domenica 9 aprile 2006

Amore, handicap

Sul New York Times di qualche settimana fa è comparso un articolo sul tema dell’aborto di feti malformati (Elizabeth Weil, «A Wrongful Birth?», 12 marzo). L’autrice, per qualche motivo, preferisce chiamare questa pratica «termination», e parla dei problemi etici che pone in questo modo:

The reasons to oppose termination are both obvious and subtle and not necessarily tied to abortion views in general. (The question of abortion rests on a single issue: is it O.K. to destroy a potential life? Termination involves an infinite number of heartbreaking queries that boil down to this: what about this life in particular?) Some argue that our desire not to raise impaired children is based on prejudice. Others claim that a choosy attitude toward fetuses brings a consumerist attitude toward childbearing and undermines the moral stature of the family. Still others maintain that the act of terminating impaired children drags us into a moral abyss – or its opposite, that raising children with impairments increases our humanity.
Ma subito dopo aggiunge:
Opposing this, of course, is the plain fact that a healthy newborn is the best outcome – what every parent wants. No reasonable person would choose sickness over health, and we seem to have the ability to choose.
Cipiglio farisaico, perversione politicamente corretta, furia ideologica; valori vitali, buonsenso, salute mentale. Sappiamo bene da che parte stare.

Amor fati?
Ma l’arte della colpevolizzazione santimoniosa può raggiungere vette raffinate. Sempre nell’articolo della Weil:
The moral quandary we find ourselves in pits the ideal of unconditional love of a child against the reality that most of us would prefer not to have that unconditional-love relationship with a certain subset of kids. “I think the reason that this topic is as loaded and painful as it is,” says Adrienne Asch, a professor of bioethics at Yeshiva University in New York, “is that prospective parents want to think that they are open to loving whomever comes into their families, and they don’t want to think that they aren’t.”
Un argomento che si sente spesso, in una forma o nell’altra; ma non per questo meno fallace. Perché, checché ne dica la professoressa Asch, non c’è alcuna contraddizione tra il desiderio di un figlio sano e l’amore per un figlio malato. La stessa Elizabeth Weil ce lo mostra in forma quasi di epigramma quando, raccontando le vicende dei coniugi Branca, genitori di un bambino gravemente disabile, inserisce questa osservazione:
The Brancas love the son they wish they hadn’t had.
Suona paradossale, e non lo è per nulla: se siamo esseri umani decenti non possiamo non odiare la malattia, non possiamo non amare il malato (fin dove le nostre forze non si spezzano, almeno). Eppure l’abbiamo sentito ai tempi del referendum sulla legge 40/2004, e lo sentiamo ancora oggi: la selezione embrionale e l’aborto terapeutico presuppongono l’odio per il diverso, l’intolleranza per chi non è perfetto. E invece temo che sia proprio chi fa questi ragionamenti a presupporre spesso, magari inconsapevolmente, ciò che condanna: che si possa amare solo chi non ha difetti.

«Papy!»
Qualche tempo fa tornavo a casa mia su un treno locale. Una bambina di circa dieci anni sedeva sul sedile, di fronte a me e a suo padre. Vestita con un abito multicolore, in cui predominava il rosso; irrequieta, dondolava le gambe e non finiva più di far domande al suo genitore, e intanto lo chiamava: «Papy!», «Papy!»; sorridente, estroversa, allegra, oggetto dei sorrisi di tutti i passeggeri; bionda, graziosa – nonostante i segni inequivocabili della sindrome di Down dipinti sul volto. Se in quel momento (e ancora adesso) mi fosse stato chiesto di scegliere se avere per figlio quella bambina o un bambino indeterminato ma sano, penso che avrei scelto lei senza esitare. Mi contraddico? In realtà no, anzi: è pur sempre, questo, il desiderio di un figlio con le migliori doti possibili. Ma se la scelta fosse tra un qualsiasi bambino malato e un qualsiasi bambino sano, esattamente alla pari, allora sarei inumano a scegliere la malattia, o anche a rifiutarmi di scegliere. E ancora più inumano sarebbe chi volesse coartare la mia scelta.

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