domenica 8 marzo 2015

Il mio mestiere è partorire tuo figlio


Per maternità surrogata (surrogacy) s’intende la pratica di portare avanti una gravidanza per qualcun altro. Non sarà quindi la gestante a crescere il bambino, che potrebbe essere figlio biologico di entrambi i genitori che lo alleveranno, di uno solo o di nessuno (in questi ultimi due casi si fa ricorso a un donatore e/o a una donatrice di gameti).

Ne esistono due modelli: quello commerciale, che prevede un compenso per la donna che porta avanti la gravidanza ed è legale in alcuni Stati degli Usa e in Canada, e quello altruistico, che in genere prevede un rimborso spese ed è permesso in Paesi come la Gran Bretagna, l’Australia e la Nuova Zelanda. In Italia non era vietato fino a qualche anno fa e nel 1993 fece molto discutere il caso di Novella Esposito, la cui madre si era offerta di portare avanti la gravidanza al posto della figlia che aveva subito l’asportazione dell’utero. Nessuno dei tentativi ebbe successo.

La discussione morale, come prevedibile, è molto accesa: si può scegliere di usare il proprio corpo per una cosa del genere? È una pratica intrinsecamente immorale? E, in caso di controversia, che strumenti abbiamo per cercare di risolverla? Che cosa succede se la gestante o gli aspiranti genitori cambiano idea?

Il caso forse più spinoso di tutti riguarda la decisione di interrompere la gravidanza in caso di grave anomalia fetale. Una scelta difficilissima già quando la donna incinta è e sarà anche la madre del nascituro, e che in caso di surrogacy si complica ulteriormente: chi sarà a decidere, la donna che porta avanti la gravidanza oppure quelli che saranno i genitori del nascituro? Si può acconsentire in anticipo all’aborto e si possono esaurire tutti i possibili scenari controversi? Chi può essere coinvolto nella decisione?

Ruth Walker e Liezl van Zyl (lectures dell’Università di Waikato, Nuova Zelanda) hanno cercato di rispondere in un articolo su «Bioethics», Surrogate Motherhood and Abortion for Fetal Abnormality. Sia il modello commerciale sia quello altruistico — scrivono — non sembrano riuscire a offrire risposte soddisfacenti a queste domande. Walker e van Zyl propongono allora una terza via: considerare la surrogacy come una professione, come fare l’infermiere o l’insegnante.

Prima di procedere però dobbiamo anticipare due possibili obiezioni: la prima riguarda l’analogia che non significa identità, perciò non si sta dicendo che portare avanti la gravidanza per qualcun altro sia come insegnare inglese ma si vogliono suggerire delle somiglianze; la seconda riguarda le condizioni per discutere davvero di maternità surrogata e non di schiavitù o sfruttamento. Ovvero della possibilità che una donna scelga liberamente di offrirsi come surrogata per un’estranea, per un’amica o una sorella.

La Lettura, Il Corriere della Sera, 1 marzo 2015.

21 commenti:

Unknown ha detto...

L’art. 3 della Carta di Nizza (Diritto all’integrità della persona) sancisce in modo secco il

divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro

A me non non è chiaro cosa avesse in mente quando ha cercato d’anticipare la risposta all’obiezione di chi volesse vedere un’identità e non un’analogia con un rapporto lavorativo standard (come quello in cui opera un’insegnante d’inglese). Comunque, anche avesse un senso, mi sembra evidente l’insanabile incompatibilità con la carta di Nizza. Già il titolo stesso del post e dell’articolo, in cui l’attività viene esplicitamente indicata come “mestiere”, non mi sembra dare nessuna speranza di poter aggirare la norma per questa strada.
Le devo riconoscere quanto sia apprezzabile sul piano dialettico il secondo tentativo di smarcarsi dall’obiezione di chi insistesse a volersi rifare al dettato della Carta di Nizza; infatti mette in campo amiche e sorelle, abilmente posizionate nella frase, in modo da rendere meno evidente il commercio con le estranee. Il libero dono potrà anche essere encomiabile, ma sappiamo bene che in realtà l’offerta tramite il dono è minimale e insufficiente alle esigenze del “mercato”. E d’altronde, lo scopo dell’articolo, non era proprio quello di indicare una possibile strada per risolvere il problema dell’offerta insufficiente tramite il mercato (quello con i quattrini che circolano)?

