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venerdì 27 settembre 2013

Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /2

Quei privilegiati dei perseguitati
Abbiamo visto nella prima parte un esempio di come la lettera stessa della proposta di legge contro l’omofobia possa venire stravolta. Ma naturalmente sono gli errori di interpretazione delle disposizioni della legge a essere più frequenti. Uno in particolare sembra estremamente frequente, anche se è difficile capire come una incomprensione così grossolana abbia potuto diffondersi in questo modo. Ne troviamo un primo esempio nel blog di Assuntina Morresi («Papa Francesco, legge omofobia», Stranocristiano, 20 settembre 2013):

L’aggravante accettata [dai deputati], all’interno della legge Mancino, […] è un’aggravante legata a qualsiasi reato penale contro un omosessuale, non solo quelli di violenza (il pugno o l’insulto). Per esempio: io truffo un omosessuale? Si applica un’aggravante. Io scippo un omosessuale? Si applica un’aggravante. E così via.
L’aggravante di cui si parla è quella in forza della quale – se fosse approvata la proposta di legge di cui ci stiamo occupando – verrebbe aumentata fino alla metà la pena per i reati «fondati sull’omofobia o transfobia». Pare di capire che per la Morresi l’aggravante scatterebbe ogni qual volta la vittima è un omosessuale («qualsiasi reato penale contro un omosessuale»). Un’interpretazione identica a questa sembra anche quella espressa da Piero Ostellino («Gli errori della legge anti omofobia», Corriere della Sera, 3 agosto, p. 49):
non riesco a capire perché picchiare un omosessuale sarebbe un’aggravante, mentre picchiare me – che sono «solo» un essere umano senza particolari, selettive e distintive, qualificazioni sessuali – sarebbe meno grave.
Ancora, questo sembra essere il pensiero di una vecchia conoscenza dei lettori di Bioetica (Berlicche, commento a id., «Facciamolo!», Berlicche, 20 settembre, 10:19):
l’aggravante che la sinistra ha introdotto […] vuol dire che i giudici potranno perseguire autonomamente, senza denuncia, qualsiasi comportamento ritenuto omofobo, cosa di cui manca perlatro la definizione. Inoltre vuol dire anche che l’omofobia è una aggravante generica che può essere usata su ogni reato. Rubi ad un omosessuale? Hai l’aggravante. Litighi con un omosessuale? Hai l’aggravante. Di fatto gli omosessuali diventano cittadini di serie A, gli altri di serie B.
(In questo caso l’interpretazione della legge è particolarmente farraginosa: l’aggravante non si applicherebbe affatto a «qualsiasi comportamento ritenuto omofobo» ma solo ai reati già oggi previsti dal codice.)
Infine, già in passato, durante la scorsa legislatura, in occasione della discussione di una proposta di legge simile a quella odierna, avevano dato questa interpretazione dell’aggravante sia Carlo Lottieri sia Marcello Veneziani (cfr. su questo blog il mio «Carlo Lottieri e l’omofobia», 21 maggio 2011).

Inutile dire che la legge in discussione propone tutt’altro: a ricevere una pena aumentata non sarebbero affatto tutti i reati commessi a danno di omosessuali e transessuali, ma solo quelli motivati dall’odio contro gli omosessuali e i transessuali (per cui l’aggravante potrebbe benissimo venire inflitta a un omofobo che avesse commesso un reato contro un eterosessuale in quanto lo riteneva erroneamente omosessuale). È assolutamente ovvio che non c’è dunque nessun «privilegio» a favore degli omosessuali: chi truffa un omosessuale o lo scippa solo per ottenerne un illecito guadagno, chi lo picchia per una questione di precedenza stradale è trattato allo stesso modo di chi commette gli identici crimini contro un eterosessuale. E va notato che gli omosessuali, in media, sono vittime di reati non motivati dall’odio omofobico nella stessa misura degli eterosessuali; i reati omofobici si aggiungono a questi. Altro che «cittadini di serie A»!

Per concludere, è bene chiarire – anche se non ce ne dovrebbe essere bisogno – che i motivi di chi commette un reato hanno rilevanza penale solo in quanto e nella misura in cui si traducono in comportamenti osservabili e in seguito dimostrabili in base a concreti elementi di prova di fronte a un giudice. Non c’è dunque nessuno spazio per l’obiezione contenuta in un «manifesto» di Alleanza Cattolica («Unioni di fatto e omofobia: cinque punti fermi», Roma, 17 giugno 2013):
La previsione di nuovi reati o aggravanti di questo tipo è rischiosa per la libertà dei cittadini, poiché impone uno scandaglio dei moventi intimi, talora inconsci, che stanno alla base delle azioni umane.
Ben difficilmente si potrebbe parlare di «moventi intimi» o «inconsci» per chi, ad esempio, prendesse a sprangate una coppia di ragazze omosessuali gridando «Morte alle lesbiche!»; tali saranno i casi che cadranno nel raggio d’azione della legge, se sarà approvata. Ciò che risulta particolarmente incomprensibile è che poche righe più sopra, in questo pensoso manifesto, si sostenga che una legge è comunque inutile, dato che «il nostro ordinamento punisce già, senza distinzioni, ogni aggressione all’integrità della persona e alla sua sfera morale, e in più contiene le aggravanti dei “motivi abietti” e del profittare delle condizioni di debolezza della vittima». A quanto pare ai motivi abietti non si applica l’obiezione dell’intimità, a differenza dei motivi fondati sull’omofobia; viene quasi da chiedersi se è proprio vero che per gli estensori del manifesto i secondi siano interamente compresi nei primi, come proclamano. A volte i «motivi inconsci» fanno strani scherzi...

(2 - continua)

mercoledì 16 novembre 2011

Renato Balduzzi: chi è costui?

