportati dall’Istat che gli omosessuali in Italia sono attorno all’uno per cento della popolazione complessiva.
Cominciamo con il notare come l’aritmetica di Adinolfi sia piuttosto disinvolta: un milione di omosessuali/bisessuali sul totale di cittadini italiani sarebbe pari a una percentuale dell’1,67% circa, che non è proprio «poco più dell’uno per cento», ma casomai «poco meno del due per cento». Inoltre, l’esclusione dei bisessuali dal computo totale appare del tutto arbitraria, visto che Adinolfi continua per tutto il capitolo a parlare di «lobby Lgbt» – chissà per cosa pensa che stia quella b – e visto che anche i bisessuali sono ovviamente interessati al matrimonio tra persone dello stesso sesso; a meno che Adinolfi non pensi che un bisessuale, in caso di perdurante impedimento a sposare una persona dello stesso sesso di cui sia innamorato, possa sempre facilmente consolarsi con qualcuno del sesso opposto. Cosa ancora più importante, non è per nulla chiaro da dove Adinolfi tragga i dati per il suo arrotondamento all’uno per cento di omosessuali, visto che nel rapporto Istat, come vedremo tra un attimo, è riportato soltanto il numero complessivo degli omosessuali/bisessuali.

Ma qual è questo rapporto dell’Istat, che Adinolfi non nomina? Si tratta de La popolazione omosessuale nella società italiana, pubblicato il 17 maggio 2012 (la situazione a cui fa riferimento è quella del 2011). Il rapporto contiene soprattutto dati sull’accettazione della condizione omosessuale da parte degli Italiani (me ne sono occupato in un’occasione precedente); il paragrafo sul numero di persone Lgbt si trova alle pp. 17-18:
Secondo i risultati della rilevazione, circa un milione di persone si è dichiarato omosessuale o bisessuale (pari al 2,4% della popolazione residente), il 77% dei rispondenti si definisce eterosessuale, lo 0,1% transessuale. Il 15,6% non ha risposto al quesito, mentre il 5% ha scelto la modalità “altro”, senza altra specificazione. I dati raccolti, quindi, non possono essere considerati come indicativi della effettiva consistenza della popolazione omosessuale nel nostro Paese, ma solo di quella che ha deciso di dichiararsi, rispondendo ad un quesito così delicato e sensibile, nonostante l’utilizzo di una tecnica che rispettava appieno la privacy dei rispondenti (busta chiusa e sigillata e impossibilità per l’intervistatore di verificare le risposte).
Si dichiarano più gli uomini (2,6%) che le donne (2,2%), più nel Nord (3,1%) che nel Centro (2,1%) o nel Mezzogiorno (1,6%). Tra i giovani la percentuale arriva al 3,2% ed è del 2,7% per le persone di 35-44 anni e di 55-64 anni. Tra gli anziani la percentuale scende allo 0,7%.
Come si vede, ritroviamo nel rapporto il milione di persone omosessuali/bisessuali citato da Adinolfi; ma la percentuale sul totale della popolazione residente non è né «poco più dell’uno per cento», né il mio 1,67%, bensì un sorprendente 2,4%. Come mai questa grossa discrepanza? La risposta è semplice: il rapporto è basato su un questionario sottoposto a persone comprese tra 18 e 74 anni di età; il denominatore è quindi significativamente inferiore ai 60 milioni circa della popolazione totale. È quindi ovvio, tra l’altro, che gli omosessuali/bisessuali dichiarati sono in Italia sensibilmente di più di un milione, visto che questo orientamento sessuale non è certo assente tra i minori di 18 anni o i maggiori di 74. Attraverso quale processo mentale Adinolfi sia passato dal 2,4% del rapporto al «poco più dell’uno per cento» è un mistero che non voglio nemmeno tentare di affrontare.