P.S. Le due autrici (ipotizzo che Liezl sia un nome femminile…) forse vanno scusate perché hanno pubblicato per una università neozelandese e potrebbero non avere nessunissima idea dell’esistenza della Carta di Nizza.

Giuseppe Regalzi ha detto...

In Germania la prostituzione è legale da diversi anni. Nessuno, a quanto ne so, ha mai sostenuto che questo fatto sia in contrasto con la Carta di Nizza. E mi pare che come uso del corpo umano la prostituzione non sia affatto da meno della maternità surrogata. Ne deduco che la Carta di Nizza va interpretata nel senso che proibisce la cessione di parti del corpo umano. La questione comunque andrebbe approfondita.

Unknown ha detto...

@Regalzi
Mi risulta che anche in Italia la prostituzione sia legale, mentre non lo è il suo sfruttamento. Non sarebbe certo la prima volta che una norma venga disattesa, ma ciò non renderebbe legittimo il comportamento contrario a meno che non la si modifichi.
L’interpretazione della frase non mi sembra fantasiosa perché non sarebbe costato molto scrivere “È fatto divieto di vendere parti del corpo umano”. Troppo crudo per le orecchie delicate dei nostri euroburocrati?
Prenderò il tuo messaggio come un augurio (tuo) perché l’evoluzione della normativa vada nel senso che ti piace.
Chi vivrà vedrà!

Giuseppe Regalzi ha detto...

In Germania oltre che legale la prostituzione è anche regolamentata in maniera piuttosto pignola (avrei dovuto essere più preciso). Sono legali anche i bordelli. L'ultima riforma è del 2002, e mi sembra strano che nessuno l'abbia considerata in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali quando questa è stata promulgata.

Unknown ha detto...

@Regalzi (bis)
Il confronto che proproni tra prostituzione e utero in affitto è stimolante e la tua analogia è praticamente perfetta!!!

P.S. Non so perché, ma mi sa che non concordi con l’uso del termine di “utero in affitto” e vorresti che usassi “maternità surrogata, ma il mio mi sembra decisamente più aderente alla realtà, soprattutto quando me la proponete come professione.

Giuseppe Regalzi ha detto...

1. Non ho usato un'analogia ma un argomento a fortiori;

2. non ho particolari remore a usare l'espressione "utero in affitto" e di certo non pretendo che non la usi tu;

3. mi sa che stai sviando il discorso...

Unknown ha detto...

@Regalzi
Il tuo può essere un argomento a fortiori solo grazie all’analogia forte esistente tra le due pratiche. In ambedue si hanno prestazioni del proprio corpo (e più specificamente della propria sessualità) da parte di un soggetto (normalmente il più debole economicamente) a vantaggio di altri soggetti i quali retribuiscono la prestazione fornita loro con danaro sonante (tanto). Se la Lalli mette in campo l’analogia con l’insegnate d’inglese, tu la surclassi di molto con un’analogia molto più centrata della sua.
Non siamo nati oggi e nessuno dovrebbe meravigliarsi del non rispetto da parte delle legislazioni interne di molti membri dell’Unione (Germania compresa) nei confronti di alcuni tra i sacri principi sfornati generosamente e a ripetizione dalla Comunità europea.
Comunque, è manifesta l’incompatibilità nei confronti della Carta di Nizza della proposta d’istituire una nuova figura di lavoratrice: la locatrice professionale dell’utero.
Qui la fantasia potrebbe essere creativa facendo un’altra analogia con il mercato della locazione abitativa dove si hanno i contratti 4+4 (anni), mentre per l’utero in affitto potremmo immaginare un 9+0 (mesi, ovviamente) se la consegna fosse prevista subito dopo il parto o un 9+6 per consentire un allattamento medio-corto o altro ancora.