Il nuovo ministro della sanità, annunciato poco fa dal Presidente del Consiglio Mario Monti, è dunque Renato Balduzzi, Professore Ordinario di Diritto costituzionale all’Università del Piemonte Orientale, specialista delle questioni giuridiche della sanità. Si tratta, diciamolo subito, di un cattolico: dal suo curriculum vitae apprendiamo che

[d]al 2002 al 2009 è stato presidente nazionale del Movimento ecclesiale di impegno culturale (MEIC, già Movimento Laureati di Azione Cattolica) e attualmente è componente per l’Italia dello European Liaison Committee di Pax Romana - Miic (Mouvement international des intellectuels catholiques) - Icmica (International Catholic Mouvement for Intellectual and Cultural Affairs).
L’accenno all’Azione Cattolica farebbe pensare più a un «cattolico adulto» che a un integralista, e la cosa sembra confermata dall’esperienza di Balduzzi come consigliere giuridico dell’allora Ministro delle politiche per la famiglia Bindi, fra il 2006 e il 2008. Qui però iniziano le dolenti note, perché sembra assodato che Balduzzi sia stato tra gli artefici dello sciagurato disegno di legge sui DiCo, le dichiarazioni di convivenza volute dalla Bindi e naufragate ben presto nel ridicolo, non rimpiante da nessuno. In un articolo di Silvio Troilo, «I progetti di legge in materia di unioni di fatto: alla ricerca di una difficile coerenza con i principi costituzionali» (pubblicato in anteprima su Forum Costituzionale, 12 settembre 2008) trovo alcune citazioni di un saggio del Balduzzi, «Il d.d.l. sui diritti e i doveri delle persone stabilmente conviventi: modello originale o escamotage compromissorio?», Quaderni Regionali 26 (2007), pp. 39-56, a me inaccessibile, che per l’appunto tratta dei DiCo:
non è sufficiente richiamare l’art. 2 [della Costituzione] come clausola a fattispecie aperta (capace cioè di offrire tutela a situazioni via via avvertite come meritevoli di tutela dalla coscienza sociale, al di là di quelle canonizzate nel testo costituzionale), in quanto lo stesso art. 2 non offre tutela a tutti i desideri che si vorrebbero riconosciuti come bisogni e a tutti i bisogni che si vorrebbero tutelati come diritti, ma riconosce e garantisce quei desideri e quei bisogni che servono allo svolgimento della personalità all’interno di una formazione sociale.

la legge […] non è solo certificazione della realtà, ma è altresì regola della medesima, e pertanto discipline che applicassero indiscriminatamente e tout court normative di tutela dei diritti della famiglia a situazioni diverse dal modello costituzionale di famiglia verrebbero a menomare la funzione della norma costituzionale. La disposizione costituzionale sarebbe completamente travisata, ebbe modo di osservare ancora Moro (in risposta a un’insidiosa osservazione del qualunquista Mastroianni, riferita alla formula del progetto di costituzione, poi diventata […] l’art. 29 Cost.), se venisse portata a significare che si vuole riconoscere un vincolo familiare costituito soltanto in base ad uno stato di fatto.

collegare alla convivenza diritti e doveri non crea istituti concorrenziali al modello costituzionale di famiglia a condizione che tale collegamento non derivi da un atto di volontà pattizio (che avrebbe necessariamente l’effetto di far rinvenire il titolo dell’applicabilità di diritti e di doveri nella volontà dei conviventi, e non nel fatto della convivenza) ma sia conseguenziale al verificarsi di una situazione di fatto che presenti determinate caratteristiche per la cui predeterminazione il legislatore gode di una certa discrezionalità.
Queste ultime parole, un po’ oscure, diventano chiare quando si ricorderà il bizzarro meccanismo dei DiCo, che si sforzavano di derivare diritti e doveri dalla situazione di fatto della convivenza, ricorrendo – pur di evitare qualsiasi forma di assenso prestato di fronte a un funzionario – all’espediente famigerato della raccomandata con ricevuta di ritorno spedita al convivente.

Venendo a temi più propriamente sanitari, si deve registrare con qualche preoccupazione la partecipazione di Renato Balduzzi, in veste di curatore, al volume Le mani sull’uomo. Quali frontiere per la biotecnologia?, pubblicato per i tipi dell’editrice Ave nel 2005. Nella quarta di copertina si legge fra l’altro:
L’attualità politica porta alla comune attenzione temi sui quali a volte non siamo sufficientemente preparati, chiamandoci ad esprimere in merito una opinione consapevole. In questo breve sussidio vengono esposti anzitutto, quasi a modo di lessico, i concetti fondamentali dell’antropologia cristiana, quali quelli di corpo, persona, dignità umana, esaminati nei loro aspetti filosofici e teologici […]
L’antropologia cristiana è una delle parole d’ordine degli integralisti; ma il timore si rivela ben presto infondato, quando troviamo questa dichiarazione di Balduzzi, che risale al tempo del caso Englaro (agenzia Asca, 19 luglio 2008; si veda anche la stessa agenzia del 6 febbraio 2009):
«Evitiamo di farne materia di conflitto tra magistratura e politica»: è questa la prima necessità che il costituzionalista Renato Balduzzi avverte di fronte agli sviluppi del caso di Eluana Englaro. «Da costituzionalista, mi sembra azzardata e anche un po’ pericolosa l’ipotesi di conflitto di attribuzione», osserva. Quanto ai contenuti della polemica, il cattolico Balduzzi osserva: «È ora che l’iter del testamento biologico venga portato a compimento. Anche se non dobbiamo aspettarci che la norma possa risolvere tutto».
Balduzzi, che è presidente del Meic, il Movimento ecclesiale di impegno culturale, una delle storiche componenti dell’Azione cattolica italiana, è abituato ad entrare, da cattolico, nel cuore delle questioni eticamente più “sensibili” e politicamente più scottanti: nella scorsa legislatura, era Capo ufficio legislativo del Ministro della famiglia Rosy Bindi, autore (insieme all’altro cattolico Ceccanti) dello sfortunato disegno di legge sui Dico.
Nella sentenza della Cassazione su Eluana, Balduzzi non vede «sconfinamenti». «Non c’è una competenza riservata alle Camere su certi argomenti – spiega –. Anche ammesso che in tema di diritti il legislatore abbia una preminenza, il giudice arriva dove può in base alla legislazione vigente e ai principi costituzionali». «Bisogna ricordare che un ordinamento contiene sempre delle lacune e lo “jus dicere” del giudice comporta naturalmente la possibilità di colmarle. Il giudice non è certo solo la bocca della legge; il suo, anzi, è un duro mestiere, che deve bilanciare tanti principi e tenere in equilibrio diritti e doveri».
La questione è anche di opportunità, di tempi: «Sollevare un conflitto di attribuzione aggiunge motivi di contrasto ad una situazione già molto delicata nei rapporti tra politica e magistratura. Ma al di là di questo, la sentenza della Corte di Cassazione non crea nessun vulnus nelle prerogative del Parlamento».
«La norma – mette però in guardia –, per un caso limite come quello di Eluana, non risolverebbe tutto. E qui, ma non parlo più da costituzionalista, non so se la legge possa coprire questa materia così complessa, dove la prima regola dovrebbe essere quella della prudenza, del silenzio, unito alla coerenza, all’assunzione di responsabilità per quanto si dice. E a questo aggiungerei un’altra osservazione: non può essere considerato irrilevante dal punto di vista giuridico il fatto che ci sia qualcuno che si fa carico del “dovere” della solidarietà».
Il nodo, come è stato ricordato da più parti, è in quelle «direttive anticipate» che nel nostro paese non hanno ancora valore legale. C’è chi agita il timore dell’eutanasia: ma per Balduzzi, non si può parlare di «fughe in avanti» ed «estremismi» in un dibattito ormai maturo, ma fino ad oggi senza uno sbocco legislativo, come quello sul testamento biologico.
«L’iter del testamento biologico – secondo il professore – è quindi da portare a compimento, senza pensare che in una legge possa entrare tutto un sentire etico. Per questo è importante che non si strumentalizzi, ma si guardi veramente al bene comune. Se oggi si procede a colpi di sentenze è perché fino ad ora è mancata una sintesi».
Una sintesi. Quella fallita nel caso dei diritti delle coppie di fatto. Esiste un simile punto di equilibrio nel dibattito sul testamento biologico? «A mio parere – conclude Balduzzi – sta nel garantire una periodica verifica delle volontà del soggetto».
Queste non sono le parole di un campione dell’autodeterminazione, è vero, ma neppure quelle di un integralista. È palese anche qui lo sforzo di sintesi di Balduzzi fra due visioni opposte dei diritti; sintesi quasi certamente impossibile, come dimostra la débâcle dei DiCo, ma che dovrebbe tenere a bada – si spera – le richieste più voraci del mondo integralista. Di più, vista la situazione in cui nasce il nuovo governo, era purtroppo impossibile aspettarsi.

