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sabato 3 ottobre 2009

Ci pensa Rondoni

Cosa spinge Davide Rondoni («Quando si muore non si muore soli», Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2009, p. 1) a definire l’autodeterminazione come una «parola algida, filosoficamente debole e per certi aspetti comica»? L’affermazione è impegnativa; il modo in cui viene giustificata lo è un po’ di meno:

[Autodeterminazione è una] parola che nella vita reale non indica niente di veramente reale. Non ci autodeterminiamo in niente, mai. Nemmeno decidiamo quando nascere e come siamo fisicamente fatti. E nemmeno il nostro carattere. Nemmeno di chi ci innamoriamo. O cosa ci addolora. O se ci piacciono di più i fichi o le fragole. Nemmeno come saranno i nostri figli per quanto possiamo programmarli. Non ci autodeterminiamo in niente – accettiamo addirittura che le leggi dello stato entrino nella nostra vita pesantemente in molti campi: il fisco, il codice della strada, i confini della proprietà...
Una prima cosa che salta all’occhio è la stranezza di un cattolico – a quanto ne so Rondoni, noto editorialista di Avvenire, è tale – che apparentemente non crede al libero arbitrio. L’impressione (confermata anche da altri esempi) è che gli integralisti cattolici abbiano sviluppato negli ultimi tempi una sorta di eclettismo ideologico: per giustificare le loro vedute fanno man bassa negli scaffali della storia delle idee, senza andare troppo per il sottile. Il fatto ha delle implicazioni interessanti per quello che riguarda la caratura culturale dell’integralismo, ma non è il caso di soffermarvisi adesso; così come non è nemmeno il caso di esaminare la tenuta logica della concezione rondoniana della libertà umana. Prendiamo per buona la sua visione del servo arbitrio; cambia qualcosa per i difensori dell’autodeterminazione? La risposta, naturalmente, è no. L’autodeterminazione non è – non principalmente, almeno – una tesi metafisica sulla libertà umana; è invece una massima pratica che impone di rispettare le scelte degli individui quando queste non ledano i diritti degli altri. Qui non importa realmente da dove vengano le nostre preferenze in materia di partner sentimentali o di frutta e verdura – purché si possa dire che quelle preferenze siano comunque, per il senso comune, preferenze nostre. Sarà anche vero che X si è innamorato di Y perché gli ricordava inconsapevolmente la sua prima bambinaia, o che a Z non piacciono le mele perché da piccino ci ha trovato un verme; queste sono comunque le loro preferenze, e il rispetto per la loro autodeterminazione consiste – per esempio – nel non costringere X a lasciare Y perché non è socialmente alla sua altezza, o nel non obbligare Z a mangiare mele perché «una mela al giorno leva il medico di torno». Consideriamo anche gli altri esempi dell’elenco di Rondoni (escluso ovviamente quello della nascita: vacuo paradosso, visto che la condizione necessaria per scegliere qualcosa è di esistere preliminarmente). Noi non scegliamo come siamo fatti fisicamente, è vero, ma neanche permettiamo a chicchessia di modificarci i connotati perché offendono il suo senso estetico; non scegliamo il nostro carattere, ma ci opponiamo ad essere portati da uno psichiatra solo perché qualcuno ci trova troppo timidi o troppo espansivi; non scegliamo cosa ci addolora, ma pretendiamo che nessuno ci costringa con la forza a riderne; non possiamo programmare in tutto i nostri figli, ma non tolleriamo che ci provino altri; e così via.

