giovedì 29 agosto 2013

Stefano Cucchi e gli altri



L’aula bunker di Rebibbia è uno stanzone rettangolare. Ci sono le panche di legno al centro, le sedie ai lati - due file a destra, due file a sinistra -, le gabbie sulle pareti lunghe, le porte verdi.
Un lato corto è occupato da un banco con su la scritta “La legge è uguale per tutti” e dietro una decina di sedie nere. A sinistra c’è la porta da cui usciranno la presidente della terza sezione della Corte d’Assise e i suoi collaboratori. L’altro lato corto, in fondo, ospita un piano rialzato riservato al pubblico, di solito parenti e amici - come le gallerie nei vecchi cinema.
È pomeriggio, fa caldo, aspettiamo. Sembra che la sentenza sia attesa in tempo per i tg della sera. Nell’attesa non c’è niente da fare. Ci sono diversi giornalisti, gli avvocati, gli imputati e la famiglia Cucchi. Dopo l’impatto iniziale, non si riesce a rimanere seri e contriti troppo a lungo; il clima, per chi attende senza essere troppo coinvolto emotivamente, è più quello da ricreazione. Si scherza, si ride, si passeggia su e giù. È normale, è la tensione, è l’attesa. Fa caldo e non c’è niente da fare. Vado al bar che pare essere sopravvissuto agli anni settanta. I tavolini tondi con una tovaglia di plastica verde e quattro sedie di plastica bianca ciascuno, come quelle in un giardinetto di periferia. Il bancone è di alluminio e di legno, mentre accanto c’è un tavolo con piatti e tazze e dei bigliettini con il prezzo. Sembra un mercatino o una vendita improvvisata da ragazzini in un torrido pomeriggio estivo. Le luci al neon. Non c’è nessuno, o almeno all’inizio non vedo nessuno ma decido di chiedere - come nei film dell’orrore - “c’è qualcuno?”. Sbuca una signora, compro una bottiglietta d’acqua. Torno nell’aula dopo essere passata per una stanza con la targa “Testimoni” e un’altra con “Corte di Assise. Aula B”. Ogni parete, ogni sedia, tavolo o armadio è di uno squallore da stiva di traghetto.
Aspettiamo.
Un paio di volte sembra che stia per succedere qualcosa, ma l’eccitazione si spegne subito. Poi finalmente la Corte entra. Subito dopo la lettura della condanna, i giudici tornano nella stanza da dove sono venuti, molte persone gridano, alcune battono le mani, si alzano, si baciano, si abbracciano. I giornalisti si muovono verso la famiglia di Stefano Cucchi. Intanto dal fondo cresce un brusio e si mischia al rumore disordinato di passi. Gli imputati non condannati escono dall’aula, circondati - soffocati - da familiari e amici. Si sente gridare. “Assassini!”.
Mi avvicino alla balaustra oltre la quale si agitano una trentina di persone. Per qualche secondo le guardie fanno fatica a mantenere l’ordine, la sorella di Giuseppe Uva si sbraccia e grida. Continuerà a gridare fino alla fine. Fuori dall’aula, al telefono, alle persone che la circondano. Torno indietro e al centro c’è un capannello fatto di teste, microfoni, telecamere, luci. Alcuni cominciano a uscire. Sento dire a una voce sprezzante “Uvetta”, mi giro e vedo una toga nera - deve essere l’avvocato di qualcuno, non so di chi.
La madre di Stefano Cucchi è circondata da microfoni e videocamere. “Mio figlio è stato recluso per sei giorni, è uscito massacrato. Non è stato nessuno? Fino a poco fa avevo fiducia nella giustizia che invece non è stata capace di fare ammenda a se stessa. Mio figlio è morto di giustizia. Me l’hanno ucciso due volte”.

Il Mucchio Selvaggio, luglio 2013.

giovedì 27 giugno 2013

Dimmi come reagisci e ti dirò chi sei

Nella giornata storica in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha giudicato incostituzionale il Defense of Marriage Act (DOMA), stabilendo che i matrimoni gay contratti negli stati americani in cui sono permessi devono avere valore per il governo federale anche negli stati in cui non sono previsti dalle leggi (e con una seconda decisione ha reso di nuovo legali i matrimoni omosessuali in California), può essere istruttivo andare a vedere cosa scrive un tipico sito integralista italiano. Andiamo quindi sul sito dell’UCCR, l’Unione Cristiani Cattolici Razionali, un vero e proprio focolaio di pregiudizio e ignoranza. L’UCCR non commenta direttamente l’avvenimento, ma sceglie invece di dedicare un post («Olanda: dopo le nozze gay legalizzata anche al poligamia», 26 giugno 2013) a una notizia vecchia di quasi 8 anni, che in una prima versione del post veniva presentata come risalente al mese scorso (vedi i primi commenti al post, che è stato successivamente corretto).