A proposito del mondo integralista, negli ultimi giorni alcuni dei suoi esponenti sembrano aver presagito la sconfitta, come dimostrano le dichiarazioni un po’ sguaiate di Assuntina Morresi («La crisi infuria lo spread avanza», Stranocristiano, 10 novembre 2011), che alla fine inclinano pericolosamente verso il complottismo. Scendendo di qualche gradino, al complottismo si abbandonava stamattina, prima della lettura della lista dei ministri, anche Berlicche: una perdita pressoché totale di contatto con la realtà che non potrà non far piacere a ogni sincero avversario dell’integralismo.

Aggiornamento 19/11/2011: un post di Relativismo? Sì grazie aggiunge qualche utile dettaglio al quadro della personalità e delle idee di Balduzzi.

sabato 15 maggio 2010

Una richiesta di Berlicche

Tutti possono imparare dai propri errori, dicono i saggi; ma dovrebbero aggiungere che si può imparare anche dagli errori degli altri. Certo, ci sono errori ed errori: dagli irrimediabilmente stupidi, dai pazzi, dai mentitori prezzolati ben poco possiamo apprendere. Ma capita talvolta che intelligenze di livello discreto si pongano con una certa sincerità al servizio di cause false (in genere per opzioni ideologiche e/o bisogni psicologici irrinunciabili), e che producano quindi una massa di argomenti in ultima analisi fallaci, ma non platealmente tali, che può risultare produttivo – oltre che piuttosto divertente – analizzare e confutare.
Prendiamo per esempio Berlicche, forse il più noto dei blog integralisti italiani: non c’è quasi post dei suoi che non sia sbagliato e fallace; ma si tratta in genere di errori intricati e non del tutto banali, dai quali – come abbiamo avuto modo di vedere in passato – c’è spesso qualcosa di interessante da apprendere.
Vorrei prendere oggi in esame uno dei suoi ultimi post («Una piccola richiesta», 13 maggio 2010, su cui si è già esercitato proficuamente Malvino). Berlicche non ama molto essere oggetto di un’attenzione critica, ma siccome il post contiene una piccola sfida agli «amici laicisti», possiamo procedere senza troppi timori di apparire scortesi. Si parla della Sindone, che Berlicche ha devotamente visitato in occasione dell’ostensione in corso:

se [la Sindone] fosse stata realizzata da qualche ignoto protoscienziato del milletrè allora quello che vorrei veramente è il brevetto.
Già, perchè sai che figata? Una procedura per imprimere un’immagine su un telo. Che non usa pigmenti. Con una nitidezza di particolari impressionante. E con informazioni tridimensionali! Ci pensate alla applicazioni di questa tecnica? Sai le T-shirt, le lenzuola? Se è stata fatta settecento anni fa probabilmente è stata anche usata una tecnologia primitiva, facilmente riproducibile con gli immensi mezzi odierni. Sì, so che parecchi ci hanno tentato, ma i risultati sono molto lontani dall’originale. Chissà quante prove, quanti esperimenti deve avere fatto quel lontano scienziato per ottenere un simile risultato. Davvero strano che solo la Sindone sia rimasta.
Qui la densità degli errori è inusuale anche per gli standard di Berlicche; sono sicuro che i lettori di Bioetica ne avranno scorto all’istante più d’uno. Ma andiamo per ordine.
Per prima cosa, l’autore sembra ignorare che le caratteristiche inusuali dell’immagine da lui messe in evidenza – «una procedura per imprimere un’immagine su un telo che non usa pigmenti», «con una nitidezza di particolari impressionante», «con informazioni tridimensionali» – sono state in realtà emulate nella riproduzione della Sindone recentemente eseguita da Luigi Garlaschelli. Questi ha strofinato il telo steso su un bassorilievo con ocra (la tecnica usata è simile al ricalco), che in seguito è stata rimossa, lasciando però un’immagine che risulta dall’ossidazione superficiale delle fibre di lino del telo poste a contatto con il colorante, e che appare quindi impressa senza apparente uso di pigmenti (anche se poi di fatto alcuni sostengono che sulla Sindone le tracce di ocra sono ancora presenti). I particolari appaiono non meno nitidi che nella Sindone, e l’immagine contiene anche informazioni tridimensionali.
Per la verità, qualcuno ha messo in questione la tridimensionalità dell’immagine di Garlaschelli. Scrive Thibault Heimburger («Comments About the Recent Experiment of Professor Luigi Garlaschelli» [PDF], novembre 2009, p. 3):
It is not a true 3D: it is almost only made of “flat plateau” (contact) and “valleys” (no contact) with abrupt “vertical cliffs” between them. To the contrary, the Shroud has true 3D properties, i.e. fine variations of the “altitude”.
Ai miei occhi – inesperti, lo ammetto – non c’è praticamente differenza fra la prima immagine 3D ricavata col computer dalla Sindone e quella ottenuta da Garlaschelli. Lo stesso Heimburger sembra preferire come termine di paragone un’immagine 3D della Sindone più recente, ottenuta con un affinamento della tecnica digitale di elaborazione, e in effetti un po’ più impressionante; ma questo vuol dire che il risultato dipende in misura determinante dal software usato (nonché dai settaggi impiegati e dalla qualità dell’immagine di partenza, come nota Garlaschelli in un articolo per MicroMega, n. 4, 2010, p. 45), e che quindi è bene essere molto prudenti nel fare paragoni. In ogni caso non vedo assolutamente nella riproduzione tutti gli «scoscendimenti verticali» di cui parla Heimburger (possibile che si riferisca a una diversa immagine?): mi sembra che l’informazione 3D sia presente qui come nella Sindone.
Si può obiettare che esistono comunque altre differenze, in particolare nella qualità delle sfumature dell’immagine, come nota sempre Heimburger e ammette lo stesso Garlaschelli; ma al di là dei dettagli tecnici il problema è di fondo. Come nota un commentatore al post di Berlicche, i sostenitori dell’autenticità ricorrono al classico argumentum ad ignorantiam: poiché un’ipotesi – di per sé ben corroborata da prove – presenta aspetti non del tutto chiari, allora deve essere considerata vera l’ipotesi opposta. C’è qualche aspetto delle immagini scattate dagli astronauti sulla Luna che non sappiamo bene spiegare su due piedi; quindi le missioni Apollo sono state una montatura. C’è qualche particolare oscuro nel crollo delle Torri Gemelle; quindi gli aerei che le hanno colpite erano giganteschi ologrammi e le Torri sono state minate dalla Cia. C’è qualche dettaglio nella formazione dell’immagine sindonica per opera di un falsario del ’300 che non siamo ancora in grado di riprodurre; quindi il telo è stato impresso dalla misteriosa energia della resurrezione 2000 anni fa.
Qui interviene anche un’altra fallacia (per la quale purtroppo non esiste un espressivo nome latino). Scrive Berlicche: «Se è stata fatta settecento anni fa probabilmente è stata anche usata una tecnologia primitiva, facilmente riproducibile con gli immensi mezzi odierni». Possiamo forse definire questo come razzismo cronologico (non si offenda Berlicche: prima o poi ci cadiamo tutti, più o meno): la credenza che gli antichi fossero meno intelligenti di noi, perché in possesso di tecniche meno avanzate; se quindi c’è nel mondo pre-moderno qualcosa che non capiamo, vuol dire che probabilmente gli antichi non ne sono stati gli autori. Un caso esemplare è quello delle piramidi di Giza; siccome ancor oggi non siamo sicuri del modo in cui siano state erette (ci sono problemi a raffigurarsi la disposizione delle rampe per il trasporto dei blocchi), alcuni hanno rifiutato l’idea che i «primitivi» Egizi, con la loro tecnica inferiore, le avessero edificate, preferendo attribuirle agli alieni o a scomparse, avanzatissime civiltà terrestri (Atlantide), gli uni e le altre, per molti versi, più somiglianti a noi di quei barbari sempliciotti.
Ma in realtà quei popoli e quelle persone erano intelligenti quanto noi, ed erano capaci di elaborare tecniche e procedure complesse e sorprendenti che eludono le nostre ricerche. In ogni caso, può essere difficile individuare anche una tecnica semplice, tra le innumerevoli tecniche possibili: la procedura del ricalco è stranota, è semplice benché ingegnosa, spiega la maggior parte delle caratteristiche della Sindone (e forse tutte), eppure solo nel 1983 è stato ipotizzato per la prima volta che il falsario l’avesse usata.

Come si vede, il paragone con le pseudoscienze ritorna di continuo. In effetti, la sindonologia deve essere considerata ormai anch’essa una pseudoscienza, almeno da quando, nel 1988, l’esame al radiocarbonio ha definitivamente confutato ogni ipotesi di autenticità, oltretutto fornendo una datazione compatibile con le prime testimonianze storiche, le stesse che parlavano di pannus artificialiter depictus. La reazione dei sindonologi, infatti, è stata quella tipica degli pseudoscienziati: per spiegare i risultati del C-14 si sono affannati a fabbricare ipotesi ad hoc, tutte tese a sospingere verso l’inconfutabilità la tesi dell’autenticità. Ecco allora che il carbonio 14 in eccesso è dovuto a un misterioso bombardamento neutronico connesso alla resurrezione; il campione tagliato dalla Sindone proveniva in realtà da un rammendo posteriore invisibile; gli scienziati (di tre centri diversi) che hanno eseguito il test facevano parte di un vasto complotto teso a distruggere la Chiesa; e così via. Lo schema è identico: i miracoli non sono per definizione empiricamente verificabili, i rammendi invisibili non si possono individuare, i complotti sono talmente ramificati da cancellare ogni loro traccia. (A questo, purtroppo, si aggiunge spesso anche una informazione truffaldina o più banalmente ignorante, che l’incessante ripetizione – «l’esame al radiocarbonio è stato ormai confutato!» – riesce a inculcare nelle menti dei più semplici.)
Una fede ormai lontana dall’ingenuo culto delle reliquie paga il suo omaggio alla cultura dominante, quella scientifica; ma l’omaggio è solo verbale, perché la «scienza» sindonologica è solo una scimmiottatura dei veri procedimenti scientifici: ne prende in prestito il tintinnio delle provette mentre ne rigetta il metodo.

