sabato 3 novembre 2007

Eterna consolazione

Cominciare la giornata con l’editoriale del poeta è una esperienza d’eterno (Siamo soffio accento d’eterno, Avvenire, 2 novembre 2007). Un editoriale sulla morte, che se siete superstiziosi passate oltre. Anche perché una volta letto il titolo è possibile capire che aria tira e leggere oltre è superfluo; forse dannoso.
Anche se la scelta degli aggettivi è sempre accurata da parte del poeta, così come quando attacca dicendo che “Oggi la notizia è la morte. Ma non come tutti gli altri giorni. Quando la morte di uno o di tanti ci arriva come notizia, violenta e penosa, e pur così consueta, triturata e quasi predigerita per il fatto stesso d’esser divenuta titolo o articolo sui giornali o in tv. No, oggi la morte arriva come notizia che ci riguarda.”.
Predigerita: come nei documentari sui piccoli degli uccelli. Mamma uccello premasticava quel pappone per i piccoli che aspettava a becco aperto (anche i rondoni fanno così, immagino). Che ci voglia una ricorrenza a ricordare l’effimero (l’accento d’eterno, volevo dire) è discutibile. Soprattutto se calcata dalle parole del poeta; uno finisce per distrarsi tra metafore sineddoche e roba simile perdendo di vista l’oggetto.
“Nutriamo depressioni e sensi opprimenti del limite, nell’arte spesso esibiamo corpi in preda ad anatomie o autopsie”. Attenzione: ha usato il plurale anche per l’arte: esibiamo, ha detto, insinuandosi senza timore nella categoria “arte”.
“Fissata in un tempo in cui non c’erano giornali e tv, la ricorrenza della memoria dei defunti arriva a ricordarci la notizia della nostra stessa morte, che per così dire inizia e più ci duole in quella dei nostri amati. Arrivava sui calendari e oggi sui giornali la notizia che portiamo scritta nelle ossa, nel correre del sangue, tra le linee della mano: siamo qui provvisori. Siamo meno di un soffio: cosa avrebbero dovuto titolare oggi i giornali”. Come non considerarlo un artista? Nonché fine giornalista: tutti gli altri hanno bucato la notizia; il poeta no, lui ci avverte, oggi, di tale imminenza. Ci ammonisce. E forse tra qualche riga ci farà anche un predicozzo. Ci scommetto.
“La morte è un problema della vita. Un laicissimo e religioso problema della vita”: è laico o religioso? Ah, il poeta gioca con gli ossimori. Le domande sulla morte sono imperdibili – ancorché incomprensibili. Almeno ad una prima lettura.
“Siamo quasi niente. La morte dunque è la conferma del nostro niente? O al contrario la conferma, del nostro esser ‘quasi’ niente? In altre parole, è una sorta di coperchio finale che cala sulla nostra esistenza breve o lunga, e sigilla nel nulla tutto quel che abbiamo vissuto e sentito? O è una specie di accento finale, di intonazione ultima data alla vita, di accordo trovato tra il tempo e l’eterno, tra il finito e l’infinito? Mille e mille sono i modi con cui gli uomini hanno immaginato di trovare questo accordo. Mille i modi con cui hanno cercato di modulare questo accento, di lanciare il ponte tra tempo e durata oltre di noi. Modi religiosi e modi idolatri” (modi idolatri?). Ma se la morte è un coperchio (e vai con i sinonimi poetici) come fa a diventare un accordo? Nel finale, speriamo, la soluzione.
“Oggi prevale la cura della fama, come se essa piccola o grande che sia, assicurasse un merito alla vita. Durare sì, nelle chiacchiera degli uomini o nelle intitolazioni delle strade. I famosi sembrano i più fortunati e forti tra gli uomini. Ma ‘l’uom s’etterna’ solo perché la sua fama dura oltre la sua fine? O forse, come ha espresso Dante, la fama è la preoccupazione un po’ isterica di intellettuali come Brunetto Latini, una finta, una malacopia dell’eterno? Solo l’incontro con Beatrice, con una presenza amata e piena di grazia, introduce l’uomo a sperimentare la vertigine e il mistero buono dell’al di là, dell’eterno che inizia nel tempo e ci chiama. Senza quell’incontro, la memoria dei morti diventerebbe solo un incubo, un farsi amaro sangue, un’ombra da cui dopo breve sosta fuggire, come nelle struggenti epigrafi antiche.
Invece oggi li ricordiamo, i nostri cari morti, con dolente desiderio. Sapendo che l’aggettivo cari è più importante e duraturo di quell’altra parola là accanto”.
Le intitolazioni delle strade sono in effetti il sogno di molti, e chi non sarebbe pronto a barattare qualcosa cui tiene molto con una futura intitolazione di una strada? Però io mi chiedo: questo eterno allora che cos’è? La strada non va bene; che cosa serve? La presenza amata? Beatrice sarebbe una consolazione per i nostri amici che hanno tirato le cuoia? Il fatto di essere “cari” non basta mica a illuderci che non siano morti. Uno può essere “caro” e morto; può anche essere molto molto “caro”, e molto morto però. La dolente nostalgia non è consolata. E come potrebbe? Come fa il poeta a pensare di abbindolarci con questi giochetti scemi? Nemmeno sintatticamente regge quanto il poeta ci ha scritto per ricordarci che dobbiamo morire, figuriamoci se funziona a convincerci che non dobbiamo preoccuparci perché tanto siamo eterni e pure i nostri cari sono eterni e anche se non li vediamo da anni e non ci diamo pace, in realtà loro stanno molto meglio di Mazzini, Cavour e Kant (che c’avranno pure una strada, ma forse si sono lasciati sedurre dalla fama). Poeta, tu citi i tuoi avi; io mi trovo a risponderti che preferisco una illacrimata sepoltura (confido nella tua cultura almeno scolastica e non mi spingo oltre) a queste idiozie. Grazie per il monito comunque.

1 commento:

Anonimo ha detto...

"Oggi prevale la cura della fama, come se essa piccola o grande che sia, assicurasse un merito alla vita. Durare sì, nelle chiacchiera degli uomini o nelle intitolazioni delle strade."

...o nell'intitolazione della stazione ferroviaria di Roma:
http://redazione.romaone.it/4Daction/Web_RubricaNuova?ID=82588&doc=si

...o di qualche aeroporto a scelta:
http://www.google.com/search?hl=it&client=opera&rls=it&hs=Kza&sa=X&oi=spell&resnum=0&ct=result&cd=1&q=%22aeroporto+giovanni+paolo+ii%22&spell=1