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sabato 19 marzo 2011

La sentenza sul crocifisso

È disponibile sul sito della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la sentenza della Camera Grande sul caso Lautsi e altri contro Italia. Com’è ormai noto, la Corte ha ribaltato la sentenza di primo grado, assolvendo lo Stato italiano dall’accusa di violare con l’esposizione del crocifisso nelle scuole la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

È importante notare che con la sentenza la Corte non accoglie necessariamente tutti gli argomenti addotti dal Governo italiano nella sua difesa, invero a tratti assai farraginosa. Così, per esempio, al § 66 della sentenza, si legge che il crocifisso è prima di ogni altra cosa un simbolo religioso:

The Court […] considers that the crucifix is above all a religious symbol. The domestic courts came to the same conclusion and in any event the Government have not contested this. The question whether the crucifix is charged with any other meaning beyond its religious symbolism is not decisive at this stage of the Court’s reasoning.
Al § 68, ancora, la Corte chiarisce che invocare il carattere tradizionale della pratica di esporre il crocifisso non basta di per sé a sottrarre dal rispetto della Convenzione:
The Court takes the view that the decision whether or not to perpetuate a tradition falls in principle within the margin of appreciation of the respondent State. The Court must moreover take into account the fact that Europe is marked by a great diversity between the States of which it is composed, particularly in the sphere of cultural and historical development. It emphasises, however, that the reference to a tradition cannot relieve a Contracting State of its obligation to respect the rights and freedoms enshrined in the Convention and its Protocols.
La Corte, in effetti, ha motivato la propria sentenza esclusivamente sul fatto che, a suo giudizio, l’esposizione del crocifisso non costituirebbe un indottrinamento degli allievi (§§ 71-77):
a crucifix on a wall is an essentially passive symbol […]. It cannot be deemed to have an influence on pupils comparable to that of didactic speech or participation in religious activities […] the presence of crucifixes is not associated with compulsory teaching about Christianity […] according to the indications provided by the Government, Italy opens up the school environment in parallel to other religions. The Government indicated in this connection that it was not forbidden for pupils to wear Islamic headscarves or other symbols or apparel having a religious connotation; alternative arrangements were possible to help schooling fit in with non-majority religious practices; the beginning and end of Ramadan were “often celebrated” in schools; and optional religious education could be organised in schools for “all recognised religious creeds” […]. Moreover, there was nothing to suggest that the authorities were intolerant of pupils who believed in other religions, were non-believers or who held non-religious philosophical convictions.
In addition, the applicants did not assert that the presence of the crucifix in classrooms had encouraged the development of teaching practices with a proselytising tendency […].
Lastly, the Court notes that the first applicant retained in full her right as a parent to enlighten and advise her children, to exercise in their regard her natural functions as educator and to guide them on a path in line with her own philosophical convictions
Quello che non si comprende, però, è come ciò possa assolvere lo Stato italiano dalla violazione del dovere di «neutralità e imparzialità», che la stessa Corte riconosce (§ 60) essere imposto dall’art. 9 della Convenzione agli Stati contraenti. Come riconosce in una postilla il giudice Rozakis (e si tratta di un’opinione concordante con la sentenza!),
It is, I think, indisputable that the display of crucifixes in Italian State schools has a religious symbolism that has an impact on the obligation of neutrality and impartiality of the State […]. The question which therefore arises at this juncture is whether the display of the crucifix not only affects neutrality and impartiality, which it clearly does, but whether the extent of the transgression justifies a finding of a violation of the Convention in the circumstances of the present case [corsivo mio].
Sembra di capire che la violazione della neutralità sia condonata per il suo essere poco efficace; ma probabilmente servirà una lettura più attenta della sentenza.