P.S. Ho letto attentamente il post e i commenti: non mi pare proprio di di essere colui che voglia sviare il discorso. Mi sembra tutto centratissimo.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Beh, visto che a quanto pare è così facile non tenere conto della Carta di Nizza, vuol dire che qualche possibilità di istituire la nuova figura professionale in effetti c'è...

Ciao.

paolo de gregorio ha detto...

Il divieto di fare del copro umano e delle sue parti una fonte di lucro vale solo "in quanto tali". Nel caso della prostituzione, per esempio, forse varrebbe in un ipotetico caso astratto in cui l'esercente si sedi la mattina e si faccia svegliare la sera, senza sapere chi, quando e come ha usato il suo corpo lasciando un compenso. Nei casi canonici, non si sta parlando di uso del corpo in quanto tale poiché non ci è proprio dato escludere che si possa creare una connessione empatica, emotiva, umana, di coscienza, di solidarietà e perfino di odio. Quello che sia, ad essere in vendita non è il solo copro in quanto tale, ma casomai tutta una connessione fisico-psichica esclusiva.

Allo stesso modo, quando una donna dietro compenso si mette a disposizione per portare avanti una gravidanza non mette in vendita il solo corpo in quanto tale, ma mette in campo pensieri, attenzioni, empatie, azioni, abitudini quotidiane per nove mesi. Io non sono donna, ma sarei curioso di sapere quante donne che abbiano avuto figli si diranno d'accordo con l'opinione che la gravidanza sia un accidente del copro in quanto tale.

Unknown ha detto...

@paolo de gregorio
Mi sembra che non si abbia a disposizione una definizione acconcia di cosa significhi “in quanto tali” nel contesto della Carta di Nizza. È probabile che sia il frutto di centomila compromessi più uno per la sua approvazione.

Ma, per fortuna, noi non ne abbiamo bisogno in quanto ci hai pensato tu a darne una tua definizione implicita parlando di ciò che “circola” nei due casi. Solo che non si capisce se ci sia qualcosa di applicabile alla prostituta e non alla locataria di utero e viceversa. O per lo meno, non lo comprendo io. Saltiamo la prostituta sedata, visto che ci hai messo un “forse”, e poi mi sembra proprio una cosa un po’ confusa e fallimentare come prodotto commerciale.

Tutte le altre cose che indichi e che caratterizzano il “negozio” sono applicabili ad ambedue i casi: la connessione empatica, emotiva, umana di coscienza, di solidarietà o di odio. pensieri, attenzioni, empatie, azioni, abitudini (credo di aver copiato tutto). L’unica cosa realmente differente evidenziata da te è costituita dalla durata di nove mesi della gravidanza. È così rilevante? Lo è anche nel caso che la locatrice non incontri mai i conduttori del contratto d’affitto? Bisogna riconoscere che almeno nel caso della prostituzione è proprio impossibile l’adempimento del contratto senza che si realizzi un incontro ravvicinato, anzi molto ravvicinato, tra le parti interessate. E poi si sa che possono anche nascere relazioni molto più durature di nove mesi tra locatrice e conduttore.

paolo de gregorio ha detto...

@ Fra Diavolo

Per quanti compromessi siano stati fatti, ciò che sappiamo per certo è che non si è inteso vietare tout court di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro, poiché altrimenti l'espressione "in quanto tali" non avrebbe avuto motivo di esistere.

Penso che il mio pensiero sia chiaro, non mi sembra che sia stato respinto e il padrone di casa ha già mostrato di non voler insistere su questo tema, quindi integrerò una volta e spero che questo basti.