C’è un’altra fallacia, nel post di Berlicche, che è particolarmente sottile e interessante: «Chissà quante prove, quanti esperimenti deve avere fatto quel lontano scienziato per ottenere un simile risultato. Davvero strano che solo la Sindone sia rimasta». Lasciamo da parte l’argomento capzioso sulla Sindone sola sopravvissuta (perché mai l’ignoto artigiano avrebbe dovuto conservare le prove fallite?), e concentriamoci sul nucleo del ragionamento. Ci aiuta il fatto che il già citato Thibault Heimburger lo ripeta a sua volta più articolatamente, e senza il sarcasmo berlicchiano:
What is the probability for a medieval forger, who obviously could not have in mind these properties, to produce by chance an image having these properties? Probably about 0%.
Tradotto:
Quali sono le probabilità che un falsario medievale, che ovviamente non poteva avere in mente queste proprietà [la tridimensionalità etc.], abbia prodotto per caso un’immagine dotata di esse? Probabilmente circa lo 0%.
Dov’è l’errore? Ricorriamo a un paragone: immaginiamo di lanciare un dado, e di registrare via via i risultati, fino a ottenere una stringa lunga, diciamo, 10 cifre: 1,3,3,4,2,1,6,1,6,3. Quali sono le probabilità di ottenere una simile sequenza di cifre? Esattamente 1/610, cioè meno di una su 60 milioni. A questo punto Berlicche e Heimburger, se fossero coerenti, dovrebbero proclamare che c’è qualcosa di strano in questa serie di lanci: la probabilità di ottenerla è così bassa che qualche fattore causale deve essere stato all’opera!
Naturalmente nessuno dei due sarebbe così sciocco da sostenere una cosa del genere: l’esperimento sarebbe sospetto solo se avessimo, per esempio, detto in anticipo che stavamo per ottenere proprio quella serie e non un’altra. Nella realtà, tutte le sequenze di dieci lanci di dado sono egualmente improbabili, ma dobbiamo comunque ottenerne una (a meno che il dado non si rompa o la polizia non faccia irruzione nella bisca in cui ci troviamo).
L’esempio non è perfettamente congruente con il caso della Sindone, ma aiuta a capire dov’è l’errore. L’artigiano che ha falsificato la Sindone non sapeva ovviamente nulla di tridimensionalità, immagini negative o ossidazione del lino; tutto quello che si prefiggeva era di produrre un falso plausibile. Il resto sono effetti accidentali della tecnica usata; se ne avesse impiegata un’altra avremmo notato oggi una diversa costellazione di effetti, non più probabili o improbabili di quelli che la Sindone presenta efettivamente. Da dove nasce allora l’errore di Berlicche & Co.? Probabilmente dalla retorica miracolistica che circonda il telo, le cui caratteristiche sono sempre descritte come eccezionali e misteriose. Ma queste caratteristiche non sono eccezionali; sono solo inusuali, perché inusuale è la tecnica con cui la Sindone è stata fabbricata, in un universo artistico composto di dipinti e sculture e non di immagini ricalcate su bassorilievi.

Molto altro ci sarebbe da scrivere sulla Sindone e i sindonologi: sull’incredibile frode dei pollini «palestinesi» trovati sul telo da un signore che qualche anno prima aveva firmato una perizia grazie alla quale un innocente era rimasto in galera per 12 anni, e che qualche anno dopo avrebbe autenticato i falsi diari di Hitler; sullo stile della tessitura, il cui unico analogo noto si trova in un telo del XIV secolo; e così via. La fonte più aggiornata e autorevole su tutto ciò è il già citato numero di MicroMega; una valida alternativa, almeno per chi conosce l’inglese, è l’articolo di Steven D. Schafersman, «Unraveling the Shroud of Turin» (Approfondimento Sindone 2, 1998). Ottimo anche il sito curato da Gian Marco Rinaldi.
Purtroppo a quanto pare Berlicche non profitterà di queste risorse, visto che parla di «tizi pagati per ingannare i deboli di mente su MicroMega». Noi abbiamo imparato qualcosa da lui, lui non vuole imparare assolutamente nulla da noi.

martedì 3 febbraio 2009

«Uccideteli tutti: Dio riconoscerà i suoi»

Riporto anche qui, visto che potrebbe interessare i lettori di Bioetica, la mia risposta a un commento di Berlicche apparso sul suo blog. Sostiene Berlicche:

La frase «Ammazzateli tutti, Dio riconoscerà i suoi» è, riferita a quel tale fatto storico francese, falsa: non si ritrova in nessuna cronaca contemporanea, ma per la prima volta in un’apologia anticattolica di secoli dopo.
Non è così. La frase («Caedite eos. Novit enim Dominus qui sunt eius»), attribuita ad Arnaldo di Cîteaux, monaco cistercense, è riportata da un altro cistercense, Cesario di Heisterbach, nel suo Dialogus miraculorum (V.21), scritto appena una decina d’anni dopo i fatti.
Questo non dimostra che la frase sia stata effettivamente pronunciata (Cesario non è testimone oculare, e premette che «fertur dixisse»), ma la fonte è tale da non poter essere facilmente messa da parte. Uno storico cattolico eminente come Raoul Manselli definiva la frase di Arnaldo «verisimile, se non rigorosamente vera» (L’eresia del male, Napoli, Morano, 1963, p. 256 n. 21). Più di recente il medievista Jacques Berlioz («Tuez-les tous, Dieu reconnaîtra les siens». Le massacre de Béziers (22 juillet 1209) et la croisade contre les Albigeois vus par Césaire de Heisterbach, Portet-sur-Garonne, Loubatières, 1994) ha mostrato la verosimiglianza dell’attribuzione a un chierico erudito come Arnaldo, dato che la frase contiene una citazione di 2 Timoteo 2,19.

venerdì 16 gennaio 2009

Non me lo dire

Commentando la vicenda delle scritte sugli autobus di Genova, Malvino rileva oggi («Il “laico” Giacalone», 16 gennaio 2009) un’evidente disparità nel modo di considerare la questione:

Tanto baccano per un messaggio che viene diffuso nel rispetto delle normative che regolano l’attività pubblicitaria, con totale addebito dei costi da parte di chi vuol diffonderlo, per giunta senza alcuna dichiarazione di intento proselitario; e neanche una protesta verso chi diffonde il messaggio opposto, occupando spazi enormi, spesso gratis e sempre col dichiarato fine di reclutare nuovi adepti alla fede: mi pare di cogliere una evidente sproporzione, non so voi.
Si dice che negare l’esistenza di Dio sia insultante per chi ci crede, ma non è chiaro perché la regola non possa valere in senso contrario.
Malvino si chiede poi quale sia la causa di questa «patente discriminazione»:
il non credente sarebbe strutturalmente più forte a difendersi dal messaggio del credente, che strutturalmente lo sarebbe assai meno.
A dispetto di ogni presunta forza della fede, cosa rende il credente più vulnerabile alla “spiritosaggine”? La permalosità. Che, a ben vedere, altro non è che la misera proiezione terrena della divina pretesa ad essere la sola e vera Verità (“Non avrai altro Dio fuorché me”, nel Vecchio Testamento; “Chi non è con me, è contro di me”, nel Nuovo).
Il credente, dunque, meriterebbe questo tipo di rispetto (non gli si può dire in faccia che il suo Dio non esista); il non credente può farne a meno (gli si può dire in faccia che Dio c’è, insistendo, insistendo e insistendo a che si converta).
Ciò che un credente assume come un assurdo indimostrabile meriterebbe più rispetto della posizione atea o agnostica, e perché? Perché nessuna pretesa divina resta soddisfatta fino a quando non sia stata universalmente dichiarata legittima, e universalmente assecondata.
Questa è un’ottima spiegazione, ed è probabile che in effetti la pretesa di proporsi come una verità universale sia in parte alla base di questa curiosa disparità di giudizio.
Ma c’è, sospetto, dell’altro. Nell’affanno di certe reazioni, nella moltiplicazione disordinata delle «risposte» (sono già ben tre i post di fila dedicati al fatto, per esempio, da parte del solitamente più contenuto Berlicche), nell’autentica angoscia che sembra aver colto alcuni, mi pare di intravvedere una reazione di autentica paura.
Timore della laicizzazione avanzante persino in Italia, di cui le scritte possono essere un sintomo? Anche, ma non solo. Lo dirò con le parole di un grande scrittore, Abraham B. Yehoshua (Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare, trad. di Alessandro Guetta, Roma, Edizioni e/o, 1996, p. 76):
non esiste l’uomo religioso ma solo livelli determinati, più o meno intensi, di laicità […] i religiosi nel segreto del loro cuore non credono, ma fingono di essere credenti per paura di esprimere esplicitamente ciò che sanno bene: che Dio non esiste.
Lo sappiamo tutti, nel profondo del cuore, che Dio – almeno, il Dio onnipotente e benevolo dei monoteismi – non c’è; ma alcuni non amano sentirselo ricordare.