Al di là del caso presente, rimane il fatto della violazione indubitabile dell’uguaglianza dei cittadini compiuta da uno Stato che esponga negli spazi istituzionali simboli di una data religione. Ai cittadini che non condividano le credenze di quella religione lo Stato sembra dire «Io non sono con voi; io preferisco altri»; e questa è una violazione del diritto a un uguale trattamento, anche se ad essa non faccia seguito una più concreta discriminazione. Noi, per fare un paragone, giustamente diffidiamo di magistrati che si impegnino in una attività politica, perché pensiamo che questo faccia venire meno la fiducia nella loro neutralità; e non importa che le loro sentenze dimostrino eventualmente una vera imparzialità (ammesso che sia possibile dimostrarla): la serenità di chi viene sottoposto a giudizio viene prima di tutto. Allo stesso modo e per le stesse ragioni dovremmo impedire che lo Stato si schieri attivamente al fianco di una parte religiosa.
È un peccato che la Corte non abbia riconosciuto questi principi di civiltà. Ma forse la sconfitta di oggi non chiude la partita: al § 57 la Corte osserva che nel caso in esame non si occupa della compatibilità dei crocifissi con i principi della laicità espressi dalle leggi italiane:
the Court observes that the only question before it concerns the compatibility, in the light of the circumstances of the case, of the presence of crucifixes in Italian State-school classrooms with the requirements of Article 2 of Protocol No. 1 and Article 9 of the Convention.
Thus it is not required in this case to examine the question of the presence of crucifixes in places other than State schools. Nor is it for the Court to rule on the compatibility of the presence of crucifixes in State-school classrooms with the principle of secularism as enshrined in Italian law.
C’è allora forse spazio per continuare la battaglia giuridica, anche se probabilmente essa si dovrà combattere su un fronte tutto italiano, portando la Corte Costituzionale a pronunciarsi – cosa che finora non ha voluto fare – su questa ferita ancora aperta alla laicità dello Stato.

sabato 26 giugno 2010

La croce in pubblico

Marco Politi coglie perfettamente ieri sul Fatto Quotidiano il punto debole di tanti attacchi alla sentenza sul crocifisso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo («Laicità in croce», 25 giugno 2010, p. 18):

Falso è […] dire che la sentenza respingerebbe la fede nell’ambito angusto del “recinto privato”.
Il cristianesimo, come ogni altra fede, è totalmente libero di esprimersi collettivamente e visibilmente nello spazio pubblico e sociale dei paesi Ue. Parlare in Italia di un cristianesimo che rischia di essere conculcato, è una gag.
Ciò che indica la prima sentenza della Corte europea è, correttamente, l’impossibilità che in uno spazio istituzionale come la scuola (o i tribunali) vi sia un simbolo religioso che visivamente rappresenti il supremo principio ispiratore dell’educazione (o della giustizia). Non ci può essere nella società pluralistica contemporanea il dito indice di una sola religione, che all’interno di un’istituzione segni la via da seguire. Perché non è vero che il crocifisso sia nelle aule o nei tribunali “per tradizione”. La croce nei luoghi istituzionali è il retaggio dei secoli in cui il cattolicesimo era religione di stato. E il tentativo di imporne la presenza, anche oggi che la Costituzione e il Concordato hanno eliminato qualsiasi riferimento ad una religione di stato, non ha più nessuna base giuridica. Meno che mai è giustificato il tentativo surrettizio delle gerarchie ecclesiastiche di creare e crearsi uno status privilegiato di “religione di maggioranza”. Peraltro i giovani italiani, come dimostra l’ultima indagine Iard riportata dall’Avvenire, si sentono “cattolici” soltanto al 52 per cento.
Neanche è vero che il cattolicesimo sia un tratto universale dell’identità italiana. Ogni cittadino ha la sua storia, la sua cultura, le sue credenze. Sul piano istituzionale è certo che un solo simbolo, il Tricolore, rappresenta tutti (con buona pace di Bossi) e una sola immagine rappresenta nei luoghi pubblici l’unità della nazione, quella del presidente della Repubblica (Berlusconi se ne faccia una ragione).
Da questo punto di vista rimane insuperabile la chiarezza del principio costituzionale americano (nazione assai religiosa e spesso citata da Benedetto XVI come esempio di laicità positiva), secondo cui lo Stato non può “né favorire né contrastare una religione”. Nelle scuole americane c’è la bandiera a stelle e strisce, non il crocifisso.
Il punto chiave è proprio questo: ciò cui i laici obiettano è in generale l’esposizione del crocifisso negli spazi istituzionali, non negli spazi genericamente pubblici. Purtroppo l’uso di «pubblico» come sinonimo di «statale» e la confusione che ne può sorgere hanno fatto spesso il gioco di chi in malafede vuole seminare allarme su un presunto prossimo sradicamento di croci dai campanili e dai cimiteri.