Se, come dovremmo, non possiamo intendere per prostituzione l'autorizzazione alla violenza sessuale, mi pare chiaro che solo una persona turbata potrebbe intenderla come contratto stipulato ai fini della cessione d'uso esclusivo del corpo e di null'altro, poiché in ogni momento ci sarà intenzionalità e complessità d'azione da parte di chi (scusate il termine) eroga la prestazione. In altri termini, il corpo è solo una componente dell'opera e quindi il contratto non viene attuato dal mero cedere il corpo in uso. Siccome quindi nell'affare entrano in gioco le succitate (ed eventualmente persino predominanti) attività relazionali, non può descriversi la prostituzione come uso del corpo in quanto tale come merce di scambio.

Il discorso è per certi versi simile nel caso di utero in affitto, non nelle modalità e pulsioni che entrano in gioco, ma certamente nell'aspetto di complessa intenzionalità. Come nel caso precedente abbiamo escluso la prostituzione come licenza alla violenza sessuale, allora allo stesso modo l'utero in affitto non può considerarsi come la messa a disposizione di un'incubatrice. Entrano in gioco altri fattori, determinanti, imprescindibili perché la gravidanza possa essere portata a termine, alcuni dei quali non hanno niente a che fare con la cessione del corpo o di sue parti. Quindi nel contratto vi è molto di più di un mero uso del corpo come merce di scambio, e quindi non può dirsi che tale merce è il corpo in quanto tale.

Se vuoi, te lo spiego meglio, perché per essere in regola basterà scrivere nel contratto:
1) Utilizzo dell'utero per nove mesi: gratuito;
2) Impegno ad un'alimentazione corretta ed abitudini salutari: €15 per diem;
3) Impegno ad una vita morigerata, e.g. regolarità orari sonno-veglia, attenzione costante per abbassamento livelli di stress: €20 p.d. ultimi cinque mesi;
4) Impegno ad un numero congruo di passeggiate, secondo le forze e senza eccedere: €5 p.d., oppure €10 all'ora;
5) Pasti: a carico del committente;
6) Medicine: a carico del committente;
7) Doglie: gratuito;
8) Travaglio: gratuito.
A richiesta:
9) raccontare storielle, terapie musicali, etc.: da concordare sul momento.

(Si noti che 2, 3 e 4 non riguardino le biologia della gestante più che del nascituro)

Giuseppe Regalzi ha detto...

Sono andato a guardare le spiegazioni della Carta di Nizza (che «non hanno valore giuridico e sono semplicemente destinate a chiarire le disposizioni della Carta»), che per la parte che ci interessa dell’art. 3 affermano: «I principi enunciati nell'articolo 3 della Carta figurano già nella convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina adottata nell'ambito del Consiglio d'Europa (serie dei trattati europei n. 164 e protocollo addizionale n. 168». Il riferimento è alla Convenzione di Oviedo, che in effetti all’art. 21 ha un testo praticamente identico a quello della Carta di Nizza: «Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto». Esiste a sua volta una spiegazione della Convenzione di Oviedo, di cui riporto i punti 131 e 132:

131. This article applies the principle of human dignity set forth in the preamble and in Article 1.
132. It states in particular that the human body and its parts must not, as such, give rise to financial gain. Under this provision organs and tissues proper, including blood, should not be bought or sold or give rise to financial gain for the person from whom they have been removed or for a third party, whether an individual or a corporate entity such as, for example, a hospital. However, technical acts (sampling, testing, pasteurisation, fractionation, purification, storage, culture, transport, etc.) which are performed on the basis of these items may legitimately give rise to reasonable remuneration. For instance, this Article does not prohibit the sale of a medical device incorporating human tissue which has been subjected to a manufacturing process as long as the tissue is not sold as such. Further, this Article does not prevent a person from whom an organ or tissue has been taken from receiving compensation which, while not constituting remuneration, compensates that person equitably for expenses incurred or loss of income (for example as a result of hospitalisation).


Non si può dire che faccia molta chiarezza, ma l’impressione è che confermi – almeno e silentio – che si sta parlando soltanto di cessione di parti del corpo umano. Mi pare che anche l’argomento di Paolo ne esca convalidato.