Rondoni aggiunge anche altre considerazioni. Per lui gli uomini di oggi «hanno ansia di autodeterminarsi di fronte al potere dello stato, perché tra ognuno di loro e lo stato non c’è più nessuno di cui si fidano, nessuno a cui affidarsi»; ci sono «solo l’individuo e lo stato. Nessun altro, nei momenti che contano». Ma chi dovrebbe esserci, invece, per Rondoni? La risposta alla domanda è complicata e anche abbastanza interessante. Inizialmente il nostro dà questa risposta:
Non ci sarebbe bisogno, in un mondo di uomini non soli, di fare il testamento a cui lo stato e i suoi rappresentanti si devono attenere per la mia buona morte. Ci penserebbero i miei cari, i medici scelti da me o da loro. Stabilendo con libertà e responsabilità quando la cura diviene accanimento.
Questo è sorprendente, per almeno due motivi. Per prima cosa, come mai se io non mi posso autodeterminare, è invece concesso alla mia famiglia e ai medici di determinare me? Non valgono anche per loro i (presunti) limiti alla libertà personale che Rondoni identificava? Secondo: in un caso notissimo e recente, mi sembrava di ricordare che Rondoni non fosse stato precisamente a favore che «a pensarci» fossero i familiari della persona in questione e «i medici scelti da loro»...
Rondoni deve essersi reso conto, mentre andava avanti a scrivere, della contraddizione; ecco dunque che qualche rigo più sotto i familiari (nonché «i medici scelti da loro») sono discretamente spariti:
Se poi la comunità medica è per la maggior parte propensa a pensare che l’alimentazione e l’idratazione artificiali non sono pratiche terapeutiche accanite, mi sembra naturale che questa legge […] rispetti tale convinzione.
E se invece la comunità medica fosse per la maggior parte non propensa? Beh, è semplice: puff!, sparisce anch’essa. Prosegue infatti Rondoni:
Ma se anche fosse una minoranza di medici, beh, l’amore e il rispetto della vita, porterebbe comunque ad essere cauti nel dare via a una legge che in sostanza direbbe: se la vita ti è divenuta insopportabile trova uno con il distintivo di dipendente dello Stato che sia disposto a ucciderti e nessuno ha diritto di intervenire.
Ed ecco che così l’individuo si ritrova di nuovo da solo, davanti a uno Stato che non vuole promulgare leggi avventate...
O forse no: perché il problema, conclude Rondoni, è «come si pensa a sé, vivi o moribondi. Soli o insieme a qualcuno che amiamo e che ci vuol davvero bene». E che Davide Rondoni ci voglia davvero bene, più di familiari e medici troppo propensi a compiacerci, è cosa certa: su di lui potete contare. Magari non sarà presente fisicamente mentre un infermiere vi caccia un sondino su per il naso, ma di sicuro assisterà in spirito.

lunedì 17 novembre 2008

Il poeta dà un nuovo senso alle parole

Davide Rondoni, «All’improvviso moine e inchini. Le parole vere fan paura» (Avvenire, 16 novembre 2008, p. 2):

Per autodeterminazione gli elettori tedeschi scelsero il nazismo e la soppressione delle razze deboli o minori.

sabato 28 giugno 2008

L’amore omosessuale è contronatura (e se lo dice il poeta...)

Ho sempre stimato la sua arte: le sue poesie riempiono un vuoto necessario. Vitale, direi.

Il poeta Davide Rondoni ha improvvisato sotto le due torri una lettura pubblica di Dante per ricordare che l’amore omosessuale è contronatura e ribadire che tra le unioni tradizionali e quelle dello stesso sesso non deve esserci uguaglianza di diritto. Rondoni ha proposto allo sparuto pubblico (tra cui il parlamentare Udc Gian Luca Galletti) il quindicesimo canto dell’«Inferno», con l’incontro tra Dante e il suo maestro Brunetto Latini, condannato per sodomia. «Dante sa dividere il valore morale di una persona dalle sue tendenze sessuali, il Gay Pride, nella sua tendenza estremista, invece le fa coincidere» ha spiegato Rondoni dal suo leggio improvvisato, chiarendo «che la tendenza sessuale è solo una pratica che va contronatura, ma non per questo Brunetto Latini non ha valore come persona».

