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domenica 26 agosto 2007

Pacs nel Quattrocento?

Sul numero di settembre del prestigioso Journal of Modern History, Allan A. Tulchin della Shippensburg University offre le prove documentarie dell’esistenza nell’Europa del 1400 di un istituto giuridico affine alle odierne unioni civili, e come queste aperto anche alle coppie omosessuali («Same-Sex Couples Creating Households in Old Regime France: The Uses of the Affrèrement»; riassunto in «Are civil unions a 600-year-old tradition?», EurekAlert, 23 agosto 2007):

in late medieval France, the term affrèrement – roughly translated as brotherment – was used to refer to a certain type of legal contract, which also existed elsewhere in Mediterranean Europe. These documents provided the foundation for non-nuclear households of many types and shared many characteristics with marriage contracts, as legal writers at the time were well aware, according to Tulchin.
The new “brothers” pledged to live together sharing ‘un pain, un vin, et une bourse’ – one bread, one wine, and one purse. As Tulchin notes, “The model for these household arrangements is that of two or more brothers who have inherited the family home on an equal basis from their parents and who will continue to live together, just as they did when they were children.” But at the same time, “the affrèrement was not only for brothers,” since many other people, including relatives and non-relatives, used it.
The effects of entering into an affrèrement were profound. As Tulchin explains: “All of their goods usually became the joint property of both parties, and each commonly became the other’s legal heir. They also frequently testified that they entered into the contract because of their affection for one another. As with all contracts, affrèrements had to be sworn before a notary and required witnesses, commonly the friends of the affrèrés.”
Tulchin argues that in cases where the affrèrés were single unrelated men, these contracts provide “considerable evidence that the affrèrés were using affrèrements to formalize same-sex loving relationships. […] I suspect that some of these relationships were sexual, while others may not have been. It is impossible to prove either way and probably also somewhat irrelevant to understanding their way of thinking. They loved each other, and the community accepted that. What followed did not produce any documents.”
Non risulta che queste circostanze abbiano causato la distruzione della società dell’epoca...

venerdì 22 giugno 2007

Predica bene, ratzola male

Predica bene, ratzola male è un documentario sulla situazione delle coppie di fatto nel nostro paese. Girato da due giovani registe, Sara Ballerini e Luna Coppola, è stato presentato il 30 gennaio scorso a Bologna, ma non ha poi trovato un distributore, nonostante dia spazio a tutte le voci (per esempio, vi vengono intervistati fra gli altri Daniela Santanchè e Franco Grillini).

Sul sito delle due registe si possono trovare vari materiali sul film e sulle sue vicende, e il trailer è disponibile anche su YouTube. Vale la pena di dargli un’occhiata, e se qualcuno potesse fare qualcosa di più...

venerdì 9 marzo 2007

Quella misera promessa

Raffaele Carcano, Ultimissime di oggi, Perché è necessario essere presenti in piazza Farnese, domani:

La manifestazione che si svolgerà domani pomeriggio a Roma, in piazza Farnese, cade in un momento per nulla favorevole al riconoscimento delle unioni civili. Vi sono, infatti, almeno tre motivi di forte preoccupazione.
Innanzitutto, il governo sembra aver deciso di buttare a mare il suo stesso disegno di legge. Non dimentichiamo che Prodi si dimise proprio il giorno in cui doveva cominciare a discutere del progetto al Senato: e non dimentichiamo che i dodici punti del successivo accordo non contemplano alcun impegno in proposito da parte del governo. La stessa misera promessa contenuta nel programma elettorale dell’Unione sembra ora giudicata troppo impegnativa da una maggioranza palesemente in balia del voto determinante dei teodem.
Inoltre, il Vaticano ha già allarmato le sue truppe per organizzare un “Family Day” che, nelle intenzioni delle gerarchie ecclesiastiche, dovrebbe affossare definitivamente il provvedimento sotto la spinta di una fortissima partecipazione di piazza.
Infine, l’assenza di una forte associazione laica che abbia nei pacs il proprio unico obiettivo finisce per far gravare tutto il peso della campagna sulle spalle dell’associazionismo omosessuale, creando il rischio che l’opinione pubblica non la percepisca come una battaglia di laicità, ma come la mera rivendicazione di interessi di parte. E se questo avvenisse, anche il consenso che un provvedimento sulle unioni civili sembra raccogliere nel paese scemerebbe molto in fretta.
Per questo motivo è indispensabile che tutti i cittadini e le cittadine italiane che hanno a cuore le sorti della laicità siano presenti domani a Roma. Solo una massiccia partecipazione riuscirà a convincere una classe politica troppo poco europea a superare le proprie timidezze, chiarendo nel contempo alla Conferenza Episcopale Italiana che il sostegno ai pacs è diffuso nel paese. E solo una partecipazione ampia e articolata farà capire all’opinione pubblica che il riconoscimento dei diritti delle unioni civili è un provvedimento dovuto, che riguarda tutti. Un provvedimento all’insegna della laicità dello Stato, supremo principio costituzionale. Anche se molti (troppi) fanno finta di dimenticarsene.