Ma c’è di più. Come il rapporto stesso chiaramente precisa, le cifre citate sono solo quelle degli omosessuali/bisessuali che hanno scelto di dichiararsi in occasione del sondaggio, e in nessun caso possono quindi essere considerate indicative dei numeri reali. Lo provano tra l’altro le grosse disparità geografiche e per classi di età della percentuale di omosessuali/bisessuali: non è che nell’Italia del nord ci siano più omosessuali o che l’omosessualità stia dilagando tra i giovani; piuttosto, a nord e tra i giovani esisterà un retroterra socioculturale che rende più facile la consapevolezza e l’espressione del proprio orientamento sessuale.
Come possiamo conoscere allora i numeri reali, che saranno per forza di cose maggiori di quelli citati? L’Istat ci prova; prosegue infatti il rapporto:
Come avviene nelle ricerche scientifiche internazionali l’orientamento sessuale è stato rilevato oltre che tramite l’autodefinizione, anche attraverso altre dimensioni, l’attrazione sessuale, l’innamoramento e l’aver avuto rapporti sessuali. Considerando tutte queste componenti, nel complesso si arriva ad una stima di circa 3 milioni di individui (6,7% della popolazione) per coloro i quali si sono apertamente dichiarati omosessuali/bisessuali o che, nel corso della loro vita, si sono innamorati o hanno avuto rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso, o che sono oggi sessualmente attratti da persone dello stesso sesso.
Qui l’Istat sta applicando un principio di buonsenso che si usa nelle scienze sociali: non bisogna mai fermarsi a come i soggetti definiscono se stessi, ma prendere in esame anche i loro comportamenti concreti. Purtroppo però il rapporto non fornisce né le domande esatte presentate nel questionario né le percentuali delle risposte; è quindi impossibile dire cosa misuri esattamente la cifra di tre milioni di persone determinata dall’Istat, anche se lo stesso Istituto afferma di stare rilevando in questo modo «l’orientamento sessuale». Molto dipende naturalmente dalla definizione di omosessualità che si adotta: quante esperienze omosessuali sono necessarie per definire una persona omosessuale o bisessuale? Per quanto tempo devono protrarsi o ripetersi? Va notato peraltro che anche con questo metodo non si possono rilevare tutti gli omosessuali/bisessuali effettivi (per esempio, se qualcuno ha problemi a dichiararsi non eterosessuale avrà verosimilmente anche problemi ad ammettere di avere o avere avuto rapporti sessuali con persone del suo stesso sesso).
Quello che è certo è che se estendiamo la percentuale del 6,7% alla popolazione residente nel 2011, di età superiore all’età del consenso (51.666.428 persone, secondo i dati Istat), otteniamo una cifra di poco inferiore a tre milioni e mezzo di persone, più vicina alla cifra di «cinque milioni o sei milioni» attribuita da Adinolfi alla lobby Lgbt che al milione da lui preso per buono (anche se le cose si complicano se quei cinque milioni – come vedremo fra un attimo – si riferiscono ai soli omosessuali, e non anche ai bisessuali, come il numero dell’Istat). E forse è proprio per questo che nel testo di Adinolfi di quel 6,7% non c’è la benché minima traccia, neanche per tentare di confutarlo, anche se appartiene a una fonte che egli stesso cita e definisce «reale, scientifica e neutrale».