giovedì 21 febbraio 2008

Quarto Trofeo Luca Volontè

Mancava da molto, da troppo tempo. Lo assegniamo oggi a Davide Rondoni, per la sua ineguagliabile mistura di stile, prosa, contenuto e vezzi poetici (Incontro con scintille dei due grandi intellettuali, Avvenire, 21 febbraio 2008):

Il fatto importante però è che due importanti intellettuali si ritrovano d’accordo, finalmente, su un punto che per dirla fino in fondo, era già chiaro a mia nonna Peppa e a mia figlia di dieci anni Carlotta. Insomma, gli intellettuali tornano alla realtà? Da percorsi diversissimi, il cattolico di sinistra Magris, e il berluscones ex comunista Ferrara arrivano negli stessi giorni a dare le ragioni di quell’atteggiamento di rispetto per la vita, per i nati di ogni genere e per i nascituri, che nel nostro popolo era diffusissimo, ed elementare, e che fu intorbidato proprio dagli intellettuali e dai giornalisti. Pur non sopportandosi, pur continuando a non sopportarsi e a beccarsi mentre si danno ragione, entrambi arrivano là dove mia nonna Peppa e la piccola Carlotta stanno sedute da tempo con le mani da lavoratrice, il mormorìo di avemaria e il caos dei giochi e dei film da ragazzina. Ecco, sta accadendo forse qualcosa.
Qua e là.
Anche il titolista meriterebbe una nomination.

martedì 6 novembre 2007

Coccodrillo di un poeta

Era bello che lui ci fosse. Bello e anche comodo, Avvenire, 4 novembre 2007:

Come ha detto una ex ragazza di strada al tg: mi ha fatto conoscere Cristo, mi ha fatto ritrovare fiducia in me stessa, e amare la vita. Tre cose semplici e grandiose.
Per tutto il suo editoriale, il poeta chiama Oreste Benzi «un tizio così«, «un tizio colà». Espressioni non proprio poetiche.