sabato 20 dicembre 2008

Gli amici di Victor

Questa lettera è stata pubblicata sul Manifesto del 15 dicembre (Miriam Della Croce, «Follie di un missionario»):

Mi è capitato per caso di vedere su internet (Tempi.it 23 settembre) la fotografia sconcertante di un bambino irrimediabilmente malato, e di leggere le parole ancor più sconcertanti di padre Aldo Trento (missionario in Uruguay), riguardo all’infelice creatura.
Riporto alcune frasi: «Il piccolo Victor di un anno... geme in continuazione... mmm, ah, ah, ah... La sua testa è enorme e come d’improvviso la parte inferiore è sprofondata lasciando una piccola fossa, lì dove non ha il cranio... Attraverso l’apparato messogli dai medici, è uscita tutta l’acqua della testa... l’altro giorno gli è scappato l’occhio destro: è rimasta una cavità vuota che spurga di tutto... Victor, il mio bambino, non solo è un piccolo cadaverino che vive, ma è tutto deformato, lacerato, pieno di cannucce che entrano ed escono dal corpo... Il mondo dice: perché non lo lasciate morire?... Victor è Gesù, il mio piccolo Gesù che agonizza, che soffre, che geme... Lo bacio, lo bacio sempre... i gemiti si calmano. Gli accarezzo la fronte... non più testa ormai, sgonfiata, con la pelle infossata, come un laghetto di montagna... e sento che accarezzo Gesù... Come vorrei che questo scritto con la foto arrivasse a chi ha deciso che Eluana “deve” morire. No, non può morire se Dio non ha ancora deciso. La vita è sua, di Dio... se la uccidiamo saremo tutti più poveri e disgraziati».
Non ci sarebbe bisogno di commenti. Mi limito ad osservare che attribuire a Dio la decisione di far morire ogni uomo in un’ora da lui stabilita, è un’assurdità, giacché dovremmo attribuire a Dio la responsabilità della morte di creature ancora nel grembo materno, o appena nate; di bimbi strappati ai genitori, di genitori strappati ai figli. Teologicamente impossibile. Sarebbe un’offesa al Creatore.
Padre Trento, in questo caso, è persuaso che sia Dio a volere che continui lo strazio di quell’esserino «pieno di cannucce». Lui, il buon padre Aldo, nell’attesa della decisione divina, intanto lo accarezza, se lo coccola, il «cadaverino deformato», persuaso di coccolare Gesù sulla croce; ed ha anche il coraggio di scattare fotografie al «piccolo Gesù che agonizza», cosa che, accecati dal dolore, mai avrebbero fatto gli apostoli, nell’assurda ipotesi che ce ne fosse stata la possibilità. Una sola domanda al missionario: tubicini e farmaci che impediscono a Victor di abbandonare la croce, sono da attribuire ad una decisione del Signore?
Ora ecco cosa scrive Berlicche a proposito di questa lettera («Un’umanità diversa», 19 dicembre):
La domanda è sempre quella: a che serve una vita così? Ma anche la risposta è sempre quella: a che serve la tua vita?
Non c’è alternativa. O odi tutto quello che ti richiama alla tua mortalità e alla tua imperfezione, anche un bambino idrocefalo, e pensi che l’unica soluzione sia sopprimerlo, o lo ami: ma questo è possibile solo in Cristo, perchè solo con la possibilità di una Redenzione è possibile non odiare la nostra imperfezione o quella altrui.
La sola soluzione che il Manifesto propone è bestemmiare il Creatore e, si legge tra le righe, sopprimere la creatura. Deridendo chi la ama. E rimanere così irrimediabilmente soli, irrimediabilmente rabbiosi, irrimediabilmente deformi.
Nella lettera al Manifesto c’è, è vero, un sentimento di repulsione nei confronti di padre Trento, un disgusto profondo per questa contemplazione compiaciuta e morbosa della sofferenza; disgusto che non appartiene solo a chi ha scritto la lettera (fatti salvi i meriti eventuali del missionario), ma che, comprensibilmente, non può essere fatto proprio da Berlicche, per il quale quella del sacerdote non può essere definita che come una forma di «amore». Ma dove si trova invece nella lettera l’odio per il bambino? Dove sono le considerazioni sulla sua utilità sociale che vi legge Berlicche? Di questo non c’è la benché minima traccia. C’è invece, nell’accenno a «tubicini e farmaci che impediscono a Victor di abbandonare la croce», il desiderio che le sofferenze del bambino cessino; c’è, mi pare, una grande pietà.
Berlicche avrebbe potuto sostenere che questa pietà è fuorviata, che il vero amore è un’altra cosa; ma non lo fa. Perché questa pietà non riesce a vederla. È interessante che nel suo commento la parola «sofferenza» non compare mai; si parla solo di deformità e imperfezione. È come se la tragedia di Victor riguardasse soltanto il lato estetico. Anche padre Trento, che pure indugia a lungo sulla sofferenza del piccolo, commenta: «Il mondo ha paura di lui, sente ribrezzo, non sopporta vedere questo piccolo ridotto ad un mostro».