Unknown ha detto...

@paolo de gregorio, @Regalzi
E con la vendita degli ovociti, come la mettete? Non sono in quanto tali?

Giuseppe Regalzi ha detto...

Gli ovociti sembrerebbero non compresi nella spiegazione della Convenzione di Oviedo, che parla solo di organs and tissues proper, quindi non di cellule. Però la spiegazione non ha propriamente valore giuridico, quindi esiterei ad affidarmi al suo dettato su questo punto. Indubbiamente si tratta di parti del corpo umano, e sembrerebbero quindi rientrare nel dettato della Carta di Nizza; però a questo punto sorge spontanea una domanda: i gameti maschili come li consideriamo?
(Certo che appare qui evidente la follia di costituzionalizzare questioni come queste, che dovrebbero essere lasciate alla volontà del legislatore...)

Unknown ha detto...

@Giuseppe Regalzi, @paolo de gregorio
Credo che la chiusa del tuo ultimo messaggio (anche se tra parentesi) sulla follia di voler costituzionalizzare ciò che non dovrebbe esserlo (inpendentemente dell’opportunità o meno nei confronti della pratica dell’utero in affitto) giunga a proposito perché forse ci consente di parlare del fenomeno in quanto tale, senza la necessità di affannarsi a trovare il pezzo di carta che dà ragione a noi e torto al nostro interlocutore.

Ricominciamo da capo e mi sembra giusto ripartire dalle domande che ci pone la Lalli. La prima: « È una pratica intrinsecamente immorale?». La salterei perché credo sia impossibile trovare una risposta comune. tra noi e poi non è così importante sul piano sociale.

Vediamo le due successive: 1) «In caso di controversia, che strumenti abbiamo per cercare di risolverla?» e 2) «Che cosa succede se la gestante o gli aspiranti genitori cambiano idea?»
Queste domande propongono solo alcuni dei problemi d’ordine sociale cui si va incontro e forse non i più importanti. Qui, secondo me, vale la pena confrontarci. Forse si può trovare una visione condivisa sulla pratica sociale dell’utero in affitto che poi ciascuno portarà avanti nel suo agire politico personale, senza steccati o pregiudizi ideologici. O, comunque, potrà servirci nel approfondire un fenomeno sociale importante e cercare di comprenderne l’impatto sulla società.

Dichiaro immediatamente l’idea che mi son fatto a partire proprio dall’analogia praticamente perfetta di Regalzi con la prostituzione: si concede ad altri l’uso del proprio apparato riproduttivo in cambio di un compenso in danari. Certamente variano scopo, tempi, luogi e coinvolgimento di pensieri, di conoscenze, emozioni ed empatie, ma la struttura del negozio rimane esattamente la medesima.

L’analogia si potrebbe completare con l’applicabilità o meno dell’atteggiamento sociale nei confronti della prostituzione, la quale ci può proporre un modello collaudato di principi, basato sui una ben lunga pratica nella storia. E, almeno in Italia, abbiamo detto che si è liberi di prostituirsi, ma non ne è lecito lo sfruttamento.

Il mestiere di locatrice di utero potrebbe, allora, essere praticato liberamente, ma le leggi dovrebbero evitarne lo sfruttamento. In tutto il mondo.

P.S. diversi
– Mi spiace paolo, ma il tuo “menu” per la perfetta locatrice mi risulta del tutto indigesto, da leggere, capire e valutare.
– Il bordello legale (tipo tedesco) non cessa di essere uno sfruttamento della prostituzione e una offesa della dignità della donna (almeno si diceva così quando si fece la legge Merlin e non si proponeva di fare un nuovo regolamento).
– Ti ringrazio per aver riportato la “spiegazione” della Carta di Oviedo. La lettura attenta mi porta a pensare che la preoccupazione fosse quella di non rendere impossibile la vendita di materiale sanitario indispensabile (forse non si potrebbe vendere nemmeno un igrometro a capello!)
– Esatto quel che dici sulla vendita di gameti maschili sui quali si chiude un occhio (anzi, tutti e due). La vendita di quelli femminili, per questioni tecniche importanti, non consente la stessa “disinvoltura”.
– Non sarebbe utile trasferirsi, armi e bagagli, sul post, sempre della Lalli, di Martedì “La fecondazione assistita ha ancora troppi limiti in Italia” (attualmente con 0 commenti).