lunedì 3 maggio 2010

L’assurdo della discriminazione

Era circolata qualche giorno fa la notizia che il Governo Italiano avesse inserito nel ricorso contro la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, che condannava l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, una nota redatta dal professor Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico e Diritto delle istituzioni religiose presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre e abituale editorialista del quotidiano dei vescovi italiani Avvenire. È appunto su questo giornale che Cardia scrive quanto segue («Sentenza crocifisso. Cambiare si deve. È l’Europa stessa ad affermarlo», Avvenire, 1 maggio 2010, p. 15):

Ancora, la scuola italiana ammette simboli e pratiche di altre religioni. Leggi, decreti, circolari, e giurisprudenza, prevedono la legittimità del velo islamico, di altri simboli e vestimenti di derivazione religiosa […]. Il mancato esame di questi elementi giuridici e storico-culturali (e altro ancora) ha indotto la Corte di Strasburgo ad isolare il simbolo del crocifisso come fosse l’unico presente nelle nostre scuole […]. Se si seguisse la logica della sentenza si arriverebbe all’assurdo di togliere il crocifisso e mantenere i simboli di altre religioni, con la conseguenza che verrebbe ad essere sacrificata e discriminata proprio la religione della stragrande maggioranza degli italiani.
Per l’illustre professore, dunque, il velo islamico, la kippà e la croce di Davide degli Ebrei, il turbante dei Sikh, il pentacolo dei Neopagani e tutti gli altri simboli indossati da privati sono in tutto e per tutto equivalenti non – come potrebbero pensare gli ingenui che non insegnano a Roma 3 – al crocifisso appeso al collo, al rosario, all’immaginetta di Padre Pio o alla statuina di San Giuda Taddeo recati su di sé dagli studenti cattolici, ma al crocifisso appeso al muro dell’aula davanti a tutti, imposto da un’apposita normativa statale; sicché se abolisci quest’ultimo, pur lasciando immutato tutto il resto, stai discriminando i poveri cattolici e sei poco meno di un persecutore di cristiani.

Con un simile difensore e con argomenti di questa forza, vincere il ricorso davanti alla Corte di Strasburgo sarebbe per il Governo italiano un autentico miracolo...

venerdì 9 aprile 2010

La fissa della croce


Soile Lautsi ha due figli di 11 e 13 anni. Nelle aule della scuola pubblica che i bambini frequentano è appeso un crocifisso. Come cittadina dello Stato italiano, Lautsi considera l’esposizione del crocifisso contraria alla laicità e alle libertà fondamentali. Prova a farlo presente alla scuola, ma il crocifisso rimane appeso alla parete. Allora si rivolge al tribunale amministrativo, ma si sente rispondere che il crocifisso sarebbe un simbolo della storia e della cultura italiane, dell’identità italiana e dei principi di uguaglianza, di libertà e di tolleranza - addirittura della laicità dello Stato. La controversia arriva fino al Consiglio di Stato, che nel febbraio 2006 rigetta il ricorso in quanto il crocifisso sarebbe diventato uno dei valori laici della Costituzione italiana e rappresenterebbe i valori della vita civile.

Il Mucchio Selvaggio, 669, aprile 2010.

domenica 31 gennaio 2010

Crocifisso in salsa bavarese

Stefano Ceccanti, senatore del Partito Democratico, uno dei padri dei non compianti DiCo, ha firmato lo scorso dicembre assieme ad altri colleghi una proposta di legge in tre commi che regola l’esposizione nelle aule scolastiche del crocifisso:

1. In considerazione del valore della cultura religiosa, del patrimonio storico del popolo italiano e del contributo dato ai valori del costituzionalismo, come segno del valore e del limite delle costituzioni delle democrazie occidentali, in ogni aula scolastica, con decisione del dirigente scolastico, è affisso un crocifisso.
2. Se l’affissione del crocifisso è contestata per motivi religiosi o di coscienza dal soggetto che ha diritto all’istruzione, ovvero dai suoi genitori, il dirigente scolastico, sulla base del princìpio di autonomia scolastica, nel rispetto dei princìpi di tutela della privacy e di non discriminazione nonché tenendo conto delle caratteristiche della comunità scolastica, cerca un accordo in tempi brevi, anche attraverso l’esposizione di ulteriori simboli religiosi.
3. Qualora non venga raggiunto alcun accordo ai sensi del comma 2, nel rispetto dei princìpi di cui al medesimo comma 2, il dirigente scolastico adotta, previo parere del consiglio di circolo o di istituto, una soluzione che operi un giusto contemperamento delle convinzioni religiose e di coscienza di tutti gli alunni della classe coinvolti e che realizzi il più ampio consenso possibile.
La proposta si ispira dichiaratamente alla legge bavarese sull’educazione e l’istruzione pubblica, Bayerisches Gesetz über das Erziehungs- und Unterrichtswesen (BayEUG), approvata il 23 dicembre 1995 dal Parlamento del Land Baviera ed entrata in vigore il 1º gennaio 1996. A proposito di quest’ultima, ecco cosa scrive Susanna Mancini in un bell’articolo di prossima pubblicazione («La supervisione europea presa sul serio: la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti», Giurisprudenza Costituzionale, n. 5, 2009, alla nota 95):
Nel 1995, la Corte Costituzionale tedesca stabilì l’incostituzionalità dell’articolo 13.13 della legge bavarese che obbligava all’esposizione della croce nelle aule della scuola dell’obbligo (1 BvR 1087/91, d.d. “Kruzifix-Urteil”). Con l’ovvio intento di aggirare il disposto di questa sentenza, il legislativo bavarese ha adottato un nuovo atto, il quale “in considerazione della connotazione storica e culturale della Baviera” obbliga ad esporre il crocifisso in tutte le aule. Se tuttavia qualcuno obietta “per ragioni serie e comprensibili inerenti alla fede o a una visione del mondo”, il preside della scuola deve condurre un procedimento di conciliazione. Se non si raggiunge nessuna soluzione, il preside deve ricercare una soluzione ad hoc che rispetti la libertà religiosa del dissenziente, realizzi un bilanciamento tra le convinzioni ideologiche e religiose di tutta la classe e, come se non bastasse, prenda anche in considerazione la volontà della maggioranza (Art. 7, Bayerische Gesetz über das Erziehungs und Unterrichtswesen, BayEUG). L’ambiguità di questa procedura è emersa chiaramente quando una scuola e, successivamente, la corte amministrativa della Baviera hanno rigettato le obiezioni dei genitori di uno scolaro, definendole “pretestuose e polemiche” ed affermando che l’ateismo della famiglia non costituisce un motivo serio per obiettare all’esposizione del crocifisso. In ultima istanza la Corte Suprema Amministrativa (Bundesverwaltungsgericht) ha accolto invece le argomentazioni dei genitori dissenzienti, affermando che la libertà di coscienza include anche quella di non credere (Bundesverwaltungsgericht, sentenza n. 21/1999, 21 aprile 1999).
Ma veniamo al disegno di legge di Ceccanti & Co. C’è subito da rilevare la conferma della tendenza recente a infarcire i preamboli dei testi di legge con roboanti dichiarazioni di principio, quasi che gli estensori ci vogliano far ingollare, oltre alla norma concreta, anche la loro personale (e spesso discutibilissima) visione del mondo; rimando per il resto alle caustiche osservazioni di Galatea sul comma 1 della proposta di legge.
In secondo luogo, va notata l’ambiguità del testo, da cui non si riesce a capire se sia possibile o meno che in una classe non venga esposto il crocifisso; solo da un accenno della relazione introduttiva («non per questo diventa immediatamente legittimo o, quanto meno, opportuno il suo contrario, ovvero l’obbligo di esposizione senza alcuna possibilità di eccezione») sembra di poter concludere che l’eccezione sia ammessa. La vaghezza della legge sarà senza dubbio foriera di futuri contenziosi, esattamente come nel caso del modello bavarese.
Ma il punto principale è che la proposta di legge è del tutto incompatibile con il principio di laicità. Essa individua ancora una confessione privilegiata, quella cattolica, il cui simbolo è esposto per default, mentre gli appartenenti ad altre religioni sono costretti all’iter di una apposita richiesta, il cui esito, per giunta, non sembra neppure scontato. Il richiamo alla privacy del disegno di legge assume qui tutti i caratteri dell’ipocrisia: il singolo, per vedere rispettata anche la propria confessione – magari poco popolare o controversa agli occhi della maggioranza – deve uscire allo scoperto, mentre ai cattolici è risparmiato ogni sforzo. Da notare come non si faccia neppure cenno, con insensibilità rivelatrice, ai costi degli altri simboli da esporre: saranno a carico delle famiglie o dell’istituzione scolastica? Questi rilievi farebbero pensare a una possibile incostituzionalità di una legge articolata su queste linee, per violazione dell’art. 3 Cost. prima ancora che dell’art. 8.
Sarebbe possibile una legge che ammetta la presenza dei simboli religiosi senza incorrere in questi rilievi? In teoria sì, almeno in parte: bisognerebbe abolire ogni obbligo e ogni ruolo attivo delle istituzioni, lasciando le pareti scolastiche a disposizione degli alunni, che – su richiesta – sarebbero liberi di appendere i loro simboli. Ma è chiaro che questa proposta non potrebbe essere fatta propria dalla maggior parte dei cattolici, compresi quelli «progressisti» (come dimostra la proposta Ceccanti), perché renderebbe concreta la possibilità che in alcune aule si debba procedere alla rimozione del crocifisso per mancata richiesta, e soprattutto perché farebbe venire meno l’esemplarità del simbolo, dissolvendo la sua «certificazione» statale. In ogni caso, anche questa proposta sarebbe imperfettamente laica, lasciando pregiudicata la posizione degli indifferenti al fatto religioso – non tanto gli atei quanto gli agnostici – per i quali sarebbe problematico concepire un simbolo apposito. E ci si potrebbe interrogare sulla sensatezza di concedere attivamente spazio a segni di divisione in un contesto, come quello scolastico, che dovrebbe promuovere per quanto è possibile l’integrazione dei cittadini in una comunità civile unita.