sabato 3 novembre 2007

Eterna consolazione

Cominciare la giornata con l’editoriale del poeta è una esperienza d’eterno (Siamo soffio accento d’eterno, Avvenire, 2 novembre 2007). Un editoriale sulla morte, che se siete superstiziosi passate oltre. Anche perché una volta letto il titolo è possibile capire che aria tira e leggere oltre è superfluo; forse dannoso.
Anche se la scelta degli aggettivi è sempre accurata da parte del poeta, così come quando attacca dicendo che “Oggi la notizia è la morte. Ma non come tutti gli altri giorni. Quando la morte di uno o di tanti ci arriva come notizia, violenta e penosa, e pur così consueta, triturata e quasi predigerita per il fatto stesso d’esser divenuta titolo o articolo sui giornali o in tv. No, oggi la morte arriva come notizia che ci riguarda.”.
Predigerita: come nei documentari sui piccoli degli uccelli. Mamma uccello premasticava quel pappone per i piccoli che aspettava a becco aperto (anche i rondoni fanno così, immagino). Che ci voglia una ricorrenza a ricordare l’effimero (l’accento d’eterno, volevo dire) è discutibile. Soprattutto se calcata dalle parole del poeta; uno finisce per distrarsi tra metafore sineddoche e roba simile perdendo di vista l’oggetto.
“Nutriamo depressioni e sensi opprimenti del limite, nell’arte spesso esibiamo corpi in preda ad anatomie o autopsie”. Attenzione: ha usato il plurale anche per l’arte: esibiamo, ha detto, insinuandosi senza timore nella categoria “arte”.
“Fissata in un tempo in cui non c’erano giornali e tv, la ricorrenza della memoria dei defunti arriva a ricordarci la notizia della nostra stessa morte, che per così dire inizia e più ci duole in quella dei nostri amati. Arrivava sui calendari e oggi sui giornali la notizia che portiamo scritta nelle ossa, nel correre del sangue, tra le linee della mano: siamo qui provvisori. Siamo meno di un soffio: cosa avrebbero dovuto titolare oggi i giornali”. Come non considerarlo un artista? Nonché fine giornalista: tutti gli altri hanno bucato la notizia; il poeta no, lui ci avverte, oggi, di tale imminenza. Ci ammonisce. E forse tra qualche riga ci farà anche un predicozzo. Ci scommetto.
“La morte è un problema della vita. Un laicissimo e religioso problema della vita”: è laico o religioso? Ah, il poeta gioca con gli ossimori. Le domande sulla morte sono imperdibili – ancorché incomprensibili. Almeno ad una prima lettura.
“Siamo quasi niente. La morte dunque è la conferma del nostro niente? O al contrario la conferma, del nostro esser ‘quasi’ niente? In altre parole, è una sorta di coperchio finale che cala sulla nostra esistenza breve o lunga, e sigilla nel nulla tutto quel che abbiamo vissuto e sentito? O è una specie di accento finale, di intonazione ultima data alla vita, di accordo trovato tra il tempo e l’eterno, tra il finito e l’infinito? Mille e mille sono i modi con cui gli uomini hanno immaginato di trovare questo accordo. Mille i modi con cui hanno cercato di modulare questo accento, di lanciare il ponte tra tempo e durata oltre di noi. Modi religiosi e modi idolatri” (modi idolatri?). Ma se la morte è un coperchio (e vai con i sinonimi poetici) come fa a diventare un accordo? Nel finale, speriamo, la soluzione.
“Oggi prevale la cura della fama, come se essa piccola o grande che sia, assicurasse un merito alla vita. Durare sì, nelle chiacchiera degli uomini o nelle intitolazioni delle strade. I famosi sembrano i più fortunati e forti tra gli uomini. Ma ‘l’uom s’etterna’ solo perché la sua fama dura oltre la sua fine? O forse, come ha espresso Dante, la fama è la preoccupazione un po’ isterica di intellettuali come Brunetto Latini, una finta, una malacopia dell’eterno? Solo l’incontro con Beatrice, con una presenza amata e piena di grazia, introduce l’uomo a sperimentare la vertigine e il mistero buono dell’al di là, dell’eterno che inizia nel tempo e ci chiama. Senza quell’incontro, la memoria dei morti diventerebbe solo un incubo, un farsi amaro sangue, un’ombra da cui dopo breve sosta fuggire, come nelle struggenti epigrafi antiche.
Invece oggi li ricordiamo, i nostri cari morti, con dolente desiderio. Sapendo che l’aggettivo cari è più importante e duraturo di quell’altra parola là accanto”.
Le intitolazioni delle strade sono in effetti il sogno di molti, e chi non sarebbe pronto a barattare qualcosa cui tiene molto con una futura intitolazione di una strada? Però io mi chiedo: questo eterno allora che cos’è? La strada non va bene; che cosa serve? La presenza amata? Beatrice sarebbe una consolazione per i nostri amici che hanno tirato le cuoia? Il fatto di essere “cari” non basta mica a illuderci che non siano morti. Uno può essere “caro” e morto; può anche essere molto molto “caro”, e molto morto però. La dolente nostalgia non è consolata. E come potrebbe? Come fa il poeta a pensare di abbindolarci con questi giochetti scemi? Nemmeno sintatticamente regge quanto il poeta ci ha scritto per ricordarci che dobbiamo morire, figuriamoci se funziona a convincerci che non dobbiamo preoccuparci perché tanto siamo eterni e pure i nostri cari sono eterni e anche se non li vediamo da anni e non ci diamo pace, in realtà loro stanno molto meglio di Mazzini, Cavour e Kant (che c’avranno pure una strada, ma forse si sono lasciati sedurre dalla fama). Poeta, tu citi i tuoi avi; io mi trovo a risponderti che preferisco una illacrimata sepoltura (confido nella tua cultura almeno scolastica e non mi spingo oltre) a queste idiozie. Grazie per il monito comunque.