In Olanda, il primo Paese a legalizzare i matrimoni gay e tra i luoghi più gay-friendly al mondo, non potendo più frenare l’ipocrisia, si è dovuta legalizzare la poligamia come previsto, riconoscendo ufficialmente il primo caso di poligamia “legale” in Europa nel settembre del 2005. Victor de Brujin (46 anni) ha “sposato” sia Bianca (31 ani) che Mirjan (35 anni) in una cerimonia davanti a un notaio che ha registrato la loro unione civile.
Quella che l’UCCR chiama «unione civile» (in olandese Geregistreerd partnerschap), cioè un’unione fra due persone che prevede diritti e doveri simili a quelli del matrimonio, è stata in realtà un Samenlevingscontract, un «contratto di convivenza», che stabilisce obblighi reciproci normalmente non opponibili a terzi, una forma di regolamentazione leggera delle unioni di fatto che nei Paesi Bassi predata di diversi anni l’unione civile (per maggiori dettagli si può consultare il sito del governo olandese). Parlare di «legalizzazione della poligamia» è quindi largamente esagerato, mancando qui sia la legalizzazione (nessun potere dello Stato è intervenuto a modificare o reinterpretare la legge esistente) sia la poligamia – il matrimonio fra più di due persone – in senso stretto. Quello che rimane è ciò che dovrebbe già essere legale in qualsiasi paese autenticamente liberale: una relazione sessuale fra adulti consenzienti e la regolazione privata di rapporti patrimoniali (in Italia, per la verità, un contratto di questo genere potrebbe probabilmente essere considerato contrario al buon costume, cfr. gli artt. 1343 e 1354 del codice civile).
Al di là di queste imprecisioni, che in fondo denotano solo una certa sciatteria (benché alquanto tendenziosa), il post costituisce un classico esempio della notissima fallacia del piano inclinato. Siamo di fronte a un vero e proprio gioco delle tre carte intellettuale: si fa occhieggiare qualcosa di atroce – la poligamia, l’incesto, la pedofilia legalizzati! (o il matrimonio con il Muro di Berlino, come paventa oggi con raro sprezzo del ridicolo La nuova bussola quotidiana) – poi, con un’abile torsione delle mani, si proclama: «Ecco, signore e signori, questa sarebbe la conseguenza inevitabile e automatica della tale innovazione normativa!». Ma c’è qualcosa che non si trova più, che non sta nel posto in cui credevamo dovesse stare: se bestialità, poligamia e oggettofilia sono davvero così spaventose, perché mai questa loro inaccettabilità non dovrebbe essere presa in considerazione e valutata, e in ultima analisi, se confermata, costituire un ostacolo fatale alla legalizzazione di questi rapporti? Prendiamo il caso in questione, la poligamia: in che cosa sarebbe inaccettabile? La risposta più comune mette l’indice sulla disuguaglianza fra i coniugi che così si introdurrebbe – anche se a dire il vero questo sembra riguardare solo la forma islamica dell’istituto. Potremmo aggiungere una presumibile maggiore litigiosità nei rapporti; o forse, all’opposto, un rafforzamento di strutture claniche che non gioverebbero al nostro assetto sociale. Tutto ciò è discutibile, naturalmente; ma non si vede perché non dovrebbe essere debitamente discusso prima di consentire questa innovazione. A meno che non si sostenga che è tutto un complotto laicista-massonico per distruggere la famiglia tradizionale, e che non ci si fermerà di fronte a nessuna conseguenza; ma così si abbandona la discussione razionale per il delirio paranoide – e non è una mossa molto astuta.

Ma proseguiamo nella lettura del post dell’UCCR:
Come ha spiegato il criminologo Alessandro Benedetti, il Consiglio d’Europa attraverso l’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito all’interno del Dipartimento per le Pari Opportunità), nell’intento di combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere ha invitato gli Stati membri ad abrogare «qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali» (art. 18). Ecco dunque che anche la pedofilia (o comunque il rapporto sessuale con un minore consenziente) comincia a fare sempre più capolino nelle società gay-friendly, poiché – ha spiegato l’avvocato – «se il criterio per considerare lecito e normale – e pertanto generatore di diritti – qualsiasi tipo di unione sessuale ed affettiva è la libertà ed il libero consenso delle parti, dopo aver sdoganato penalmente e quindi culturalmente i rapporti tra maggiorenni e minori anche di anni 14, si passerà a sdoganare l’incesto (che già oggi è reato solo in caso di pubblico scandalo: art. 564 cod.pen.) e la poligamia ed a richiedere per entrambi il riconoscimento giuridico con relativi diritti».
Per capire bene cosa vuole dire l’avvocato Benedetti andiamo a leggere direttamente il suo articolo («Il “trucco” dell’Europa per legalizzare pedofilia e incesto», Il sussidiario.net, 19 maggio 2013):
Un altro aspetto che lascia sgomenti è il fatto che nella Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa si trova l’invito agli Stati membri ad abrogare “qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali” (art. 18). Ora, secondo il nostro ordinamento (art. 606 quater codice penale), l’età del consenso (fissato in Italia a 14 anni) è la determinazione dell’età minima per disporre validamente della propria libertà sessuale e vi sono alcune condotte per le quali è dirimente il suo raggiungimento al fine di configurare o meno una condotta penalmente rilevante:
  • minore di 13 anni: il consenso non viene considerato valido, indipendentemente dall’età dell’autore dei fatti;
  • tra i 13 e i 14 anni: il consenso non è ancora considerato pienamente valido, ma esiste una causa di non punibilità nel caso in cui gli atti sessuali vengono compiuti consenzientemente con un minore di 18 anni, purché la differenza di età tra i due soggetti non sia superiore a tre anni;
  • tra i 14 e i 16 anni: viene considerato validamente espresso il consenso, salvo che l’autore dei fatti sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore ovvero conviva con il minore, o che il minore gli sia stato affidato per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia;
  • tra i 16 e i 18 anni: viene considerato validamente espresso il consenso, salvo che il fatto venga compiuto con abuso di potere relativo alla propria posizione da una delle figure citate nel punto precedente.
La ratio della legge e di tutta la relativa giurisprudenza è pertanto quella secondo cui al di sotto di una certa soglia d’età minima (14 anni) “la violenza (da parte del maggiorenne) è presunta in quanto la persona offesa è considerata immatura ed incapace di disporre consapevolmente del proprio corpo a fini sessuali”.
Ora la Raccomandazione auspica l’azzeramento di ogni distinzione d’età – in Italia come negli altri Paesi – col grave rischio di considerare domani lecite condotte oggi costituenti reato in un progressivo scivolamento culturale e giuridico verso il basso.
Per l’avvocato Benedetti, dunque (e per l’UCCR, che ne tracanna con voluttà ogni parola), il Consiglio d’Europa ci starebbe chiedendo di abrogare tutte quelle fini distinzioni di età che regolano il consenso dei minori agli atti sessuali. Ma quale sarebbe l’esito finale di questa abrogazione? E con quale criterio dovremmo uniformare, esattamente, la materia? Qui l’avvocato, mi pare, deve aver percepito che qualcosa non tornava, perché sembra di cogliere una certa esitazione nelle sue parole: se davvero l’Europa ci chiedesse di sdoganare in pieno «penalmente e quindi culturalmente i rapporti tra maggiorenni e minori anche di anni 14», ci si aspetterebbe da parte dell’autore una reazione assai più veeemente del semplice «sgomento». Se l’avvocato Benedetti avesse riflettuto un minuto in più sull’evidente assurdità della sua interpretazione, sarebbe stato magari indotto a rileggere con più attenzione il testo della Raccomandazione. Facciamolo noi per lui: l’Europa ci chiede di abrogare ogni «distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali». Benedetti ha letto come se il testo avesse di mira ogni distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e in più ogni distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra eterosessuali. Ma la lettera e il buon senso ci dicono che l’obiettivo è invece ogni norma che differenzi l’età del consenso tra omosessuali dall’età del consenso richiesta per gli eterosessuali; distinzione che rimane ormai solo in poche giurisdizioni, e che è assente in Italia. (L’UCCR sembra credere, in più, che attualmente in Italia sia vietato in ogni caso «il rapporto sessuale con un minore consenziente», o che faccia solo ora «capolino» nelle «società gay-friendly»: è un’idea molto diffusa tra le persone meno informate.)