Aggiornamento: tutto da leggere il severo commento di Francesco Costa alla proposta di legge.

martedì 15 dicembre 2009

Ottanta anni fa

Il volantino riprodotto qui sopra (tratto da: Clara Gallini, Il ritorno delle croci, Roma, Manifestolibri, 2009, p. 71) è stato stampato nel 1926, in occasione della ricollocazione della croce (pesante cinque quintali!) nel Colosseo, e mostra Mussolini mentre saluta romanamente il crocifisso. Il testo recita:

LA CROCE che i passati Governi bandirono dalle scuole e dagli ospedali, togliendo così ai nostri Figli il culto della fede e ai morenti l’ultimo conforto fu per volere del DUCE ricollocata nelle aule e nelle doloranti corsie ed è oggi trionfalmente riportata nel Colosseo di dove cinquantaquattro anni or sono era stata rimossa. La domenica VII Novembre MCMXXVI una devota moltitudine di popolo si [parola incomprensibile] nel vetusto anfiteatro per rendere grazie alla CROCE che aveva pochi giorni avanti salvata all’Italia la preziosa esistenza del DUCE invitto. Un pio sacerdote, dopo il solenne Te Deum, pronunciava fra la più intensa commozione del popolo nobili e sante e patriottiche parole, così concludendo: LA CROCE CHE IL NOSTRO DUCE ONORA ED ESALTA È QUELLA CHE LO PROTEGGE.
Il testo allude al fallito attentato a Mussolini eseguito il 31 ottobre di quell’anno dall’anarchico quindicenne Anteo Zamboni, linciato immediatamente dopo il fatto dai fascisti. Si trattava del quarto tentativo fallito in un anno, e il regime ne approfittò per inasprire la dittatura.
Interessante l’accenno del volantino al fatto che i crocifissi erano stati in precedenza rimossi da aule ed ospedali, contrariamente alla vulgata che circola attualmente, interessata (per ovvi motivi) a mettere il rilievo la continuità di quella presenza.