Giuseppe Regalzi ha detto...

«In caso di controversia, che strumenti abbiamo per cercare di risolverla?. Che cosa succede se la gestante o gli aspiranti genitori cambiano idea?»

Se la gestante cambia idea e non vuole proseguire nella gravidanza ha il diritto di abortire, ovviamente rinunciando in tutto o in parte alla ricompensa (se ne è prevista una e se non ci sono ragioni mediche per la decisione). Chiaramente parliamo di gravidanza al massimo nelle prime venti-ventidue settimane; poi il discorso diventa più complesso. La gestante non può in nessun caso cambiare idea e tenere per sé il bambino; è opportuno a questo proposito che il concepito non sia mai geneticamente figlio suo.

Se i genitori cambiano idea: qui le cose sono più difficili. Chiaramente non possono imporre un aborto alla gestante (ma il contratto potrebbe prevedere una penale non eccessivamente punitiva se, in presenza di gravi motivi, la gestante rifiutasse di abortire). Di primo acchito sarei portato a negare la possibilità per i genitori di rinunciare a riconoscere il bambino; riconosco però che questo è dovuto più al desiderio di “punire” i genitori che ad altro; l’interesse del bambino è di crescere in una famiglia che lo desidera. Per cui, anche se con qualche disagio, equiparerei la legislazione a quella esistente per il rifiuto di riconoscere un bambino concepito normalmente (uguagliando la posizione del padre e della madre, nel nostro caso). La gestante può richiedere il bambino in adozione, se possiede i requisiti necessari.

(Non ho pensato moltissimo alla cosa, quindi queste sono riflessioni un po’ affrettate. Paolo che ne pensa? E tu?)

paolo de gregorio ha detto...

In linea di massima, io penso che su molte questioni prevalga il volere della gestante durante la gravidanza, però effettivamente ci sono dei problemi anche riguardo al bene futuro del bambino.

Inizio facendo riferimento alla legislazione italiana, immaginando un'ipotetico inserimento della surrogazione di maternità in modo coerente all'impianto dell'ordinamento. Una legge siffatta penso che comunque in Italia escluderebbe la possibilità di compensi e al massimo prevederebbe cose come aspettativa retribuita o rimborsi stabiliti per legge (almeno nel tetto massimo). Quindi tornerò in seguito sul caso di eventuale compenso.

Dopo i primi novanta giorni, la gestante non potrebbe abortire per propria scelta completamente autonoma per malformazioni del feto, però penso che resterebbe la possibilità per gravi rischi alla propria salute. Al tempo stesso, penso anche che nel caso di malformazione del feto i genitori possano chiedere, ma non imporre, l'interruzione di gravidanza. Nei primi novanta giorni, in caso di contrasto varrebbe sempre la volontà della gestante, fermo restando che per mutuo accordo si possa procedere secondo le prescrizioni di legge sull'aborto (con eventuale modifica di previsione: per esempio nei primi novanta giorni lo stato psicologico dei futuri genitori potrebbe farsi rientrare nell'equazione, ferma restando la necessità di compartecipazione alla decisione della gestante). La gestante potrebbe rifiutarsi di sottoporsi ad alcune analisi invasive, non essendoci penalità.

Queste ipotesi sembrano un po' sfavorevoli alla coppia, però io penso che una coppia che decidesse di usufruire di una terza persona per procreare possa mettere in conto sin dall'inizio che non avrà tutti i diritti del caso in cui faccia da sola. Può dispiacere pensando al fatto che non è una scelta del tutto libera, quella di rivolgersi ad una madre surrogata, dettata da contingenze legate allo stato di salute: ma non vedo molte alternative dal momento che si fanno rientrare terzi attivamente del processo biologico.