sabato 20 ottobre 2007

L’insostenibile leggerezza dell’idiozia

Il poeta è davvero grullo e non meriterebbe molta attenzione se non fosse che il rischio che seduca con le sue funamboliche costruzioni sintattiche è troppo elevato per non tentare una resistenza (Se il padre alza le braccia date a noi un po’ di quel peso, Avvenire, 19 ottobre 2007). Attacca in cotanto modo, tra indignazione e vette poetiche irraggiungibili:

Eluana come Terry. Fiori insopportabili di vita. Nel loro silenzio, nella loro infermità.
Ragazze come cespi di fiori e di spine che ci feriscono, ci affascinano. Ci inciampano il cammino. Finché arriva qualcuno, un giudice, una corte – qualcosa sempre senza faccia, senza mandato popolare, ma eletto da colleghi, da caste come si dice oggi – a dire: staccate la spina, smettete di darle da bere.
Invece che dire: aiutiamo se la famiglia non ce la fa. Invece che dire: è un mistero la vita così, ma vita è, sosteniamola finché si deve e riesce, si arriva ad equiparare di fatto l’alimentazione artificiale a un accanimento terapeutico. E si dice: sospendete l’acqua, il cibo, muoia di fame lei che nemmeno un tremendo incidente aveva spento del tutto.
Messa così sembra che uno senza faccia (e senza cuore, vogliamo dirla tutta?) si sia presentato, senza che nessuno lo avesse invitato, al capezzale di Eluana per dirle che le scorte di acqua e cibo sono finite. Ed ecco allora il poeta inalberarsi in una difesa accorata di Eluana ma anche della vita che è un mistero, così come misterioso è il luccichio dell’intelligenza che non a tutti è toccata in sorte. Ah!, misteriosa è l’esistenza; ma un po’ meno il volere della ragazza. E come spesso accade la richiesta da parte della famiglia viene interpretata come un gesto di disperazione (la famiglia non è disperata per le ragioni che il poeta sospetta, e comunque non sembra avere chiesto la pietà di chicchessia), non come la richiesta di rispettare i desideri di Eluana, già violati da un incidente, e ora ignorati da tutti quelli che blaterano sul mistero dell’esistenza e sulla sacralità della sopravvivenza.
Ma il poeta pone domande articolate e spaventosamente superficiali; il poeta, se avesse qualche conoscenza elementare, eviterebbe di interrogare e interrogarsi:
crediamo che Eluana sia solo quel che noi vediamo di lei? Come mai siamo così spietati proprio verso i più deboli? In genere, delle persone pensiamo sempre che ci sia un segreto nella loro personalità, un mistero, qualcosa che ci sfugge dietro le apparenze.
Interi rotocalchi effondono inchieste, test, e articolesse sui misteri della personalità di vip, mezzi vip etc etc. Invece con questo genere di ammalati diventiamo immediatamente superficiali. E pensiamo che loro siano ‘solo’ quello che vediamo, che misuriamo. E allora Eluana, Terry diventano solo un sacco di roba già morta, inutile da irrigare. Come una terra da abbandonare. E come accade ogni volta che l’amore perde, la parola passa ai giudici.
Etc etc. non me lo sarei aspettato da un poeta. Ma ci passiamo sopra perché la sparata sul giudice supremo che segue è da non perdere. Strabiliante.
Alcuni di loro, come nel caso della Cassazione, naturalmente si prendono il diritto di dire quali sono le condizioni perché una vita sia da considerare tale.
