Sembra che sui temi della fine della vita ci sia un’unica cosa su cui tutti – laici e integralisti, scienziati e politici, atei clericali e cattolici liberali – si ritrovano d’accordo: il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Tutti, senza eccezione, lo condannano, anche se poi litigano furiosamente su tutto il resto, dal testamento biologico all’eutanasia, alla sospensione della nutrizione artificiale, etc.
Ma cosa significa «accanimento terapeutico»? Riusciamo a intuire, più o meno, a che cosa si riferisca l’espressione; ma definirla con esattezza richiede un certo sforzo. Dopo averci pensato un po’, potremmo uscircene con questa definizione: «l’accanimento terapeutico consiste in quei trattamenti medici, in assenza dei quali un paziente è destinato in breve tempo a morte certa, ma che sono inutili a prolungarne la vita, o la prolungano troppo poco per giustificare i loro altri effetti, o addirittura comportano un alto rischio di abbreviarla; oppure che risultano insopportabili al paziente, o causano il prolungamento di una condizione per lui insopportabile».
Cosa pensare di questo sforzo definitorio? Il risultato non sembra disprezzabile, visto che coincide abbastanza con la definizione data dal Codice di deontologia medica, che all’art. 16 parla dell’«Accanimento diagnostico-terapeutico» in questi termini:
Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.
È una definizione più sintetica e anche più generale (si applica infatti anche al di fuori delle situazioni di fine vita), ma per il resto coincide esattamente con la nostra. Se pensiamo poi ai casi che in questi ultimi tempi hanno fatto scalpore, e che molti hanno etichettato come esempi di accanimento, ci accorgiamo che ricadono in effetti abbastanza bene nella nostra definizione, in particolare nella seconda parte: Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, hanno tutti rifiutato (sia pure con modalità diverse) dei trattamenti per loro insopportabili.
Ma allora, se tutti si dicono contrari all’accanimento terapeutico, perché alcuni si sono affrettati a negare che in quei tre casi si potesse parlare di accanimento terapeutico? Per quanto riguarda Eluana Englaro, è vero, la loro strategia è stata di negare che i trattamenti a cui la ragazza è sottoposta si possano definire terapeutici (ci si può accanire su di lei, sembrano dire, purché non terapeuticamente...); ma nel caso della ventilazione artificiale – Welby e Nuvoli – è davvero difficile sostenere che non siamo di fronte a un trattamento terapeutico (anche se qualcuno ci ha provato); bisognerebbe allora negare questa qualifica anche all’installazione di un pacemaker... Non sarà allora che la loro definizione di accanimento è diversa dalla nostra?
Andiamo a vedere una delle fonti che ispirano chi è contrario per principio a «staccare la spina». Ma nel
Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 ci attende una sorpresa; ecco infatti come definisce l’accanimento terapeutico (§
2278):
L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.
Questa, però, con pochissime differenze, è praticamente la nostra stessa definizione! Una delle ipotesi in cui la sospensione delle cure è consentita, infatti, è proprio l’eccessiva onerosità per il paziente; non è un caso che alcuni cattolici difensori del diritto a rifiutare le cure invochino l’autorità del loro Catechismo. L’interpretazione ‘autentica’, ovviamente, sarà tutt’altra, ma intanto la lettera quello dice.
Qualcuno però dev’essersi accorto che il testo lasciava una via di uscita; ed è corso – per quello che era possibile – a chiuderla. Nel 2005 è stato pubblicato un
Compendio al Catechismo; il paragrafo dedicato alle cure mediche, però, più che compendiare emenda (§ 471):
Le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. Sono legittimi invece l’uso di analgesici, non finalizzati alla morte, e la rinuncia «all’accanimento terapeutico», cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo.
Qui sono successe due cose: innanzi tutto di cure onerose non si parla più, ma solo di cure sproporzionate – dizione alquanto più restrittiva; inoltre, cosa più importante, non abbiamo più una serie di casi disgiunti («procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie
o sproporzionate»; nella nostra definizione anche noi avevamo usato «oppure», e nel Codice deontologico si legge «e/o»). I casi adesso sono diventati congiunti: «procedure mediche sproporzionate
e senza ragionevole speranza di esito positivo»; le due condizioni devono essere valide
contemporaneamente. Il ventilatore artificiale è troppo gravoso? Spiacenti, si dà il caso che esso sia comunque utile – prolunga la vita di mesi o anni – e il paziente è obbligato dunque a sopportarlo con rassegnazione.
Questa accorta definizione è diventata quella corrente usata negli ambienti integralisti e ateo-clericali; essa ha un precedente in un documento prodotto nel 1996 dal Comitato Nazionale per la Bioetica,
Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, in cui così si definisce l’accanimento:
Trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica [corsivo mio].
È proprio vero che per evitare di essere raggirati bisogna stare attenti alle più piccole minuzie...
(Per una dimostrazione della superfluità del concetto di accanimento terapeutico, anche a causa delle ambiguità definitorie che abbiamo qui esaminato, rimando all’
articolo di Carlo Alberto Defanti che
Bioetica ha avuto l’onore di pubblicare alla fine del 2006.)