Per quanto concerne la possibilità di non riconoscere il figlio. Qui la questione è spinosa. Diciamo che da un certo punto di vista, potrebbe ripetersi il ragionamento del paragrafo precedente. Trattandosi di un caso speciale, non mi sembra che debba essere del tutto assente un discorso di speciale assunzione di responsabilità (se non altro per il fatto che si coinvolge una persona esterna). Però come giustamente nota Giuseppe, non ci sarebbe il rischio in questo modo di nuocere al bambino?
Mi è venuta in mente una possibilità di una sorta di eventuale compromesso su questo punto: se è la gestante a rifiutarsi di abortire, in quello specifico caso potremmo immaginare di aprire uno spiraglio per la possibilità di non riconoscimento, perché sarebbe il caso più concreto in cui ci sarebbe rischio per il bambino di crescere nella famiglia ... sbagliata.

Uscendo dall'Italia, nel caso in cui fossero previsti accordi anche economici. Ecco, in questo caso penso che il contratto vada onorato da parte dei genitori in tutti i casi in cui l'insuccesso vada attribuito a cause non controllabili dalla gestante, almeno da un certo mese in poi (ivi compreso se loro stessi chiedessero di abortire). Allo stesso modo, potrebbe considerarsi nullo, in tutto od in parte, in quei casi in cui la gestante esercitasse il diritto di operare scelte in completa autonomia (fermo restando che il bambino non sarà in ogni caso suo dopo il parto).

Unknown ha detto...

@Giuseppe Regalzi @paolo de gregorio
Non voglio riesumare uno scheletro dal cimitero degli elefanti visto che l’ultimo commento è del 22 Marzo, ma sono stato ospedalizzato fino a ieri (cosa seria ma risolta brillantemente). Riprendo la discussione solo perché sono inciampato su di un documento del Parlamento europeo del 2011 che fa proprio al caso nostro… anzi, al mio, visto che, pur non sapendolo, ero perfettamente in linea con esso.

Si tratta della Risoluzione sulle priorità per combattere la violenza contro le donne (documento: 05/04/2011 Text adopted by Parliament, single reading). Sull’utero in affitto si esprime senza possibilità di equivoci (anche se è costretto ad usare lo pseudo concetto di maternità surrogata, pagando così un piccolo tributo al politicamente corretto):

Fight against Trafficking in human beings: the resolution draws attention to the worrying increase in human trafficking into and within the EU – a trade which targets women and children in particular – and urges Member States to take firm action to combat this illegal practice. It asks Member States to acknowledge the serious problem of surrogacy which constitutes an exploitation of the female body and her reproductive organs.

Non mi va di faticare a tradurre, ma vi facilito con la traduzione automatica di Google (normalmente orrenda, ma questa volta quasi accettabile):


Lotta contro la tratta degli esseri umani: la risoluzione richiama l'attenzione sul preoccupante aumento del traffico di esseri umani verso e all'interno dell'Unione europea - un commercio che si rivolge donne e bambini in particolare - e sollecita gli Stati membri ad adottare misure energiche per combattere questa pratica illegale. Si chiede agli Stati membri di riconoscere il grave problema della maternità surrogata che costituisce uno sfruttamento del corpo femminile e gli organi riproduttivi. [grassetto mio]

Secondo me questo chiude un po’ la questione… o no?

Giuseppe Regalzi ha detto...

Innanzi tutto mi dispiace di sentire dei tuoi problemi di salute, e sono contento che la cosa si sia risolta; auguri!

Per quanto riguarda la raccomandazione del Parlamento Europeo, non capisco bene perché dovrebbe «chiudere la questione»: non ha quasi nessun valore giuridico, e soprattutto non ha valore morale. Quindi?

Unknown ha detto...