È il sogno di ogni giudice supremo poterlo fare. Giudicare su vita e morte. Un sottile fascino. Magari mascherato sotto l’esibizione di un linguaggio forbito, pieno di volute in giuridichese e di buoni sentimenti. Ma che crolla di fronte a un argomentare serio.
Così, i giudici della Cassazione si mettono al posto del legislatore, e aprono falle, mettono condizioni e aggirano i fatti. Seminando una certa inquietudine. Alla soddisfatta ambizione di certi giudici, oppongo la semplicità del popolo. Di coloro che se vedono uno che fa fatica, provano ad aiutarlo. E dunque di fronte alla vita difficile di Eluana, e a quella eroica dei suoi, dico: date a noi un po’ di quel peso. Datelo a me. Vediamo come fare ad aiutare, invece che far morire di fame (di fame!) la ragazza Eluana che era bella era forte, e ora è bella d’ulteriore beltà e forte di una forza non nostra che in vita la tiene. È comprensibile che il padre non ce la faccia più.
Non è solo grullo, mi sa. L’argomento serio che farebbe crollare il giudice supremo non è chiaro quale sia. Perché il legislatore è immacolato, nemmeno. La semplicità del popolo? Ehi, poeta, ma sei mai andato a parlare con il popolo (strana entità apparentemente compatta e monolitica)? Non ti viene la tentazione di chiedere ragione di quella fatica? No, tu tendi cristianamente una mano, senza porti il dubbio che non è questo l’aiuto che l’affaticato desidera. Ma non importa, hai deciso tu come aiutarlo, e paternalisticamente non accetti confutazioni. Sul morire di fame (!) abbiamo già detto. Il poeta cavalca le emozioni prive di contenuto. Sai qual è la forza che tiene in vita Eluana? Non immaginare misteri insondabili, le spiegazioni spesso sono molto, molto più semplici.
Nessuno lo giudichi. Ma nemmeno si lasci morire una ragazza. Lasciar la decisione ai giudici, è un modo tremendo per lavarsi la coscienza, per non farsi carico di questo ‘scandalo’ della vita, che resta anche quando non è come la desideriamo. Si facciano avanti piuttosto i medici, coloro che hanno responsabilità diretta. Ci dicano loro, che hanno le mani e la coscienza coinvolta con il caso se si tratta di accanimento o no. Ma se è cura, la si faccia. Se vogliono altro – i medici, gli amici – la si chiami col nome vero, toglier la vita. E pensino se è cosa da medici, da amici. Non consegniamo Eluana a uno sterile dibattito di carte.
Ognuno faccia la sua parte. Se il padre alza le mani, esausto, parli il medico, e parlino gli amici. E parlino coloro che magari sono disposti ad ‘adottare’ una vita così. Io tra questi metto la mia firma.
L’abuso di anacoluti gioca brutti scherzi al poeta: non sono i giudici a decidere. Chi è che si laverebbe la coscienza, poeta? I medici hanno già parlato riguardo alla condizione di Eluana, e quanto all’accanimento sarebbe interessante includere nella valutazione i desideri di Eluana. Presunti, ricostruiti, ma pur sempre i suoi desideri, unica bussola possibile per prendere una decisione.
Parlare della stanchezza del padre è osceno, ridicolo e crudele come solo gli stupidi sanno essere. Senza avere consapevolezza dell’enormità delle loro idiozie. Firmatario di uno scempio, poeta, faresti meglio a tacere o a cominciare a preparare gli auguri in rima per il prossimo Natale.

