Aldo Bianzino non era un tifoso e non era romeno. Non era nemmeno una giovane studentessa, né era al centro di qualche scandalo sessuale o politico. Era “solo” una brava persona, un uomo di 44 anni che viveva insieme alla sua donna, Roberta, e al loro figlio adolescente nelle colline umbre. Forse per questo non ha meritato molta attenzione da parte dei media. Più di un mese fa è entrato nel carcere di Capanne, a Perugia. Nemmeno due giorni dopo ne è uscito: morto. Avrebbe dovuto incontrare un magistrato per sapere se il suo fermo sarebbe stato convalidato. Aldo era in carcere per avere coltivato alcune piante di marijuana. Nonostante una sentenza della Corte di Cassazione avesse stabilito che la coltivazione per uso personale non sia reato e non ci fossero evidenze a dimostrare lo spaccio, Aldo è stato chiuso in una cella. Sembra che il medico legale abbia riscontrato lesioni al fegato, alla milza e al cervello. Sono state aperte due inchieste, per omissione di soccorso e per omicidio. Nonostante i numerosi appelli, una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia – troppo impegnato forse a litigare con Beppe Grillo – una manifestazione di cittadini che chiedono di sapere che cosa e successo e perché, nonostante tutto questo ancora non ci sono risposte. E le ipotesi sono tutte terribili: dal pestaggio all’indifferenza. Quando un uomo varca la soglia di un penitenziario, la sua stessa vita è affidata alle istituzioni. La morte di Aldo, e le circostanze oscure riguardo alla sua morte, fanno apparire l’istituto carcerario come un luogo di sopruso e di atroci ingiustizie.
(E Polis).
giovedì 22 novembre 2007
Caso Bianzino, quel silenzio insopportabile
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