@Giuseppe Regalzi
1. Legge e utero in affitto
È vero che la raccomandazione del Parlamento europeo non ha “quasi” valore giuridico. Ma è anche ovvio che sia così perché credo di ricordare che in queste materie gli stati legiferano in modo indipendente e quindi la raccomandazione può solo limitarsi a «sollecita[re] gli Stati membri ad adottare misure energiche [… e] chiede[re] misure energiche per combattere questa pratica»
Da come scrivi sembrerebbe che se ci fosse un divieto giuridico per te sarebbe almeno rilevante. Ma in Italia l’utero in affitto è illegale. È quindi rilevante, almeno per noi?

2. Utero in affitto e morale
Non sono sicuro di capire bene cosa intendi quando affermi che la raccomandazione «soprattutto non ha valore morale». Ho due opzioni interpretative.
Potresti voler intendere che dissenti dai forti giudizi etici espressi (quali, traffico di esseri umani, grave problema, sfruttamento del corpo femminili e degli organi riproduttivi) sulla base della tua visione etica della questione.
Oppure potresti voler intendere che il Parlamento non ha i “titoli” per esprimere giudizi etici (insomma, non è come il Magistero per i cattolici).
Ipotizzo che sia corretta la prima interpretazione, ma allora è forse opportuno che vi calibriate un po’ meglio nel rapportarvi con gli innumerevoli “proclami” della UE: squilli di tromba per la relazione Tarabella (c’è un post specifico della Lalli!) e il non cale per la condanna dell’utero in affitto del 2011 (ho anche il sospetto che ci sia una superiorità giuridica di una risoluzione rispetto ad una relazione approvata – ma non ne sono sicuro).

Ma noi siamo qui per confrontarci sulle nostre visioni (anche etiche) del fenomeno. In quest’ottica, siccome è opportuno individuare una qualche coerenza anche negli atti di in un organismo collettivo come il Parlamento europeo, dobbiamo dare rilevanza alla condanna dell’utero in affitto prodotta da un soggetto che non mi sembra dominato da un qualche movimento per la vita o dalla Santa Sede.

Comunque, non vedo come si possa pensare che l’utero in affitto non comporti lo sfruttamento delle donne più povere del pianeta.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Mi pare di capire che tu sia passato dal dire che la raccomandazione avrebbe dovuto «chiudere la questione» al dire che è «rilevante». E certo, se avesse valore giuridico sarebbe rilevante per la questione. Ma non ce l’ha. Se avesse presentato degli argomenti, avrebbe avuto un valore morale. Ma non l’ha fatto (sarebbe strano per una raccomandazione), quindi non ce l’ha – a meno che uno non basi le proprie scelte morali sul principio di autorità.
(Nessuna contraddizione con quanto scriveva Chiara Lalli sulla relazione Tarabellla, che – se leggi fino in fondo il suo articolo – definisce «poco più che simbolica».)

«Comunque, non vedo come si possa pensare che l’utero in affitto non comporti lo sfruttamento delle donne più povere del pianeta».

«Sfruttamento» in che senso? Nel senso che a queste donne non viene corrisposto un compenso giusto (per esempio perché gli intermediari ne trattengono una quota eccessiva)? Possibilissimo; ma in questo caso la soluzione è di aumentare il loro compenso, non di ridurlo a zero proibendo la pratica. Per fare un paragone, i vecchi socialisti, quando lottavano contro lo sfruttamento dei lavoratori, non sostenevano che si sarebbero dovute chiudere tutte le fabbriche e mandare a casa gli operai. Gli operai non avrebbero gradito molto.

O intendi per «sfruttamento» qualcosa di più generale, come il fatto di far leva sulla condizione di bisogno di queste donne (che ovviamente non sono le «più povere del pianeta», dovendo essere fisicamente in grado di sostenere una gravidanza; non sono donne che fanno la fame)? Questo è vero per definizione; ma in questo senso è sfruttata quasi la totalità di chi lavora, che in genere lo fa proprio per non cadere nell’indigenza.