Avvenire interviene, per bocca di Marina Corradi, sul caso della bambina inglese che grazie alla diagnosi genetica di preimpianto (PGD) nascerà libera dal rischio di una forma ereditaria di cancro al seno («La genetica batte il cancro. Ma è solo un’illusione», 1 luglio 2008, p. 2). Uno degli argomenti usati dalla Corradi merita decisamente una chiosa:
Anche volendo tacere su quei sei embrioni prodotti ed eliminati, a noi questa storia pare sommamente non razionale. Intanto il gene di cui si parla aumenta fortemente il rischio della malattia, ma non necessariamente la induce. Per contro, i tumori di origine ereditaria sono, secondo i genetisti, appena il 5 per cento del totale; quanto al resto, incidono cause ambientali e altre, che ancora non si è riusciti a scoprire. In sostanza, tutta la complicata e spietata alchimia dell’operazione attuata a Londra – sei cancellati, quattro sospesi nel gelo in attesa di un ignoto destino, uno avviato a una gravidanza di esito purtroppo non così certo, visto che l’analisi preimpianto può produrre danni – potrà nel migliore dei casi evitare a quella bambina “quel” tipo di cancro. Rimarrà, come per ogni essere umano che nasce, aperta la infinita gamma di “altri” cancri e altre malattie.Quel «5 per cento» buttato lì sembra, seppur confusamente, voler corroborare la successiva valutazione dell’esiguità del vantaggio conseguito nel caso particolare. Supponiamo ottimisticamente di eliminare per intero – grazie alla PGD o anche ad altre tecniche – quel 5% di casi ereditari: rimarrebbe pur sempre il restante 95%. Questo, pare di capire, è quello che Marina Corradi sta tentando di comunicarci. Ma in questo modo stiamo valutando l’efficacia della tecnica in termini di politica sanitaria complessiva, da un punto di vista per il quale può risultare razionale allocare certe risorse in un certo modo piuttosto che in un altro, allo scopo di ottenere un migliore risultato globale; e perdiamo di vista quello che l’intervento significa per i singoli: per quella bambina e la sua famiglia. Senonché pare proprio che la Corradi si stia rivolgendo ai genitori della bambina, visto che nel seguito scrive cose come «avrà pensato quella madre a quante incognite minacciano la vita di ogni uomo che nasce?», «Sembrano avere, quei genitori, concentrato tutte le loro paure su un conosciuto nemico; senza osare andar oltre».
È come, vivendo in un castello che abbia cento porte, arrovellarsi per sbarrarne una sola, sopprimendo, a questo scopo, anche delle vite umane. E le altre novantanove? L’aver sbarrato quell’una ci garantisce forse dai nemici appostati appena fuori dagli altro cento ingressi?
Qual è, allora, l’efficacia della PGD dal punto di vista individuale? In questo caso è stata valutata la presenza della forma mutante del gene BRCA1. Fra i portatori del gene malato il rischio di sviluppare il cancro al seno nel corso della vita è estremamente variabile, a seconda del particolare gruppo da cui provengono: le stime pubblicate vanno da un minimo del 46% a un massimo dell’87% di probabilità (rischio complessivo entro l’età di 70 anni). Il massimo delle probabilità (85-87%) si verifica fra portatori del gene mutato che provengono da famiglie con casi multipli di cancro al seno; la ragione risiede molto probabilmente nella presenza di altre mutazioni, ancora ignote, che agiscono di concerto con BRCA1 (per tutti i dati cfr. A. Antoniou et al., «Average Risks of Breast and Ovarian Cancer Associated with BRCA1 or BRCA2 Mutations Detected in Case Series Unselected for Family History: A Combined Analysis of 22 Studies», The American Journal of Human Genetics 72, 2003, pp. 1117-30). Ma la famiglia inglese di cui si parla è proprio una di quelle più a rischio, per cui dovremo prendere in considerazione la cifra massima. Il termine di paragone è costituito dalla probabilità di sviluppare la forma non ereditaria di cancro al seno nel corso della vita; anche qui il rischio è estremamente variabile, a seconda delle popolazioni umane in cui si riscontra. Adottiamo come approssimazione migliore il rischio globale nel Regno Unito, che è del 9,4% (fonte: P.D.P. Pharoah et al., «Polygenes, Risk Prediction, and Targeted Prevention of Breast Cancer», New England Journal of Medicine 358, 2008, pp. 2796-803). Il calcolo della riduzione del rischio rispetto al concepimento naturale è leggermente complicato (bisogna mettere in conto l’eterozigosità di uno dei genitori rispetto al gene mutante, la probabilità che una figlia senza mutazione sviluppi comunque il cancro, il tasso di errori della tecnica, etc.). La mia valutazione è una riduzione di cinque volte del rischio; sarebbe interessante sapere se per Marina Corradi è poca anche questa. E non stiamo prendendo in considerazione l’aumento del rischio di cancro alle ovaie che il mutante BRCA1 causa nelle donne e di cancro alla prostata negli uomini; l’aumento sproporzionato di cancro al seno in giovane età; l’angoscia di chi possiede una copia del gene mutante, anche se non svilupperà mai la malattia. Cosa ancora più importante, non stiamo considerando che con la PGD si riduce drasticamente il rischio anche per tutte le generazioni successive (salvo mutazioni insorte indipendentemente), in quanto il gene difettoso viene eliminato dalla linea di trasmissione, risparmiando analoghe future ordalie.
Sulle ulteriori argomentazioni della Corradi, che in sostanza sostiene che è inutile prevenire alcune malattie visto che non le possiamo prevenire tutte, lascio la risposta ad Azioneparallela (e a quella più colorita di Malvino, che si è occupato di dichiarazioni analoghe di Bruno Dallapiccola).
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