venerdì 27 novembre 2009

Segno di identità

Ansa, 27 novembre, 16.07:

GENOVA - Con in mano i volantini per difendere il crocifisso, un attivista della Lega Nord Liguria si è fatto scappare una serie di bestemmie stamani a Genova durante una animata discussione con un passante che la pensava diversamente. È accaduto nella centrale Piazza De Ferrari, dove la Lega Nord ha allestito un gazebo per raccogliere firme per mantenere i crocifissi nelle scuole.
Verso le 11.20, un attivista del partito che distribuiva volantini ha iniziato a discutere animatamente con un passante che la pensava diversamente. In pochi secondi si è passati agli insulti e l’attivista, un uomo sui cinquant’anni, ha dato uno spintone all’altro, un uomo sui 60 anni. Sono intervenuti alcuni attivisti che hanno cercato di dividere i contendenti ma a quel punto il leghista ha perso il controllo e ha iniziato a urlare bestemmie tra lo stupore dei passanti. Sono intervenuti due agenti della Digos ai quali l’uomo ha spiegato di aver agito così perché da poco aveva perso il lavoro e l’altro gli aveva detto di “andare a lavorare”.
(Hat-tip: UAAR Ultimissime.)

venerdì 6 novembre 2009

La tradizione non può essere un valore in sé

Useless

Il dibattito che si è scatenato sulla sentenza di Strasburgo sul crocifisso è perlopiù noioso e sciocco.
Uno degli argomenti più idioti, tra i molteplici e solo presunti tali a favore di Gesù in croce appeso alle pareti dei luoghi pubblici, è il richiamo alla tradizione.
Basterebbe un po’ di buon senso per capire che invocare la “tradizione” non dimostra nulla, se non che sia trascorso del tempo. Ma il trascorrere del tempo, di per sé, è neutrale.
E l’elenco di tradizioni moralmente ripugnanti sarebbe lungo, lunghissimo. E, si spera, ripugnante anche per chi oggi si sgola in difesa della ubiquità del simbolo religioso e cattolico. Il matrimonio riparatore, tanto per cominciare: quell’accomodamento per cui se un uomo sposava la donna che aveva stuprato era tutto a posto. La tortura e la pena di morte – radicate tradizioni. Il divieto di sposare qualcuno con un diverso colore della pelle e l’indissolubilità del contratto matrimoniale.
Esistono anche tradizioni neutrali e tradizioni moralmente ineccepibili. In tutti i casi lo spessore morale non deriva dalla loro durata.
Non importa da quanti secoli la croce se ne sta appesa sui muri, a contare è il suo significato. E questo un giudice straniero lo ha spiegato bene, anche un bambino distratto potrebbe capirlo. L’imposizione (simbolica) di una confessione è contraria alla libertà religiosa e alla laicità dello Stato. Sempre che lo Stato sia liberale e laico.

DNews, 6 novembre 2009.

giovedì 5 novembre 2009

La sentenza sul crocifisso in italiano

Si trova sul blog di Alessandro Gilioli («Signora Lautsi contro il governo: sentenza integrale», Piovono rane, 4 novembre 2009). Non c’è il nome del traduttore ma a una prima occhiata la versione sembra professionale, impeccabile.

Aggiornamento 10/11: un’altra traduzione della sentenza, a cura di Laura Morandi e Bruno Moretti Turri. Rispetto all’altra ha il vantaggio di riportare i numeri dei paragrafi.

L’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza

In mezzo a tante sciocchezze e a tanta violenza verbale, un commento luminoso sulla vicenda del crocifisso in classe: quello di Marco Politi, ieri sul Fatto QuotidianoLa Croce che non s’impone», 4 novembre 2009, p. 18).

Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti. Non è così. O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale. Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano. Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio. È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no. […]
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza. Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale. Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione. Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa. Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria. (Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali). Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica. La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso. Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Da leggere tutto.

mercoledì 4 novembre 2009

Identità crocifissa?

La marea delle reazioni alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha dato ragione a una cittadina italiana che sosteneva che l’esposizione dei crocifissi nelle aule della scuola pubblica costituisce una lesione della libertà di coscienza e di religione e del diritto a ricevere un’istruzione conforme alle proprie convinzioni religiose e filosofiche, comprende come sempre una miscela di cattiva informazione e di cattivi argomenti. Nella prima possiamo far rientrare gli allarmi sulla imminente asportazione delle croci dalle scuole – quando invece nell’immediato la sentenza della Corte avrà il solo effetto di costringere lo Stato italiano a pagare un risarcimento alla ricorrente – e le ingiure lanciate contro l’Unione Europea, già colpevole di aver lasciato fuori dalla propria costituzione le «radici cristiane» – ma la Corte dei diritti dell’uomo è espressione del Consiglio d’Europa, che non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea (ne fanno parte 47 stati, contro i 27 dell’Unione).
Fra i cattivi argomenti, che sono legione, ce n’è uno adoperato da molti commentatori, che vorrei qui esaminare. L’esposizione più eloquente, come accade spesso, si deve alla penna di Antonio Socci («Così cancellano la nostra cultura», Libero, 4 novembre 2009, p. 1):

Per coerenza i giudici dovrebbero far cancellare anche le feste scolastiche di Natale (due settimane) e di Pasqua (una settimana), perché violerebbero la libertà religiosa.
Stando a questa sentenza, l’esistenza stessa della nostra tradizione bimillenaria e la fede del nostro popolo (che al 90 per cento sceglie volontariamente l’ora di religione cattolica) sono di per sé un “attentato” alla libertà altrui.
I giudici di Strasburgo dovrebbero esigere la cancellazione dai programmi scolastici di gran parte della storia dell’arte e dell’architettura, di fondamenti della letteratura come Dante (su cui peraltro si basa la lingua italiana: cancellata anche questa?) o Manzoni, di gran parte del programma di storia, di interi repertori di musica classica e di tanta parte del programma di filosofia.
Infatti tutta la nostra cultura è così intrisa di cristianesimo che doverla studiare a scuola dovrebbe essere considerato – stando a quei giudici – un attentato alla libertà religiosa. In lingua ebraica le lettere della parola “Italia” significano “isola della rugiada divina”: vogliamo cancellare anche il nome della nostra patria per non offendere gli atei? E l’Inno nazionale che richiama a Dio?
Perfino lo stradario delle nostre città (Piazza del Duomo, via San Giacomo, piazza San Francesco) va stravolto? Addirittura l’aspetto (che tanto amiamo) delle vigne e delle colline umbre e toscane – come spiegava Franco Rodano – è dovuto alla storia cristiana e ad un certo senso cattolico del lavoro della terra: vogliamo cancellare anche quelle?
Ma non solo. Come suggerisce Alfredo Mantovano, «se un crocifisso in un’aula di scuola è causa di turbamento e di discriminazione, ancora di più il Duomo che "incombe" su Milano o la Santa Casa di Loreto, che tutti vedono dall’autostrada Bologna-Taranto: la Corte europea dei diritti dell’uomo disporrà l’abbattimento di entrambi?».
Signori giudici, si deve disporre un vasto piano di demolizioni, di cui peraltro dovrebbero far parte pure gli ospedali e le università (a cominciare da quella di Oxford) perlopiù nati proprio dal seno della Chiesa?
Infine (spazzata via la Magna Charta, san Tommaso e la grande Scuola di Salamanca) si dovrebbero demolire pure la democrazia e gli stessi diritti dell’uomo (a cominciare dalla Corte di Strasburgo) letteralmente partoriti e legittimati (con il diritto internazionale) dal pensiero teologico cattolico e dalla storia cristiana?
L’errore di questo tentativo di reductio ad absurdum è del tutto evidente. Socci crede (o finge di credere?) che alla base del ricorso alla Corte e della sentenza ci sia l’intolleranza verso qualsiasi manifestazione religiosa diversa dalla propria: l’ebreo, il musulmano o – come nel caso concreto – il non credente vedrebbero il crocifisso (o una croce appesa al collo, o il Duomo, o il velo di una monaca) e ne ricaverebbero un senso di turbamento: lì c’è qualcuno che non la pensa come loro, e questo spettacolo intollerabile va immediatamente cancellato rimuovendo il segno dell’appartenenza diversa. Ma lo spirito della sentenza – che Socci evidentemente non ha letto – è ovviamente tutt’altro. Quella che si condanna è l’esposizione di un simbolo religioso nello spazio dello Stato; quel che si condanna è la sanzione che lo Stato imprime su una tradizione religiosa a preferenza delle altre. Quella che si condanna è insomma una forma di statalismo: una forma impropria di aiuto di Stato, per così dire. Stato che getta il proprio peso spropositato sulla bilancia e fa percepire, specialmente (ma non solo) a menti ancora in formazione, di essere schierato a fianco di una religione particolare.