giovedì 16 agosto 2007

La razza maschia e il femminile sigillo di vastità

Il poeta si interroga sulla violenza contro le donne (Quel sigillo di vastità che ci muove all’ira, Avvenire, 15 agosto 2007). Non contro “la donna”, ci tiene a specificare, perché sarebbe un linguaggio troppo ideologico e formale ma contro Chiara, Luciana e le altre (ne avrebbe potuto elencare almeno qualche altra vista la sua premessa).
Il poeta domanda:

Cosa scatta in un uomo, come me, come chiunque tra coloro che leggono per diventare da amante assassino, o da desideroso di una bellezza, suo violento e feroce distruttore?
Il corsivo è mio e il poeta ha omesso una preposizione semplice (“a”) che avrebbe semplificato la lettura ed evitato ambiguità, perché scritta così sembra – almeno ad una prima e forse annoiata lettura – che “amante assassino” sia la condizione di partenza, mentre la domanda sarebbe: cosa trasforma un uomo da amante a assassino? Ha anche pasticciato con le virgole, ma la poesia non si fa imbrigliare da regole asettiche e offensive.
Veniamo al tentativo di risposta.
Ma nel silenzio della nostra coscienza, di noi uomini, razza maschia, qualcosa forse possiamo confessarcelo. Qualcosa che non sia solo un luogo comune. […] Diciamo che a volte nelle donne qualcosa ci fa rabbia. Diciamo che qualcosa a volte ci può fare arrabbiare. Intendo le volte che vorremmo possedere il loro fascino e il mistero della loro personalità, la loro vasta natura che ospita e nutre la vita. Le volte che qualcosa di loro ci sfugge. C’è qualcosa in loro, nella loro natura, che non si riduce all’immagine che ce ne facciamo. Ai desideri che ne abbiamo. C’è nelle donne qualcosa che sfida la tendenza al potere, al possesso che segna gli uomini. C’è come un terreno inarrivabile. Una zona che continuamente eccede la misura che vogliamo. Che sfugge alle mani delle nostre previsioni e delle nostre voglie. C’è nella loro natura, per come Dio le ha fatte, uno spazio così immenso, così straordinario che vorremmo possedere e invece si dimostra più grande dei nostri sforzi e della nostra presunzione. Dio, per così dire, le ha fatte più grandi di quel che vorremmo. E allora scatta l’ira. Che è contro le donne, e in un certo senso, contro Chi le ha fatte così. Il possesso amoroso, o perfino solo il possesso sessuale, a volte sono vissuti purtroppo come potere di noi, uomini, su di loro. Una formidabile macchina che produce immagini, stili, messaggi di ogni genere, eccita questo genere di pensiero. Macchina le cui leve sono spesso in mani maschili, ma a cui spesso anche donne accondiscendono in cambio di soldi e di fama. La ira di noi uomini, che esplode in troppi episodi, tragici e manifesti, ma anche occulti e subdoli, si nutre da questo odio che ci prende per la grandezza delle donne. Per quel sigillo di vastità che Dio ha messo in loro. Per quel loro meraviglioso essere più profonde della immagine che ce ne facciamo. Non a caso Dio ha scelto una donna, che oggi si festeggia, per trovare uno spazio adeguato al Mistero della sua incarnazione. Ogni offesa alla donna è, si può dire, un’offesa a questa stessa preferenza di Dio. A questo suo sapere come sono fatte. Diciamocelo, che vorremmo noi uomini essere il loro dio. Finendo per essere così, un dio violento. O meglio divenendo bestie.
Traduzione in prosa: Dio ha fatto le donne più fighe della razza maschia, gli uomini se la prendono e le aggrediscono a volte fino a ucciderle, questa grandezza delle donne si rivolge contro di loro e contro Dio stesso (responsabile di averle fatte troppo grandi). Questo sentimento è peggiorato da una “macchina” spinta da papponi e troie. Picchiare una donna significa offendere Dio. Gli uomini vorrebbero essere il dio (con la “d” minuscola) delle donne. Gli uomini finirebbero così per diventare un dio violento. O meglio, bestie. (Non è che sia molto più chiaro del testo poetico.)

Dubbi: che significa essere più profondo di una immagine? Come si sigilla la vastità, con la ceralacca?

venerdì 18 maggio 2007

E se lo dice il poeta...