Ma da dove arrivano precisamente questi «cinque milioni o sei milioni»? Adinolfi non lo dice; una brevissima ricerca ci permette di scoprire che in Italia la cifra dei cinque milioni è stata introdotta (o reintrodotta) nel dibattito pubblico recente in seguito alla pubblicazione del Rapporto Italia 2003 dell’Eurispes, che a pagina 1091 legge:
Si stima che gli omosessuali in Italia siano circa cinque milioni; secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sarebbero tra il 5% ed il 10% della popolazione italiana. Questo dato tende ad essere piuttosto costante a livello geografico e tra le classi sociali e le professioni.
Numericamente, dunque, gli omosessuali possono ancora essere definiti come una importante minoranza.
Purtroppo il rapporto dell’Eurispes non cita fonti di nessun tipo. Sembra comunque che la cifra di cinque milioni di omosessuali fosse già presente in un precedente rapporto dello stesso istituto (che all’epoca si chiamava Ispes), Il sorriso di Afrodite. Rapporto sulla condizione omosessuale in Italia, a cura di Crescenzo Fiore (Firenze, Vallecchi, 1991), che mi è rimasto purtroppo inaccessibile (traggo la notizia da F. Targonski, Fenomenologia della diversità, 2ª ed., Roma, MFE, 1994, p. 111).
Quanto al dato dell’Organizzazione mondiale della sanità, esso pure ricompare più indietro nel tempo, mutando leggermente aspetto man mano che si procede a ritroso. La citazione più antica a cui sono potuto pervenire si trova in un articolo di Gino Olivari, «Quanti sono gli omofili in Italia», apparso nel lontano 1976 sulla rivista Il Ponte, fondata da Piero Calamandrei (vol. 32, n. 2-3, pp. 283-84):
Comprendendo anche le donne, l’Organizzazione mondiale della sanità valuta che in Italia gli omofili veri siano complessivamente 2 milioni e 475 mila: circa il 4,50% dell’intera popolazione maschile e femminile. […] Oltre al milione e centoventimila, di sesso maschile, risulterebbero, sempre in Italia, almeno 5 milioni di maschi bisessuali.
Purtroppo anche qui nessuna indicazione della fonte, della cui esistenza non mi pare lecito dubitare, ma che in ogni caso risulterebbe ormai piuttosto datata. Lascio ricostruire al lettore volenteroso come si sia eventualmente passati da questi numeri al 5-10% attribuito all’OMS dall’Eurispes. (Di Olivari, figura d’altri tempi, generosa e al tempo stesso contraddittoria, si legga la bella intervista concessa a Giovanni Dell’Orto e Francesco Vallini, «Erano anni difficili...», Babilonia, n. 64, febbraio 1989, pp. 51-53.)

Per concludere questa prima parte, come valutazione personale e assolutamente non scientifica, direi che, considerata ogni cosa, la stima più prudente della percentuale di persone omosessuali e bisessuali nel nostro paese – intese come coloro che nel corso dell’ultimo anno hanno sperimentato un’attrazione sessuale e/o sentimentale stabile (ma non necessariamente esclusiva) per le persone dello stesso sesso – potrebbe oscillare tra il 3% e il 4%. Decisamente molto di più dell’1%. Far sparire o definire arbitrariamente false le cifre che non ci piacciono porta sempre a perdere di vista la realtà.
Nella prossima parte vedremo altri numeri e cercheremo soprattutto di rispondere a una domanda importante: quando si parla di diritti, le cifre importano veramente?

(1 - continua)

venerdì 10 ottobre 2014

Brittany Maynard e il diritto di morire con dignità



“Io non voglio morire. Ma sto morendo. E voglio farlo alle mie condizioni. Non direi a nessun altro che dovrebbe scegliere di morire con dignità. La mia domanda è: chi ha il diritto di dirmi che non merito di fare una scelta del genere? Che merito di soffrire per settimane o mesi dolori tremendi, sia fisici sia mentali? Perché qualcun altro dovrebbe avere il diritto di prendere una decisione del genere per me?” (Brittany Maynard, My right to death with dignity at 29, Brittany Maynard, 9 ottobre 2014, CNN).

A gennaio 2014, dopo anni di insopportabili mal di testa, Brittany Maynard scopre di avere un tumore al cervello. Ha 29 anni.
Il glioblastoma è il più aggressivo e mortale dei tumori cerebrali, la prognosi è di 6 mesi di vita. Come ricorda il video, in cui Maynard racconta la sua storia e spiega la decisione di morire alle sue condizioni, sono pochissimi i pazienti che sopravvivono oltre i 3 anni nonostante i trattamenti.
“La mia famiglia ha sperato in un miracolo”, racconta.
“Magari la risonanza è sbagliata? Magari hanno sbagliato qualcosa?”, ricorda la madre di Maynard.
La realtà è indifferente però alle speranze e al rifiuto di una diagnosi tanto impietosa.