Mi pare che una tendenza cominci a delinearsi chiaramente. Sfidando la pazienza del lettore, vorrei proporre un ultimo esempio, questa volta da un altro sito, Orarel, anch’esso integralista, anche se distante dalla tenebra ottusa dell’UCCR. Ecco come l’autore in parte commentava la notizia di ieri («Love is Love», 26 giugno):
Se l’amore è amore […] perché dire no all’incesto? Il film Esterno sera ci prova, anche se la prende alla larga, tra cugini. La regista Barbara Rossi Prudente afferma: “Nel film racconto un amore tra cugini in maniera molto casta. Ma è considerato un rapporto incestuoso e in Italia fa ancora paura parlare di queste cose… È una storia sconveniente, ma un amore così può nascere”.
L’autore (e a quanto pare anche la regista) sembra ignorare che in Italia le nozze tra cugini sono perfettamente legittime per il Codice Civile; non lo sono invece per il diritto canonico, che comunque prevede la possibilità di una particolare dispensa. Ma attribuire la cosa a una recentissima tendenza culturale, piuttosto che a un codice vecchio di decenni, è certo più funzionale alla costruzione di un immaginario pericolo incombente.

Gli integralisti, in conclusione, sono come quei disgraziati che si aggirano nelle discariche del Terzo Mondo, e che riempiono le loro sporte con quello che capita: un frutto mezzo marcio, il carillon che suona ormai una sola nota, una bambola spelacchiata; una vecchia fallacia, un fatto di incerta consistenza, l’articolo apparso su una rivista di dubbia reputazione, la conclusione affrettata del primo che passa; tutto viene afferrato con mani avide e rimesso in circolazione in qualche miserabile mercatino. Sono poveri – poveri culturalmente e intellettualmente, dopo che la loro cultura è rimasta asfaltata dalla modernità, dopo che i più brillanti sono da tempo passati all’altra parte; non riescono quasi più ad articolare le complesse distinzioni di una volta, a colpi di cause finali e sostanza e accidente. Da qui le grottesche semplificazioni odierne, con l’embrione persona fin dal concepimento o il matrimonio destinato esclusivamente alla procreazione. Da qui l’attaccarsi a ogni assurdità che sembri lì per lì tornare utile alla causa. Possono farci paura per un minuto, come la teppaglia di petainisti e vandeani che ha imbrattato per un po’ le strade di Parigi; ma mi chiedo se non ci strapperanno, alla fine della giornata, quando avranno perso tutto per sempre, un moto furtivo di compassione.

venerdì 21 giugno 2013

Ospedali fuorilegge


L’applicazione della legge 194 non è garantita e in moltissimi ospedali non si eseguono interruzioni volontarie di gravidanza, nonostante non esista la possibilità dell’obiezione di struttura.