Davide Rondoni (Il popolo del passeggino e la sua forza prepolitica, Avvenire, 18 maggio 2007):

Chi ha un passeggino non ha un’idea, ha una bocca da sfamare. Ha un amore da compiere. Un dolore da temere, un futuro da tremare. Ridurre tutto questo a lotta politica è banale, è becero.
Mancate rime a parte (ma mica vorremmo ridurre la poesia alle fanciullesche rime, alle filastrocche impomatate, agli accordi adatti ad orecchie poco raffinate?) sembra che si voglia lasciar intendere che un essere umano non possa fare due cose insieme (non necessariamente contemporaneamente): sfamare un infante e possedere del raziocinio, essere un genitore ed un animale pensante. Tutto sommato c’è chi non riesce a fare nemmeno una cosa da sola. Di cosa ci lamentiamo?
Addirittura accusare di portare i bambini a una manifestazione per la famiglia (mica per la pace in Darfur o per lo spinello libero) è un capolavoro di fibrillazione cerebrale.
La fibrillazione cerebrale suddetta (condivisibile o meno) potrebbe riguardare il fatto di portare bambini ad una manifestazione non in base all’oggetto della manifestazione, ma per il fatto stesso di portarceli. Condivisibile o meno, appunto, ma non perché si manifesta “per la famiglia” automaticamente tutti i componenti familiari fanno parte a pieno titolo della manifestazione. Chissà che cosa ne penserebbero i bambini trascinati nella folla sbandierante. Qualcuno ha provato a chiederglielo?

giovedì 8 febbraio 2007

Idiota dice il test


Confesso la mia ignoranza in poesia. E prima di ieri sera (mi vergogno un po’) non conoscevo l’esistenza di Davide Rondoni, illustre nostrano poeta.
Nella mia meschinità tento di rimediare alla voragine di imperizia e lo cerco su Google. Ecco il suo sito. E le sue lucenti parole poetiche calmano il mio animo esacerbato. Scegliere la più bella è un’ardua impresa. Ogni scelta è una rinuncia, ogni scelta è un tradimento verso il non scelto.
Magari potremmo fare una rubrica permanente. E allora questa sarà soltanto la prima poesia, e non la prescelta a detrimento delle altre.

Scopro anche che non solo è poeta, ma saggista, narratore, teatrante. E molto altro ce lo racconta lui in “Per presentarmi”.
Della nonna Bruna dice “gran madre” (vabbeh, è un poeta, usa francesismi). E poi: “Ho iniziato a scrivere poesie a 8 anni. Non mi sono ancora fermato”.
“Era inverno, venne il primo verso: ‘Ecco arriva l’inverno/ i bambini accendono il termo’. Grande”. (Se lo dice da solo. È un poeta.)
“Ora la mia casa è a Bologna, città bella e difficile, autoritaria come una cicciona non più brillante e non più molto tonica. Ma bella, comunque. Giro molto, anche lontano. Se è ‘molto lontano’ prendo l’aereo. Ma faccio molti chilometri in automobile.
Un filologo o un critico di professione forse potrebbe tirare richiami intratestuali. Io ho continuato a tirare il fiato da non so dove, da quale pozza buia di aria gratis”.

Ma bando alle chiacchiere, ecco la poesia.

Incinta dice il test
Non chiamarlo, si dilegua
nella sua incoscienza paterna
è già una parte del tuo ricordo
svanisce come l’odore di bruciato,
un fetore, un conato di vomito,
la cena indigesta, è già una ruga
sul tuo volto, coperta
da uno strato di trucco.

È un gonfiore
che ha profusione di vento,
inebria come una cantilena
che ti addormenta e ti culla nel sonno.
Mio amante traditore e pieno di promesse,
la sua impostura ha segnato il cuore,
amara rimembranza di una
incontro fugace. La felicità
è il passato, la ripiega all’incubazione.

La versione vera è qui dopo Bartolomeo e Adieu II (non ho ancora deciso quale faccia più schifo tra le due versioni; il fatto che il Poeta si prenda sul serio va a suo svantaggio...)

Invece quella dell’inverno/termo era proprio sua.

(Per la fotocomposizione grazie ad Alessandro Capriccioli)