Maynard decide allora di andare in Oregon, dove dal 1997 è in vigore il Death with Dignity Act.
Le sue condizioni rientrano in quelle previste dalla legge. Il solo fatto di poter decidere quando interrompere la propria vita diventata insopportabile e senza prospettiva di miglioramento è rassicurante (“I could request and receive a prescription from a physician for medication that I could self-ingest to end my dying process if it becomes unbearable”) – è un dato comune in chi è malato in modo irreversibile e la cui prognosi indica sofferenze difficilmente trattabili.
Non è solo il dolore, è anche voler mantenere il proprio confine di dignità, forse anche recuperare – in modo insoddisfacente e parziale – il controllo sulla propria vita.
È un sollievo – dice Maynard – pensare di non dover morire nel modo in cui mi hanno detto che mi farebbe morire il tumore.
Aveva considerato di morire in un hospice, ma anche con le cure palliative avrebbe potuto soffrire, sviluppando una resistenza alla morfina e ritrovandosi a vivere cambiamenti motori, cognitivi, di personalità, nel linguaggio – insomma, un profondo e doloroso stravolgimento di un’esistenza comunque prossima alla fine.
La giovane età e il fatto che il suo corpo sia sano costituisce un ulteriore rischio: “Potrei sopravvivere a lungo anche se il tumore sta mangiando il mio cervello. Soffrire con molta probabilità per settimane in un hospice, forse per mesi. E la mia famiglia dovrebbe assistere a tutto questo. Non voglio questo scenario da incubo per loro”.

Wired, 9 ottobre 2014.

martedì 7 ottobre 2014

Nel frattempo, in America...

Angioletta Sperti, «La Corte Suprema dà (implicitamente) il via libera alla celebrazione dei matrimoni same-sex in sette Stati: uno stringato order che ha il sapore di una decisione storica», Articolo 29, 7 ottobre 2014:

Con una decisione fulminea, assolutamente inattesa con tanto tempismo, la Corte Suprema degli Stati Uniti non ha ammesso i ricorsi presentati da cinque Stati (Indiana, Oklahoma, Utah, Virginia e Wisconsin) contro la rimozione del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Così facendo, la Corte non ha assunto una decisione definitiva sulla compatibilità del divieto di matrimonio con la Costituzione federale, che porterebbe all’apertura del matrimonio in tutti gli Stati Uniti d’America, ma ha deciso di non interferire, al momento, con i processi in corso nei singoli Stati. La decisione, comunque, ha effetti davvero dirompenti. Nel corso dell’ultimo anno, infatti, ben 39 sentenze emesse da varie Corti avevano annullato le leggi statuali che definivano il matrimonio come unione fra uomo e donna […]. Con la decisione della Corte Suprema di non interferire con queste decisioni, passano così da 19 (California, Connecticut, Delaware, Hawaii, Illinois, Iowa, Maine, Maryland, Massachusetts, Minnesota, New Hampshire, New Jersey, New Mexico, New York, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont e Washington) a 24 gli Stati americani in cui il matrimonio è già accessibile a tutti e tutte e, soprattutto, si crea un precedente che porterà a sicure decisioni conformi in altri Stati (West Virginia, North Carolina, South Carolina, Kansas, Colorado e Wyoming). A breve, quindi, sarà possibile sposarsi in ben 30 Stati su 50 (oltre che nel distretto della capitale, Washington DC). Ed ulteriori effetti sono attesi anche in altri Stati: uno stringato order che ha il sapore di una decisione storica.
Il resto dell'articolo è qui.
Andrew Sullivan – storico combattente per la marriage equality – riflette sul significato della decisione della Corte («Seeing The Mountaintop», The Dish, 6 ottobre):
[N]ow in thirty states (maybe thirty-five), the reality of this social reform will be seen: the quotidian responsibilities of spouses and parents, the moments of joy and agony that are part of all marriages, the healing of wounds of separation and ostracism. It won’t happen at once, but it will slowly emerge, through a greater collective empathy and inclusion. Every time a father holds back tears as his daughter marries her beloved, every time a child feels secure with her two dads or two moms, every time a young gay kid asks himself if he is really worthy because he is gay and now knows he can one day have a relationship like his mom and dad and feels less tormented and less alone: these are the ways we humans can grow and become what we fully can be. This is an expansion not just of human freedom, but of human love.
It is so easy today to see horror all around, anger surging, hysteria rising, fear spreading. But we see also in this remarkable, unlikely transformation the possibility of something much different: that human beings can put aside fear and embrace empathy, can abandon prejudice in favor of reality, can also see in themselves something they never saw before: an enlargement of the circle of human dignity.
Da leggere tutto.