L’articolo 9 della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) specifica chiaramente che il servizio debba essere garantito e che ogni struttura sia obbligata a offrirlo. Nonostante questo, moltissime strutture ignorano tale obbligo e a nessuno sembra interessare.
LAIGA – La Laiga è la Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194/1978. Il suo intento è di garantire i diritti delle donne e quelli degli operatori della 194. I dati che hanno raccolto sul numero di obiettori di coscienza sono diversi dai numeri ufficiali, presentati dal Ministero della Salute nella relazione annuale sull’applicazione della 194. Sono numeri impressionanti, raccolti tra mille difficoltà e che ci rimandano una fotografia drammatica del fenomeno. Mi faccio raccontare da Anna Pompili, ginecologa della Laiga, quali ostacoli hanno incontrato e che cosa implicano numeri tanto alti.
NON CI SONO I REPARTI IVG – “I dati ufficiali del Ministero sono già drammatici: 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza e quindi non garantiscono il servizio IVG. Ma il quadro è ancora più drammatico di così, i numeri sono più alti e in molte strutture manca proprio il reparto di IVG”. Non solo: il primo ostacolo è stato il reperimento. La Laiga ha incontrato mille difficoltà nell’avere una risposta sui numeri degli obiettori in ciascuna struttura, dato ben più utile della generica percentuale regionale se vuoi decidere a quale struttura rivolgerti e calcolare dove il servizio dovrebbe essere garantito meglio. “I dati presentati dalla relazione ministeriale – continua Pompili – non corrispondevano alla nostra sensazione di operatori. Abbiamo allora cercato di capire. Rintracciare i numeri per struttura è stato impossibile. La scusa è stata: si tratta di dati sensibili. Naturalmente non volevamo sapere i nomi degli operatori sanitari, ma soltanto il numero di obiettori in modo da valutare il funzionamento del servizio IVG”. Si tratta di dati sensibili è stata la risposta dell’Istat e quella delle direzioni sanitarie. “Abbiamo chiamato ospedale per ospedale, ma è stato altrettanto inutile”.
LA FORMAZIONE – La Laiga allora ha raccolto i dati con uno sforzo capillare e “ufficioso”. “Chiedendo ai nostri colleghi, uno per uno – mi racconta Pompili. Ecco il risultato. Primo: c’è un dato non considerato dalla relazione parlamentare, ovvero che un gran numero di ospedali sembra ignorare l’esistenza della legge. Nel Lazio, in 10 ospedali su 31 non esiste il servizio IVG. In Lombardia, in 37 su 64. La cosa più grave è che il Sant’Andrea di Roma, per esempio, è un ospedale universitario. Disattende il dettato della legge non solo per l’articolo 9 – e pretendendo l’obiezione di struttura – ma anche l’articolo 15, cioè quello sulla formazione dei giovani medici”. Il Sant’Andrea non insegna cioè ai futuri ginecologi né la legge né la pratica medica. Questo significa che gli specializzandi e i futuri medici non sapranno come ci si comporta di fronte a un aborto, nemmeno agli aborti spontanei. “Si usa una tecnica vecchia invece che l’isterosuzione. Siccome è identificata come tecnica per l’IVG non viene usata, è stigmatizzata anche la procedura medica. E allora si ricorre al raschiamento, che è una modalità più invasiva e aggressiva, e gravata da complicazioni”.

venerdì 7 giugno 2013

“Questo matrimonio non s’ha da sciogliere. Anche se lui adesso è una lei”

Il signor A e la signora B si sposano. Poi il signor A decide di cambiare sesso e diventa la signora A. Per legge il loro matrimonio deve finire, anche contro la loro volontà. Parliamo in esclusiva con uno dei loro avvocati difensori.

INCOSTITUZIONALE SCIOGLIERE UN MATRIMONIO? – La prima sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 14329/2013, ha sollevato ieri il dubbio di costituzionalità riguardo allo scioglimento automatico e obbligato di un’unione in seguito al cambiamento di sesso. Nell’ordinanza gli atti vengono rinviati alla Corte Costituzionale, con la richiesta di controllare la legittimità di alcuni articoli della legge sulla rettificazione di attribuzione di sesso (164/1982). Non è forse ingiusto imporre un divorzio? Non è forse il consenso il fondamento matrimoniale? La legge sembra essere brutale e pornografica, intromettendosi in questo modo nell’intimità familiare.
I CONIUGI – Il signor A e la signora B si sposano alcuni anni fa. Qualche tempo dopo il signor A fa domanda per la riattribuzione di sesso. Alla conclusione del lungo percorso, il tribunale di Bologna nel 2009 dispone la rettifica e annota a margine dell’atto di matrimonio: “là dove è scritto “maschile” ad indicare il sesso del nato debba leggersi ed intendersi “femminile” e là dove è scritto “Signor A” ad indicare il nome debba leggersi “Signora A”, pertanto il Signor A […] ha assunto il nuovo prenome di Signora A”.
EFFETTO COLLATERALE – La sentenza del tribunale produce però anche, ai sensi dell’articolo 4 della legge 164 del 1982 (“La sentenza di rettificazione […] provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso”), la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Impone, in altre parole, la fine del vincolo matrimoniale anche se i coniugi, come in questo caso, non hanno alcuna intenzione di scioglierlo. Inizia così la loro battaglia per difendere il loro matrimonio che le ha portate fin qui.

giovedì 30 maggio 2013

La minaccia OGM


Nell’intervento di Adriano Zaccagnini alla Camera dei Deputati “Contro gli OGM”, si agitano i soliti fantasmi contro gli organismi geneticamente modificati (OGM). Questi fantasmi si radicano un po’ in un pigro tradizionalismo, un po’ nell’ignoranza, un po’ in un’ostinata e generica nostalgia per il bel tempo che fu. Quando parlo di ignoranza penso sempre ai “pomodori senza geni”: in una delle rilevazioni sulla conoscenza delle biotecnologie, condotte qualche anno fa da Observa, il 28% degli intervistati rispose che è vero che “i comuni pomodori non contengono geni mentre quelli geneticamente modificati sì” (cui va aggiunto il 19,5% che non sapeva). E i geni, si sa, sono molto pericolosi. Quasi il 45% ha risposto poi che “gli animali geneticamente modificati sono sempre più grandi di quelli comuni” – e un animale più grande in genere fa più paura, è più minaccioso. Questo è più o meno il contesto in cui nasce e viene nutrito il sospetto verso gli OGM, cullato da allucinazioni “biologiche” a chilometro zero.

