domenica 16 aprile 2006

Secondo il CNB non bisogna sospendere i trattamenti di alimentazione e idratazione artificiali nei pazienti in stato vegetativo

Nell’ottobre 2005 Salvatore Crisafulli (Sveglio dopo il coma: sentivo tutto, Il Corriere della Sera, 5 ottobre 2005), in coma da due anni dopo un incidente stradale, si è risvegliato e ha pronunciato qualche parola. L’avvenimento meriterebbe soltanto una composta felicità se non avesse sollevato un dibattito confuso e non fosse diventato un pretesto per spostare l’attenzione sull’eutanasia. È privo di senso parlare di coma senza entrare nel merito delle condizioni specifiche; sarebbe come parlare di mal di pancia pretendendo di annullare le differenze tra tutti i mal di pancia possibili.
Hanno detto: “Se Crisafulli si è svegliato dal coma, allora non si deve mai perdere la speranza”. Ma lo spazio della speranza può essere tracciato soltanto da una valutazione medica: non basta una approssimativa appartenenza allo stato di coma. In questo caso lo stadio di coma concedeva la speranza di un risveglio; al contrario, esistono stadi di coma dai quali non è mai possibile emergere. Ma c’è di più. Questo risveglio ha offerto una buona occasione per sostenere il divieto di sospendere i trattamenti di alimentazione e idratazione artificiali nei pazienti in stato vegetativo, anche in presenza di una precisa dichiarazione di volontà del paziente stesso. Così sentenzia il documento approvato dal Comitato Nazionale di Bioetica: un paziente in coma deve sempre essere nutrito e idratato, anche se in precedenza aveva esplicitamente rifiutato una simile prospettiva; anche se i suoi cari esigono che questa volontà sia rispettata; anche se i medici giudicano la prosecuzione dei trattamenti una inutile agonia. Ma non eravamo liberi di decidere se essere curati oppure no?
La soluzione proposta dal Comitato sembra astuta: sarebbe legittimo imporre i trattamenti di alimentazione e idratazione in quanto non sono atti medici. A ben guardare, però, è una trovata fragile e inconsistente. La dimostrazione della natura non medica dell’alimentazione artificiale, secondo il presidente del Comitato di Bioetica Francesco D’Agostino, è facile: i pazienti in stato vegetativo possono essere nutriti e idratati anche in casa e non necessariamente in ospedale; questo significa che non sono atti medici, bensì di assistenza. In altre parole, non ci troviamo di fronte ad un possibile accanimento terapeutico, ma solo di fronte ad un accanimento che potremmo definire alimentare o assistenziale. Davvero i sostenitori di questa linea coercitiva sono convinti che sia il luogo a determinare la natura di un atto? È possibile svolgere molti atti medici in casa, basti pensare all’assistenza domiciliare dei malati terminali.
Volendo anche concedere che l’alimentazione artificiale non possa essere considerata un atto medico, la questione allora diventa: possiamo essere obbligati a subire atti non medici contro la nostra volontà? O meglio, è legittima l’imposizione di atti che abbiano come unico scopo il nostro bene, e non la protezione di un bene comune o di altre persone? Io non credo. In nessuna circostanza possiamo essere obbligati contro la nostra volontà a subire un atto non medico per il nostro bene. Nessuno può decidere qual è il nostro bene. A meno che non fossimo disposti a subire tutte le possibili imposizioni per il nostro bene: le vacanze intelligenti, gli amici giusti, il lavoro adatto a noi. Tutto imposto, ma per il nostro bene. Valutato dagli altri.

* Pubblicato con il titolo Nutriti con la forza: quando la volontà non viene rispettata dal sistema sanitario, Il Giornale di Sardegna, 17 ottobre 2005.

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