lunedì 6 ottobre 2014

Sentinelle, siete circondate!

La risposta migliore agli omofobi e all’omofobia:



(h/t: Caterina Moro)

Le sentinelle in piedi. Per la rivoluzione venite già mangiati.


Ieri in alcune piazze le Sentinelle in piedi hanno vegliato (sembrano i membri dei Guilty Remnant di The Leftovers). Chi sono? «Sentinelle in Piedi è una resistenza di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere l’uomo e la civiltà». Addirittura? Una resistenza per evitare la distruzione dell’uomo e della civiltà? Perché vegliano? «Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna. La nostra è una rete apartitica e aconfessionale: con noi vegliano donne, uomini, bambini, anziani, operai, avvocati, insegnanti, impiegati, cattolici, musulmani, ortodossi, persone di qualunque orientamento sessuale, perché la libertà d’espressione non ha religione o appartenenza politica, ci riguarda tutti e ci interessa tutti». Vegliano «per la libertà di espressione, per poter essere liberi di affermare che il matrimonio è soltanto tra un uomo e una donna, che un bambino ha il diritto ad avere la sua mamma e il suo papà e che loro hanno il diritto di educare liberamente i loro figli». Si commentano da soli. Ma nella melma di parole, annunciazioni, avvertimenti e bizzarre espressioni ci sono alcuni slogan che si ripetono ossessivamente (e che non sono patrimonio esclusivo SIP): la Famiglia come uomo + donna, la genitorialità identificata con il concepimento biologico e il diritto di avere una mamma donna e un papà uomo, l’ideologia del gender e – addirittura – la minaccia alla libertà di espressione e di educazione. Parlo di queste ricorrenti espressioni con Vittorio Lingiardi, psichiatra e professore ordinario alla “Sapienza” di Roma.

La pretesa di vegliare per difendere gli interessi dei «più deboli» passa per la convinzione che esista un modello unico di famiglia come condizione necessaria e sufficiente per il benessere del bambino. Sapere che cosa è nell’interesse del bambino non è mica facile. «È quasi impossibile – mi dice Lingiardi – perché ogni bambino ha un interesse diverso e cresce in un contesto specifico. Non si possono fare generalizzazioni. Però possiamo farci alcune domande. È nel suo interesse crescere con genitori che litigano sempre ma stanno insieme perché qualcuno ha detto loro che così devono fare? È nel suo interesse crescere in una famiglia in cui i genitori sono separati ma condividono la sua educazione e si prendono cura di lui? È nel suo interesse stare in un orfanotrofio, in Africa [indimenticabile Rosy Bindi con «meglio in Africa che con due genitori gay»] o essere cresciuto da due genitori dello stesso sesso che lo adottano e lo amano? È difficile, come dicevo, generalizzare. D’altra parte è molto semplice dire cosa sia nel suo interesse, che poi è la formula che ricorre in molti statement di associazioni di psicologi, psichiatri e pediatri. Ovvero: essere cresciuti da genitori competenti capaci di fornire cure, in grado di riconoscere i bisogni del bambino, di stabilire limiti, di offrirgli un contesto sociale equilibrato. Dal punto di vista della ricerca sarebbe utile iniziare a costruire definizioni condivise e verificate: quali sono gli ingredienti della genitorialità? Tra questi ci sono quelli che nominavo prima. Mentre gli ingredienti necessari per il concepimento biologico sono evidentemente la presenza di maschio e femmina, quelli della genitorialità non hanno nulla a che fare con le differenze di genere, ma riguardano la capacità di interazione e di educazione».