Giornalettismo.

mercoledì 29 maggio 2013

Famiglie SMA


Da stamattina, mercoledì 29 maggio, alle 10 in punto, per 10 giorni parte un tamtam nella rete firmato Famiglie SMA. Nel portale dell'associazione dei genitori di bambini e degli adulti con atrofia muscolare spinale, ogni mattina verrà caricato un video diverso. Pochi secondi o pochi minuti per raccontare i sentimenti e il Valore della Vita, mettendo per immagini il titolo del convegno associativo che si svolgerà a Roma dal 21 al 23 giugno, una tre giorni con un programma incalzante che comprende nel suo primo giorno un corso di aggiornamento sulla ricerca scientifica per il personale sanitario, accreditato ECM per operatori del settore medico-chirurgo. Alcuni dei maggiori esperti nazionali e internazionali di Atrofia Muscolare Spinale interverranno sui temi della presa in carico del paziente SMA e della corretta comunicazione della diagnosiA lanciare l'evento, da un'idea di Simona Spinoglio, counselor e delegata per il gruppo piemontese di Famiglie SMA, e per la regia di Ariel Palmer, un esperimento visivo per trasmettere, anche a chi non ha un'esperienza diretta di vicinanza a un bambino affetto da atrofia muscolare spinale, la ricchezza umana di un vissuto unico, difficile ed emozionante come questo. Per dire che mentre la ricerca scientifica continua il percorso verso una cura, in molte famiglie si snoda di minuto in minuto la ricerca quotidiana di gioia nelle piccole cose e nei grandi legami d'amore con i bambini. Che giocano, vanno a scuola, hanno voglia di vivere come e più di tutti gli altri.Dieci piccoli video - cinque mini spot e cinque mini interviste - che mostrano la vita come un albero dove ogni parte è un aspetto fondamentale e unico. Il tronco, le radici, le foglie, i fiori e i frutti. Per ognuna ci sono uno spot e un'intervista.Aiutateci a rimbalzare questi video nella rete, mostriamo a tutti la Vita che c'è nella SMA!In anteprima il primo video: L'ALBERO DELLA VITA: IL PROFUMO DEI FIORI.
Famiglie SMA.

venerdì 17 maggio 2013

Il Minnesota approva la legge sui matrimoni per persone dello stesso sesso, l’Italia resta immobile


Photo by Justin Sullivan/Getty Images

Mentre il Minnesota sta per approvare una legge sui matrimoni senza discriminazioni, Maurizio Sacconi ci mette in guardia sul rischio di sposare il gatto di casa. O quello randagio?

Il Minnesota è vicino all’approvazione di una legge sui matrimoni per persone dello stesso sesso. Sarà il dodicesimo stato degli USA e la parola definitiva sarà detta il prossimo lunedì.
La cosa non dovrebbe nemmeno essere giustificata, piuttosto il contrario.
È una questione di giustizia e di uguaglianza, che non toglierebbe nulla a nessuno. Il divieto, invece, esclude alcune persone dall’accesso ad alcuni diritti in base alle preferenze sessuali: posso sposare Francesco, ma non posso sposare Francesca. A meno che – come di recente è stato stabilito – io non sia un parlamentare e allora ancora non posso sposarmi ma posso usufruire dell’assistenza sanitaria (e quello che non va bene non è che vi siano più diritti, ma che non siano validi per tutti. Cioè che il more uxorio valga solo in un certo luogo e non in un altro).
L’analogia più potente è quella con il divieto di matrimoni interrazziali d’un tempo e con i presunti argomenti di chi vi si opponeva in nome di qualche sacralità da rispettare. Argomenti che oggi si ripetono meccanicamente contro l’uguaglianza e che sono ridicoli. Dalla famiglia “tradizionale” a quella “naturale” il campionario di invocazioni è abbastanza vario, ma sostanzialmente animato dallo stesso scheletro: la discriminazione. Superfluo sottolineare che se io potessi sposare Francesca non minaccerei il tuo matrimonio, né il tuo celibato, né la tua indecisione.