È chiaro che in quest’ottica le conseguenze estreme paventate da Socci mostrano tutta la loro pretestuosità. Tralasciamo quelle più vertiginosamente paradossali, come il significato ebraico del nome d’Italia (’i tal Yah, appunto «isola della rugiada del Signore», è solo un’espressione casualmente omofona di Italia) o l’aspetto delle colline umbre, e limitiamoci alle altre. La manifestazione del culto – anche pubblica, come portare una croce al collo o in processione – non ha nulla a che fare con lo Stato, con scuole, ospedali o tribunali, così come non ce l’ha la Santa Casa di Loreto. Quanto all’insegnamento nelle scuole a base di autori cattolici o di opere d’arte ispirate al cristianesimo o di dottrine filosofiche connesse a questa religione, non è possibile non vedere l’immane differenza rispetto a un simbolo esibito per il suo valore esemplare, là dove nell’educazione è fondamentale la distanza critica interposta fra soggetto e oggetto, che è ha tutt’al più un valore conoscitivo (si può – forse – fare un’eccezione là dove i valori non sono controversi e non investono la nostra coscienza più intima, come per esempio nell’educazione a certi tipi di gusto); tant’è vero che si possono e devono insegnare anche le pagine oscure della nostra storia: non si vorrà dire, spero, che non c’è differenza fra una lezione dedicata al fascismo e un ritratto del Duce appeso in classe... (Tralascio qui le pretese connessioni fra cristianesimo e democrazia, di cui mi sono occupato recentemente in un altro post.)

La tradizione dovrebbe essere una cosa viva, sempre mutevole, che cresce, si adatta, e infine – perché no? – muore. Religioni, modi di pensare, cucinare, parlare, ballare sono in flusso perenne, anche se spesso fingiamo di dimenticarlo. Qualcuno, in particolare, cerca sempre di cristallizzare quel fiume, essenzializzando la tradizione, facendone un modello iperuranio, sostanza di un popolo, la cui perdita sarebbe come una morte parziale (nella retorica di certi conservatori estremi si parla non a caso di etnocidio anche solo per cause banali come l’apertura di un McDonald’s...): oggi Mariastella Gelmini commentava in un’intervista la decisione della corte di Strasburgo con queste parole: «Le radici dell’Italia passano anche attraverso simboli, cancellando i quali si cancella una parte di noi stessi» (Flavia Amabile, «“Si distrugge tutto in nome della laicità”», La Stampa, 4 novembre, p. 3). Anche da idee come queste dipende la statalizzazione delle tradizioni, la corsa al sostegno statale. Ma sono solo le tradizioni morenti ad avere bisogno della stampella pubblica, proprio come – non è un paragone irriverente – le industrie decotte. Altrimenti dovremmo fare ciò che ci propone un commento, apparso stamattina in uno dei più foschi blog integralisti, piccolo capolavoro d’umorismo (credo non involontario) fra tanta furia impotente e lugubri vaticini: «La pizza! La pizza! Io appenderei anche la pizza. Non sia mai che i bambini crescano senza la tradizione italiana».