Next, 6 ottobre 2014.

mercoledì 1 ottobre 2014

Scegliete: o eterologa o adozione!

I tentativi di intralciare il ritorno alla legalità della fecondazione eterologa si moltiplicano. Tra i più recenti, spicca per originalità quello di Marco Griffini, presidente di AiBi (Amici dei Bambini), movimento cattolico che riunisce chi ha intrapreso o vuole intraprendere la strada dell’affido o dell’adozione internazionali. Ecco la sua proposta, riportata da Avvenire (Ilaria Sesana, «“Tra sei anni la fine delle adozioni”», 28 settembre 2014, p. 14):

«Inoltre chiederemo al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, un emendamento alla legge sulla fecondazione eterologa – aggiunge Griffini –. Per fare in modo che una coppia che ha scelto l’eterologa, poi non possa più fare l’adozione internazionale». Una richiesta, spiega il presidente di AiBi, nata dall’ascolto dei bambini e giovani adottati, che non vogliono essere considerati «figli di serie B». «È culturalmente corretto portare avanti questo dibattito – conclude Griffini –; nel momento in cui un genitore si vede madre o padre di un figlio non suo ha due possibilità: l’eterologa e l’adozione. Ma deve scegliere. L’adozione non deve essere l’ultima spiaggia quando tutti gli altri tentativi sono falliti».
A quanto pare, dunque, per «bambini e giovani adottati» – o per l’AiBi che ne interpreta il pensiero – va benissimo essere considerati «figli di serie B», purché solo nei confronti dei figli biologici: non si chiede infatti di escludere dall’adozione chi ha già avuto figli naturalmente o tramite la fecondazione omologa. Una volta accettato questo principio, però, non si capisce perché escludere chi intende ricorrere all’eterologa, visto che anche in questo caso un legame biologico esiste, anche se solo con uno dei genitori (persino nell’eventualità assai rara della cosiddetta «doppia eterologa», in cui entrambi i gameti vengono da donatori, la madre stabilisce un legame di natura biologica tramite la gravidanza).

Al di là di queste contraddizioni, è abbastanza ovvio che ricorrere all’adozione come «ultima spiaggia» non implica affatto necessariamente che i figli ottenuti in questo modo non saranno amati poi come gli altri. Tentare di avere prima figli in tutto o in parte geneticamente legati alla coppia risponde non solo a imperativi culturali e istintivi molto profondi, ma verosimilmente anche a una strategia ottimale per ottenere un figlio: prima, quando la fertilità è più alta, provare con la procreazione naturale e assistita; in seguito, quando la coppia è più matura e può più facilmente superare lo scrutinio impegnativo che ne attesterà l’idoneità, provare con l’adozione. (È interessante notare come anche quei cattolici che si vantano di avere generosamente adottato dei bambini, contrapponendosi in questo modo virtuosamente agli «egoisti» che fanno ricorso alla procreazione assistita, abbiano nella quasi totalità prima generato figli propri e poi adottato.)

Resta infine da capire come un movimento che lamenta i numeri decrescenti delle adozioni internazionali e che ha fra i suoi obiettivi quello di rendere più facile la certificazione dell’idoneità, possa caldeggiare allo stesso tempo di ridurre gli aspiranti genitori e di erigere nuovi paletti. Ma forse quello che si cercava in questo caso, con una proposta che ben difficilmente potrebbe essere accolta, era in realtà solo un accreditamento presso autorità che della loro antipatia nei confronti dell’eterologa non hanno fatto certo mistero.