Mentre in Minnesota legiferano sull’uguaglianza, qui in Italia si svolge la “Giornata internazionale della famiglia 2013” (Roma, Palazzo Rospigliosi). Dal sito si può leggere che “La giornata, organizzata dal Forum delle Associazioni Familiari in collaborazione con la Fondazione Roma Terzo Settore, sarà approfondita attraverso l’intervento di numerose personalità provenienti da istituzioni, parti sociali e imprenditoriali sviluppandosi attraverso due momenti di confronto” (il programma completo lo si può scaricare alla fine della pagina).
A leggere chi sono gli organizzatori si ripensa immediatamente al Family Day – quella celebrazione un po’ buffa un po’ surreale della Famiglia con la F, che potrebbe avere come slogan “di Famiglia ce n’è una, tutte le altre son nessuno”, e la Famiglia è quella che dicono loro: moglie geneticamente femmina (XX), marito geneticamente maschio (XY), prole possibilmente numerosa e concepita senza diavolerie tecniche.
E basterebbe guardarsi intorno per rendersi conto della varietà dei modelli familiari e della vacuità del modello unico, manco fosse un odioso balzello.
Più di tanti ricordi e discorsi, a essere sintomatico della palude in cui ci troviamo sono le parole di Maurizio Sacconi, già indimenticabile per le sue dichiarazioni su Eluana Englaro quando era ministro del Welfare, firmatario di un atto che rendeva illegale sospendere la nutrizione artificiale, nonostante la decisione del giudice, e che ha avviato un’indagine per violenza privata.
Sacconi fa anche riferimento all’assicurazione sanitaria tra le mura della Camera dei deputati – “non mi straccio le vesti perché rispetto le relazioni affettive”, ci rassicura. Però – c’è sempre un però – invoca le conseguenze di una decisione del genere al di fuori, ovvero se dovessimo replicare quel modello di uguaglianza anche tra i non deputati, pensione di reversibilità compresa (e tasto dolente sul piano della spesa pubblica).
“La difesa dell’unicità dell’istituto matrimoniale è la difesa del nostro modello sociale”, chiarisce. E questa è l’unica obiezione comprensibile (non giusta, perché sarebbe la giustificazione del mantenimento di una discriminazione, ma almeno si capisce che se apriamo i confini servono più soldi e già di soldi non ce ne sarebbe abbastanza). Ma Sacconi si spinge oltre, affermando che è giusto riconoscere “come dice la carta costituzionale solo la famiglia naturale, la società naturale”.
E questo è davvero semplicistico e forzato, perché presuppone l’interpretazione della famiglia “naturale” come quella che dice lui, l’automatica esclusione delle altre e l’impossibilità di un cambiamento sociale (dell’articolo 29 della Costituzione, che parla di “coniugi” senza nominarne il sesso, si può leggere qui).
Poi ribadisce la necessità che nella dimensione pubblica vi sia una “promozione dei principi etici della tradizione” – e mi piacerebbe sapere a quale tradizione fa riferimento, perché di per sé la tradizione non è né buona né cattiva, ma solo ciò che è accaduto per un certo periodo di tempo. La tradizione a lungo è stato il matrimonio riparatore o l’istituto della dote – di cui non c’è da andare fieri.
In conclusione, dopo un accenno alla famiglia come scheletro del welfare e delle imprese (“modello di capitalismo familiare, che affronta le fatiche dello startup come nessuno mai“), ecco un’amara constatazione di Sacconi, o meglio un avvertimento: “del resto il catalogo (le fattispecie di famiglie possibili, nda) è completo, mancano solo gli animali”.

Fanpage, 16 maggio 2013.

mercoledì 15 maggio 2013

Angelina Jolie e i dilemmi etici di Michela Marzano



Lo sanno tutti che cosa Angelina Jolie ha deciso di fare e perché. Il suo editoriale di ieri sul New York Times, My Medical Choice, è chiarissimo anche riguardo ai dettagli medici. Inizia così: “My mother fought cancer for almost a decade and died at 56”. Quando i figli le chiedono cosa sia successo alla nonna, Jolie deve spiegare loro la malattia che l’ha fatta morire e poi rassicurarli che no, a lei non succederà. Ma non è proprio così, a causa della mutazione del gene BRCA1, responsabile di aumentare la percentuale di rischio di sviluppare un tumore: 87% per quello al seno, 50% per quello alle ovaie. Una volta conosciuta la situazione, Jolie decide di sottoporsi a una mastectomia preventiva e lo scorso 27 aprile si chiudono i tre mesi previsti per le procedure mediche necessarie. In questo periodo Jolie ha mantenuto un’assoluta riservatezza, ma ora ha deciso di parlarne sperando che possa essere utile alle altre donne.
“Posso dire ai miei figli che non devono aver paura di perdermi per colpa di un cancro al seno. È rassicurante che non vedano altro che le mie piccole cicatrici, tutto qui. Il resto è solo Mamma, la stessa di sempre. E sanno che li amo e che farò di tutto per stare con loro il più a lungo possibile. Sul fronte personale, non mi sento in alcun modo meno donna. Mi sento rafforzata dall’avere preso una decisione importante che non diminuisce affatto la mia femminilità” (sulla questione tornano in tanti, tra cui Maureen O’Connor su The Cut – New York Magazine, Angelina Jolie: Breasts don’t define Feminity e Eleanor Barkhorn su The Atlantic, Angelina Jolie Is Still a Woman – il titolo arriva direttamente dalla domanda di Erin Brockovich/Julia Roberts dopo avere subito mastectomia e isterectomia: “non ho più il seno e l’utero, sono ancora una donna?”).