Credo che qui si tocchi un problema comune a tutto il cristianesimo, e non solo alla versione integralista propria di Berlicche. È la tentazione ricorrente degli amici di Giobbe: di dare un senso alla sofferenza, di difendere l’opera di Dio dall’accusa di permettere il male. Oggi non si usano più i vecchi argomenti (il peccato dei padri, i fini imperscrutabili della Provvidenza); per padre Trento Victor rappresenta Cristo, anzi è Cristo, e aggiunge in un altro articolo: «è il mio conforto, come in questi giorni in cui la fatica si fa sentire. Guardarlo, baciarlo, è sentire vibrare la dolce Presenza di Gesù che mi accarezza nei momenti difficili». Per Berlicche, sembra di capire, Victor rappresenta, come Cristo, «l’umanità diversa» di un brano di Don Giussani che riporta in calce al suo post, in cui trovare «un presentimento nuovo di vita, qualcosa che aumenta la […] possibilità di certezza, di positività, di speranza e di utilità nel vivere», e che «corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia». Per entrambi, Victor non conta per se stesso; è un mezzo per offrire al cristiano conforto e speranza.
Chi parla, allora, per Victor? Chi si rifiuta di farne un simbolo, un’allusione, un’occasione? Chi prende sul serio la realtà terribile delle sue sofferenze?

lunedì 30 aprile 2007

La temperatura di fusione dell’inferno

È uno dei trucchi retorici preferiti dai fondamentalisti, soprattutto (ma non solo) quando cercano di contrastare la teoria dell’evoluzione: anche la scienza – dicono – contiene in sé un irriducibile elemento fideistico, e non può quindi accampare pretese di superiorità nei confronti della religione. Possono essere gli assiomi o i principi di partenza, o il fatto che il pubblico deve necessariamente fidarsi di quello che dicono gli scienziati: in ogni caso, c’è una credenza che non può essere giustificata empiricamente – proprio come nel cristianesimo.
Questa strategia argomentativa diventa però controproducente, se portata alle logiche conseguenze: se alla fine ciò che conta è la credenza irrazionale, allora che cosa distingue la scienza dalla pseudoscienza? Davvero non c’è differenza tra chi pensa che la terra sia sferica e chi la immagina piatta? E, peggio ancora, che cosa distinguerebbe le varie fedi religiose? Cosa renderebbe differenti gli insegnamenti di Ron Hubbard da quelli di Cristo?
Altre volte il paragone rimane limitato, e confutarlo è meno immediato (e un po’ più interessante); vorrei esaminere qui uno di questi tentativi.

Berlicche è uno dei molti blog di integralisti cattolici (l’autore, Antonio B., appartiene a Comunione e Liberazione), dove trovi ciò che normalmente si trova in tutti gli altri: l’orientamento politico rigorosamente di destra; l’esibizione talvolta un po’ stucchevole delle gioie della vita cristiana, unita da una parte a dichiarazioni vagamente untuose di umiltà e dall’altra al disprezzo manifesto per chi cristiano non è, disprezzo venato a volte di razzismo (l’autore dice per esempio dei Giapponesi, in un commento, che «sono un esempio pratico e fulminante di come la mancanza di Cristo possa portare la violenza sugli altri uomini a livelli difficilmente immaginabili, pur in mezzo ad un formalismo e moralismo a noi (fortunatamente) ignoti»: si può supporre, generosamente, che B. non ignori le statistiche che pongono costantemente il Giappone in fondo alle classifiche mondiali dei tassi di criminalità, e che si stia riferendo a qualche forma più sottile di violenza, ma allora con lo stesso ragionamento se ne dovrebbe dedurre che da noi si ammazza di più per la presenza di Cristo...). Un elemento più originale, che ha fatto la fortuna del blog, è la prosecuzione delle Screwtape Letters di C.S. Lewis, in cui Berlicche – il diavolo che elargisce consigli al maldestro Malacoda – tende spesso a incarnare i valori degli odiati «laicisti»: un esercizio, insomma, di letterale demonizzazione.
Recentemente B. ha dedicato due post al paragone tra scienza e fede. Nel primo, «Vedere l’infinito» (11 aprile 2007), azzarda un paragone tra conoscenza dei buchi neri e conoscenza di Dio:

Un buco nero, per definizione, è un oggetto astronomico che non solo non si vede, ma non si può vedere. La sua caratteristica è di avere una attrazione gravitazionale così forte che la luce (e ogni altra cosa) non ce la fa ad uscire da esso: è attirata inesorabilmente indietro, curvata, ingoiata.
Il buco nero è così “visibile” solo indirettamente, osservabile solo dagli effetti che la sua presenza ha su quanto lo circonda.
La conoscenza di un buco nero, quindi, è ancora scientifica o no?
Se di esso non è possibile fare ipotesi, perché oltre il suo confine, il suo orizzonte degli eventi niente ritorna, la conoscenza di esso non diventa una conoscenza di fede?
Se di Dio è possibile solo una conoscenza indiretta, come è differente questo dall’ipotizzare l’esistenza di un buco nero? Si può dire per questo che il buco nero non c’è, che Dio non c’è?
Qui B. introduce una distinzione insostenibile tra l’osservazione diretta di un oggetto e l’osservazione tramite gli effetti che esso ha su ciò che lo circonda: anche la luce emanata da un corpo visibile non è altro che un effetto fisico, che non ci fa certo conoscere l’oggetto in sé. Il buco nero ha effetti fisici imponenti, che ci permettono di misurarne con precisione le caratteristiche (le coordinate spazio-temporali, la massa, la carica, il momento angolare), e non è meno conoscibile – per quanto riguarda queste proprietà – di qualsiasi altro ente fisico. Si potrebbe sostenere tutt’al più che i buchi neri sono troppo fuori mano per misurarne tutte le proprietà, ma d’altra parte è proprio per questo che per la scienza la loro esistenza – checché ne pensi B. – non è un dato acquisito al di là di ogni dubbio.
Il secondo post («Conoscere l’inconoscibile», 12 aprile) è più interessante, e ci porta al tema di apertura.
mettiamo che vi dica, che so... che la superficie del Sole è solida. O che il polo nord di Saturno è un enorme esagono. E che all’altro polo c’è un buco in cui ci potrebbe cascare la Terra dentro. O che le stelle sono diamanti. O che il cielo è la casa di Dio. Voi potreste dubitare di quello che dico, e ne avreste tutte le ragioni. Chi sono io per voi?
E quindi occorre verificare.
Ma non sempre si può, non tutti possono andare fino a Saturno per guardarne i poli. […]
E quindi scatta quell’altro meccanismo della conoscenza che si chiama certezza morale. Anche se mi sembra impossibile che il polo di Saturno, o di Giove, sia a forma di esagono, siccome mi conosci e sai che di me ci si può fidare allora ci credi, fino a prova contraria.
Prendiamo ad esempio una cosa come il battesimo, o la confessione. Che possano rimettere, perdonare i peccati è certamente qualcosa che esula dall’indagine fisica. Non c’è, e probabilmente non ci sarà mai, un misuratore di Grazia, un indicatore tarato di peccato.
Alla fine del post B. offre i link che provano la veridicità dei fenomeni astronomici straordinari che ha citato. La logica, apparentemente, tiene: se affermazioni fisiche come «l’accelerazione gravitazionale nominale alla superficie terrestre è di 9,81 m/s2» o «il punto di ebollizione dell’acqua è di 100°C al livello del mare» sono in linea di principio accessibili alla mia esperienza diretta, affermazioni straordinarie a proposito del pianeta Saturno o di altri astri sembrerebbero accettabili solo per fede in chi ce le comunica, non diversamente (mutatis mutandis, è ovvio) dai fatti straordinari del Vangelo a noi pervenuti per la trasmissione apostolica. Ma è proprio così?
Diciamo subito che due delle affermazioni non sono poi così straordinarie, tanto che non è forse un caso che B. le riporti imprecisamente: al polo sud di Saturno non c’è «un buco in cui ci potrebbe cascare la terra dentro», ma l’occhio di una sorta di uragano stazionario; che questo possa (quasi) contenere il nostro mondo non è poi così incredibile, in un pianeta la cui superficie è 84 volte quella terrestre. E non è vero che «le stelle sono diamanti»: lo sono solo alcune nane bianche; il fatto – in sé non particolarmente straordinario – che i loro nucleo fosse composto di carbonio, e che sia stato sottoposto a una pressione enorme, rende l’esistenza di un gigantesco diamante al loro centro non meno credibile di quella di un normale diamante terrestre.
Le cose cambiano con l’esagono di Saturno. Qui B. ha assolutamente ragione: questo è un fenomeno straordinario e inatteso, che nessuno fino ad ora è riuscito a spiegare in maniera soddisfacente, e che sembra sfidare – con la sua apparenza geometrica e perfettamente regolare – la nostra intuizione fisica. C’è però un ma: scrive B. che «non tutti possono andare fino a Saturno per guardarne i poli»; ma in realtà, e in un certo senso, è proprio quello che è successo. Tutti possiamo guardare i poli di Saturno come se ci trovassimo lì, grazie alle foto della sonda Cassini in orbita attorno al pianeta; è proprio così che abbiamo scoperto l’esagono misterioso al polo nord e l’uragano gigante al polo sud. Se un astronomo avesse riferito di avere intravisto l’esagono con il suo telescopio, senza poterne scattare le foto, lo scetticismo sarebbe stato generale e, penso, legittimo.
Si dirà: vabbè, in fondo così si sposta soltanto il discorso; rimane vero che si crede all’esistenza dell’esagono perché si ha fede nella Nasa, e nelle foto che sostiene di avere ricevuto dalla sonda. Ma anche questo sarebbe sbagliato: in realtà, quando accettiamo la veridicità delle foto, non lo facciamo perché abbiamo fede nella veracità della Nasa. Noi valutiamo quale sia il miracolo maggiore: che esista un fenomeno al momento inspiegabile su un pianeta dalle caratteristiche fisiche molto diverse da quelle a cui siamo abituati sulla terra, o, viceversa, che alla Nasa sia in corso un complotto che coinvolgerebbe come minimo decine di persone. Se le foto avessero mostrato al polo nord di Saturno il volto sorridente di Topolino, non ci sarebbe stata fiducia che tenesse: saremmo tutti stati certi di una burla, per quanto folle e colossale.
Chi mi legge ricorderà certamente chi è stato per primo a utilizzare questo ragionamento: sì, si tratta proprio di David Hume, nel saggio «Of Miracles», dove il medesimo argomento viene utilizzato per negare credibilità a ogni storia di miracoli. Ciò che ci induce a credere alla presenza di un esagono tra le nubi di Saturno non può essere utilizzato, temo, per dimostrare i prodigi della storia sacra.
Veniamo infine all’ultima, e più interessante, delle meraviglie astronomiche che Antonio B. ha ritenuto di invocare. Il sito The Surface Of The Sun ci informa in un linguaggio accessibile della clamorosa scoperta compiuta grazie agli osservatori spaziali SOHO, Trace, Yohkoh ed altri: contrariamente a tutto quello che si credeva vero, la superficie del Sole è solida, non gassosa, e composta di ferrite (cioè di minerale di ferro), non di idrogeno e di elio con tracce di altri elementi. Immagini suggestive ci mostrano l’aspetto di questa superficie, che giace al disotto della fotosfera (la superficie visibile dell’astro). Si tratta di una novità assolutamente incredibile – e per una buona ragione: perché non è vera. Il sito è opera di un crank, tale Michael Mozina, che non sembra avere nessuna qualifica accademica, e le cui idee non trovano alcun riscontro nella letteratura scientifica. B. si è fatto ingannare dall’apparenza relativamente seria del sito.
Si dirà che questo non dimostra nulla: non ci fidiamo del primo Carneade, abbiamo fede negli scienziati con PhD; non ci fidiamo del Testimone di Geova che bussa alla nostra porta, ci fidiamo del fine teologo laureato alla Gregoriana. Una questione di fede, in ogni caso. Ma le cose non stanno così.
Sarebbe possibile dubitare del sito di Mozina anche senza sapere assolutamente nulla dello stato della ricerca sul sole o della biografia dell’autore. La temperatura media della fotosfera solare è di 5800 gradi Kelvin; il punto di ebollizione del ferro è di 3134 K. Com’è possibile che sotto la fotosfera ci sia ferro solido? (E stiamo trascurando il fatto che la temperatura aumenta con la profondità, mentre la pressione atmosferica rimane sempre al disotto di quella al suolo terrestre.) Ancora: la densità del ferro, poco sotto il punto di fusione, è di 7.000 kg/m³, quella media del sole di 1.400 kg/m³. Quindi il sole sarebbe composto in gran parte di elementi più leggeri del ferro; ma allora com’è possibile che la crosta non sia sprofondata verso il centro, in particolare all’epoca della formazione? Questa è fisica elementare; e anche se fosse possibile elaborare modelli sofisticati per rendere conto di queste anomalie (che Mozina comunque non ci offre), almeno qualche sospetto dovrebbe nascere.
Non la fede ci deve dunque guidare nella valutazione delle affermazioni straordinarie, ma il senso critico, e la conoscenza di qualche cognizione di base. Non voglio tuttavia insinuare che queste due ultime qualità manchino assolutamente ad Antonio B. (anche se la notizia che fa l’ingegnere genera in queste circostanze una leggera apprensione...); probabilmente, a furia di pensare al diavolo, gli sarà venuto facile assimilare il sole all’inferno: caldissimo, ma con una solida, indistruttibile struttura.

Aggiornamento: ho cancellato il nome originale dell’autore di Berlicche; la spiegazione si trova nei commenti.