Dicevo, tutto chiarissimo. Ciò che non è chiaro è per quale ragione non possiamo fare a meno di commentare – voglio dire, non solo nella nostra testa, quello più che commentare è reagire con la paura egocentrica e immediata del “se succedesse a me”. Ma la necessità di dire pubblicamente cosa ne pensiamo, atteggiandosi a pizie serissime, è un’altra storia.
E se potrebbe essere utile aggiungere informazioni sul quadro clinico e sul significato di quella che è una diagnosi predittiva e della conseguente decisione preventiva – come fa per esempio Anna Meldolesi – oppure provare a valutare gli effetti di questo racconto (saggiamente informativo o pericolosamente imitativo?), rischia di sembrare ridicolo caricare questa storia di giudizi e di valutazioni “etiche” adatti a tutte le stagioni, a volte espressi senza capire nemmeno di cosa si stia blaterando.
Il caso forse più fascinoso – ma può essere che io mi sia persa esempi migliori – è il commento telefonico rilasciato da Michela Marzano a la Repubblica.
A cominciare dal titolo – Jolie, Marzano: “Il rischio vero è di non riconoscersi più” – ma, si sa, i titolisti a volte si lasciano prendere la mano e messa così sembra un problema di scambio di persone, tipo che Jolie s’è risvegliata nel corpo di Marzano e non se ne capacita. Tuttavia questa volta il titolo è didascalicamente preciso ed evocativo di sapori e atmosfere alla Philip K. Dick o altra fantascienza di trasferimenti corporali meno nota.
Si comincia con “Angelina Jolie è conosciuta mondialmente non solo come attrice, ma anche, e forse soprattutto, come donna autonoma”. Come donna autonoma? “Ma allora – incalza Marzano, spingendoci immediatamente in un angolo – si tratta di un gesto di autonomia personale?”
Non è chiaro se il significato di autonomia sia tecnico, esistenziale o verosimilmente entrambi e mischiati, e non è nemmeno chiaro in che modo potremmo provare a rispondere o perché dovrebbe interessarci farlo.
Confidiamo nel seguito che riguarda “un gene difettoso – ma che cos’è un gene difettoso? Si può davvero arrivare a minimizzare il rischio? In realtà questo tema dei geni difettosi è un tema molto complesso”, e se speri che qui vi sia qualche spiegazione ti sbagli (nella stessa giornata c’era “un gene che usciva dal corpo” di una neonata cui era stata diagnosticata la trisomia 21 – doveva esserci qualcosa nell’aria, ieri).

Il meglio deve ancora arrivare però, il meglio è il dilemma etico (in fondo Marzano non è una genetista, ma questo – il dilemma etico – dovrebbe essere il suo territorio): da un lato si vuole minimizzare, dall’altro “agendo in maniera così invasiva sul proprio corpo si mette a rischio quella che è la propria identità personale, si modifica in maniera radicale il proprio corpo”.
Qui viene il dubbio che Marzano non abbia davvero idea della procedura medica nella sua completezza, e che nella sua testa permanga l’immagine dell’asportazione dei seni, quella iconografia da manuale degli orrori, tubi cicatrici e spazio mancante (lì dove prima c’era il tuo seno – e anche in questo caso l’identificazione seno/identità non è proprio automatica). E Jolie l’aveva scritto chiaramente: “They can see my small scars and that’s it. Everything else is just Mommy, the same as she always was. And they know that I love them and will do anything to be with them as long as I can. On a personal note, I do not feel any less of a woman.” E aveva anche aggiunto che l’avanzamento nelle tecniche ricostruttive ti permette di avere risultati molto soddisfacenti, anche dal punto di vista estetico (“the result can be beautiful”).
Chissà cosa pensa Marzano degli effetti di una malattia sull’identità personale, o del terrore di svilupparla – soprattutto quando è un terrore fondato. Chissà cosa pensa di quando ci si tinge i capelli, si dimagrisce o si ingrassa, si invecchia. Capisco che il tema sia affasciante – è forse uno dei più affascinanti – ma tirare fuori l’identità personale in questo modo è come tirare fuori un asso da una manica e poi non giocarselo.
Non abbiamo ancora finito perché c’è un monito definitivo, un avvertimento che va ben oltre il caso da cui siamo partiti. “Attenti – conclude Marzano – perché siamo oggi di fronte all’ideologia di credere che si possa esercitare un controllo su se stessi, sul proprio corpo e sulla propria salute. Certo i rischi diminuiscono quando ci si fa asportare, ma si arriva veramente al rischio zero?”
Per fortuna Marzano ci rassicura: no, il rischio zero non esiste, questo almeno ce lo risparmia. “Ma rischi di non riconoscerti davanti allo specchio”, e torno a chiedermi cosa immagina Michela Marzano, una Venere di Milo cui manchino entrambi i seni invece delle braccia?
“Il corpo non è semplicemente un oggetto che si può cambiare. Non c’è vita senza salute. La salute non la si può controllare, non fa parte delle merci, di quel bagaglio di controllo. Il corpo non è semplicemente un oggetto in nostro possesso.”
A parte questa storia del corpo e degli avvertimenti che lo riguardano, a parte questa rimasticazione del “corpo non come oggetto, non in nostro possesso” (chissà di chi è il nostro corpo), qualcuno dovrebbe ricordare a Marzano che la vita c’è anche quando la salute non c’è e che va pure bene pontificare, ma perché non provare a prendere meglio la mira?

martedì 14 maggio 2013

Essere conosciuta mondialmente come donna autonoma


La 194 compie 35 anni

La Casa Internazionale delle Donne e Fandango organizzano un incontro a Roma presso la Casa il prossimo 22 maggio alle 17.30.



domenica 12 maggio 2013

Chi ci marcia sulla Marcia per la Vita



Oggi a Roma si è svolta la terza edizione della Marcia per la Vita. Obiettivo: eliminare la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.

L’appuntamento è per le 8 di questa mattina al Colosseo. Io arrivo verso le 9 e ci sono alcune persone davanti all’uscita della Metro B, lungo via dei Fori Imperiali e intorno all’Anfiteatro Flavio. Nei minuti successivi continueranno ad arrivare in tanti e da varie direzioni.
C’era chi distribuiva pettorine gialle per invitare a firmare la petizione “L’embrione è uno di noi”, chi offriva scarpine di maglia in vari colori e troppo piccole anche per il più minuto dei neonati in cambio di un’offerta libera, chi sventolava una bandiera, chi preparava gli striscioni che entro qualche minuto sarebbero stati innalzati su manici di scopa.
Un po’ più tardi del previsto (9.30) il corteo è partito incanalandosi lungo via dei Fori in direzione di Piazza Venezia. La via era ristretta da vari allestimenti sportivi – perlopiù reti da pallavolo – e fino all’angolo con via Cavour le persone sono passate sul lato sinistro per poi allargarsi nella parte finale. La Marcia è poi stata diretta verso via delle Botteghe Oscure, largo di Torre Argentina, corso Vittorio Emanuele per poi girare verso ponte Sant’Angelo e arrivare sullo spiazzo di fronte a via della Conciliazione. La destinazione finale era San Pietro e la fine dell’Angelus.

Oltre ai nomi delle associazioni o agli apodittici “No all’aborto”, le scritte andavano da “L’aborto non è un diritto ma un delitto!” a “Non sono un fatto politico. Non sono un’invenzione della Chiesa. Sono un bambino guardami!! (con un’immagine di un feto che si ciuccia il pollice)”, da “La vita inizia col concepimento” a “Salviamo le mamme e i bambini” – perché non è mica soltanto il nascituro a dover essere salvato, ma anche la donna, poco in grado di decidere e di capire che interrompere una gravidanza non è solo inammissibile moralmente ma è da autolesionista. Al richiamo ontologico si somma quello paternalistico: vogliamo impedirtelo per il tuo bene, non solo perché è sbagliato.


Camminando tra le persone e tra simili cartelli, si potevano sentire anche slogan simili urlati con o senza l’aiuto di un altoparlante, qualche volta coperti dalla banda in testa al corteo. “Ogni aborto è un bambino morto!”. Oppure: “Dal Colosseo dei martiri, ai papi di San Pietro! La marcia per la vita non torna indietro!”, “Ateo o credente non importa niente! A morire è sempre un innocente!”,Donna che hai abortito, per te non è finita. Vieni insieme a noi, e marcia per la vita!”.

La retorica “prolife” è fondata su malintesi e punta a suscitare reazioni immediate, poco importa se gli strumenti sono oppressi da fallacie e dalla disattenzione verso le conseguenze. Come l’identificazione tra “embrione” e “bambino”, o come il richiamo all’omicidio e al genocidio (coerente conseguenza ammessa la premessa, ma discutibile se la premessa rimane sospesa). È il caso di un cartello sorretto da una bambina con la scritta in stampatello: “Se fossi nata in Cina sarei morta piccolina. Sono felice di essere nata”. Sotto alla scritta dodici infanti con i fiocchi alternati rosa e azzurri. Oppure la scritta “Basta genocidi silenziosi” (mi auguro che anche eventuali genocidi non silenziosi non vadano bene).
Oltre agli slogan in tema, c’era anche un cartello su Eluana Englaro, “Vittima innocente dell’eutanasia. Voleva e doveva vivere”. Se avessimo ancora qualche dubbio, la questione non è tanto – o almeno non solo – la difesa degli embrioni, ma il controllo delle decisioni che le singole persone potrebbero esercitare. Per dirla con uno slogan: “Vogliamo difenderti dagli altri e poi da te stesso, dal concepimento alla morte naturale”. E non importa se non è chiaro perché qualcuno dovrebbe venirci a dire se e come morire, non importa se il richiamo al “naturale” non ha alcun senso (quale sarebbe una morte naturale?, e perché qualcosa che è naturale dovrebbe essere preferibile intrinsecamente e considerata moralmente benigna?), non importa se “vita” è un termine ambiguo e impreciso, non importa se l’alternativa all’autodeterminazione è il paternalismo legale o peggio l’imposizione – ciò che importa è che lo slogan funzioni: giù le mani da te stesso e giù le mani dall’embrione (che per ora è ancora così tanto legato a te da essere difficilmente separabile).

Non so quanti dei partecipanti fossero pienamente consapevoli per quale fine stessero marciando e che cosa comporterebbe l’abolizione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza – obiettivo politico e morale della Marcia.
Tra le incoerenze più ricorrenti – non solo oggi tra i marciatori ma tra i tanti fautori del “no alla 194” – c’è la convivenza tra la richiesta di abolire la 194, riportando così l’interruzione di gravidanza nel dominio dei reati, e il rifiuto di condannare le donne (per strategia?, per misericordia?). La convivenza cioè tra un reato e l’assenza di pena – caso unico nel panorama penale, per cui non basterebbe invocare le attenuanti. È la stessa comoda incoerenza che caratterizzava la lista di Giuliano Ferrara “Aborto? No, grazie”: l’aborto è omicidio, le donne però non sono punibili e non le puoi nemmeno chiamare assassine. E non si capisce come si possa commettere un reato e contemporaneamente non essere rei, a meno che non si pensi che il reo sia intrinsecamente non in grado di intendere e di volere ma qui la situazione si complicherebbe ulteriormente.
Qualcuno ha la tentazione di pensare che in fondo potrebbe andare peggio, ma accontentarsi di questa “eccezione” è pericoloso almeno quanto giocare sulla difensiva sui diritti riproduttivi, ritrovandosi a dover sempre invocare circostanze eccezionali e speciali per giustificare la richiesta di ricorrere alle tecniche riproduttive, di interrompere una gravidanza, di non proseguire un trattamento sanitario.
Non so se questa incoerenza è un sintomo di un’adesione formale o di una disattenzione più strutturale. Il risultato è uno spettacolo un po’ buffo, un po’ triste, un po’ manieristico. E dopo qualche ora di marcia sotto al sole e sotto ai cartelli “prolife”, la convinzione che non esista possibilità di discussione è talmente assoluta da risultare banale. Come lo è chiedere a un creazionista di discutere con un evoluzionista, conservando l’ingenua convinzione che tutto possa funzionare come un dibattito televisivo indigeno: tu sei a favore o sei contro?