lunedì 26 febbraio 2007

Quando al liberale non piacciono le unioni omosessuali

In un momento già non felice per le sorti del liberalismo in Italia, capita spesso di scoprire angosciati che alcuni di quelli che si dicono liberali o finanche libertari – e che saresti quindi portato a computare dalla tua parte, quasi senza pensarci – si oppongono violentemente a battaglie che hai sempre pensato fossero in massimo grado liberali e libertarie. È il caso ultimamente della regolamentazione delle unioni di fatto: è capitato persino che qualcuno che orgogliosamente sbandierava la sua appartenenza ai «libertari italiani» dimostrasse all’improvviso un’omofobia degna dei peggiori codini.
L’angoscia è giustificata, ma non c’è forse molto da stupirsi: il libertarismo, in Italia – ma qualche esempio c’è anche altrove – è divenuto da un po’ di tempo la copertura ideologica prestigiosa, «americana», dei ceti più insofferenti all’imposizione fiscale, che per il resto rimangono però strettamente legati al mondo vetero-cattolico delle origini e ai privilegi del patriarcato: per loro l’unica libertà che conta è la libertà dalle tasse; lo sperimentalismo sociale della parte più viva del libertarismo anglosassone (si pensi per esempio all’influenza dello scrittore Robert A. Heinlein negli Usa) è necessariamente il loro nemico. Discorso non diverso per molti ‘liberali’ (la differenza è in sostanza solo anagrafica: i libertari all’italiana sono mediamente più giovani), che sono tali solo in quanto avversi a uno Stato potenzialmente incline a mettere in dubbio i loro privilegi sanzionati dal tempo e dalla Tradizione, e che ritroviamo puntualmente a cantare le lodi delle posizioni più retrive della Chiesa cattolica.

Consideriamo un esempio concreto. Il Foglio di due giorni fa ha ospitato un lungo articolo di Giovanni Orsina («L’individualista e laico Orsina dice che la legge sui Dico non è liberale, è solo anticlericale», 24 febbraio 2007, p. 3). L’autore, poco dopo l’inizio, fa questa dichiarazione di principi:

Il diritto che gli individui indiscutibilmente hanno è quello di vivere con qualunque altro individuo adulto e consenziente essi vogliano, sia di un altro sesso o sia del medesimo, senza doverne rendere conto alla società né allo stato. Detto altrimenti, gli individui hanno precisamente il sacrosanto diritto di creare una coppia di fatto. Ma che quella coppia di fatto sia poi riconosciuta pubblicamente, e le siano attribuiti privilegi che vanno a discapito di terzi – come nel caso del subentro nel contratto d’affitto –, o della collettività – ad esempio con la reversibilità della pensione –, è questione che con gli intangibili diritti dell’individuo ha ben poco a che spartire. Uno stato rigorosamente individualista, libertario, consente qualunque comportamento non leda i diritti altrui, ma al contempo di questi comportamenti leciti non ne incentiva neppure nessuno. Ai suoi occhi una zitella solinga o Harun al Rashid col suo harem di mogli si equivalgono a perfezione.
E fin qui non ci sarebbe nulla da eccepire, naturalmente, se non una certa occhiutezza ideologica che pragmaticamente andrebbe stemperata (il pensiero del proprietario che butta fuori dall’appartamento la compagna dell’inquilino appena morto non sembra dar fastidio a Orsina, ma a moltissimi altri, fortunatamente, sì). Ma l’articolo prosegue:
La questione andrebbe dunque del tutto rovesciata. Se in termini liberali il caso deviante non è la mancata attribuzione di privilegi alle coppie di fatto, ma al contrario l’attribuzione di privilegi alle coppie sposate, la vera domanda che dovremmo porci è se sia giusto, e per quali ragioni, che lo stato regolamenti e incentivi col matrimonio la convivenza stabile fra persone di sesso diverso. […]
Detto questo, ritengo tuttavia che la domanda posta sopra – se sia opportuno attribuire privilegi alle coppie regolarmente sposate – debba trovare una risposta positiva. Per la semplice ragione che, fino ad ora, la convivenza stabile fra persone di sesso diverso s’è storicamente dimostrata lo strumento più adatto per generare e formare i nuovi individui. […]
I privilegi che la legge attribuisce al matrimonio, e che possono essere difesi in un’ottica liberale perché atti a facilitare la generazione e formazione di nuovi individui, vanno estesi anche alle coppie di fatto eterosessuali? E a quelle omosessuali? A mio avviso entrambe le risposte debbono essere negative. Rispetto alle coppie omosessuali, perché manca l’elemento cruciale: la generazione e formazione di nuovi individui, appunto. Altro sarebbe se le coppie omosessuali potessero accedere alle procedure di procreazione artificiale o all’adozione. Il che però sarebbe a mio avviso gravemente inopportuno, considerato come la struttura che storicamente s’è rivelata in grado di formare gli individui sia la famiglia eterosessuale, e come un elementare principio di prudenza suggerisca di seguire in questo campo i dettami della tradizione, evitando di imporre esperimenti a pre-individui che – per definizione – sono incapaci di scegliere.
Argomentazione ripetuta mille volte, dalla quale viene quasi sempre omessa – scientemente, perché è un punto troppo ovvio per essere dimenticato – la circostanza che la inchioda alla sua vacuità: il matrimonio eterosessuale non è appannaggio esclusivo delle coppie in grado di generare; ad esso e ai suoi privilegi sono ammesse anche le coppie sterili, e soprattutto le coppie di anziani, per le quali si sa già in anticipo che le nozze sono destinate a rimanere infeconde e chiuse alla procreazione. Né questi sono considerati dalla società matrimoni di seconda categoria: l’approvazione sociale è sincera e per nulla inferiore a quella che circonda il matrimonio di una coppia potenzialmente fertile.
Quando muovi questa obiezione, «libertari italiani», liberalconservatori e liberalclericali abbozzano un sorrisetto di compatimento, scuotono la testa, come a dire «è vecchia!»; ma la controreplica, chissà perché, non arriva mai – se non nella forma di assurdi arzigogoli; e non può arrivare, perché logicamente non ce n’è una (si veda la lunga – anzi, ahimè, prolissa – discussione, in cui mi sono ritrovato impegnato qualche giorno fa).
Una risposta coerente sarebbe l’abolizione del diritto a sposarsi per le coppie di anziani che non abbiano già figli; ma naturalmente, questo è per molte ragioni improponibile (anche se a lungo termine l’evoluzione del costume va verosimilmente nella direzione della fine del matrimonio come unione sessuale, e della sua sostituzione nell’ordinamento giuridico con la relazione di cura, secondo le suggestioni di Martha Albertson Fineman e di altri).
Si può invece sostenere che il matrimonio genera altri beni sociali, oltre a quelli rappresentati dalla riproduzione, e che quindi esso andrebbe esteso (di fatto se non di nome) anche agli omosessuali. Un liberale autentico guarderà sempre con sano scetticismo a queste pretese di vantaggi per la società, ma in questo caso non c’è in effetti neppure bisogno che esse siano giustificate: l’uguaglianza di fronte alla legge basta e avanza per dire sì alle nozze omosessuali. Non esiste uno straccio di giustificazione per la situazione attuale, in cui gli omosessuali pagano con le loro tasse i privilegi delle coppie eterosessuali, anche sterili, da cui essi sono tuttavia esclusi.
Del resto, è poi così ovvio che gli omosessuali siano incapaci di generare? Orsina, con ingenuità tanto monumentale da riuscire ancora una volta sospetta, sembra credere che i gay non possano avere figli se non con la fecondazione in vitro o l’adozione. Forse l’equivoco è naturale per quanti – in accordo con meccanismi psicologici ben noti – sentono il bisogno di marcare la propria distanza dall’universo gay incrementando fino al parossismo la ripulsa dell’orientamento omosessuale; ma in ogni caso si dovrebbe sapere che la fecondazione artificiale non avviene solo in provetta e in laboratorio...
Le famiglie omosessuali, anche se i figli provengono geneticamente dall’esterno della coppia (almeno allo stadio attuale delle tecniche riproduttive), sono più fertili di molte coppie eterosessuali – e certo nessuno può pensare di sottrarre loro i bambini (caritatevolmente evito di esaminare la consistenza logica delle idee di Orsina sui pre-individui). Il loro diritto a sposarsi, checché ne pensino tanti sedicenti ‘liberali’, è sicuro e incomprimibile, e lottare per conseguirlo è una battaglia di libertà.

sabato 17 febbraio 2007

DiCo: il ministero tenta di chiarire – ma non ci riesce

Dopo le perplessità espresse da molti – compresi noi di Bioetica, in un post precedente – su alcune palesi assurdità contenute nel disegno di legge governativo sui DiCo, il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio tenta di chiarire alcuni dei punti più controversi, con una scheda di approfondimento («Cosa sono i DiCo»; il contenuto è praticamente identico a quello di una ‘intervista’ a Stefano Ceccanti, uno degli estensori materiali della legge, presente sullo stesso sito).

Il primo chiarimento riguarda, come ci si poteva aspettare, la famigerata raccomandata con ricevuta di ritorno:

Due persone, che si trovino nelle condizioni previste dalla legge, possono ottenere certificazione di questa realtà se si trovano in questa condizione di fatto, che possono dichiarare in due modi a loro scelta:
A) quella [sic] più semplice è di andare contestualmente all’ufficio di anagrafe facendo una dichiarazione;
B) in alternativa può andare uno solo e dimostrare di avere avvisato l’altro con raccomandata con ricevuta di ritorno. Nell’applicazione della legge si garantirà che sia l’altro convivente a ricevere materialmente tale comunicazione [corsivo mio].
La spiegazione non spiega un granché, come si vede, e non ci rimane che fantasticare su come si otterrà la garanzia che la raccomandata cada nelle mani giuste. Escludendo che il postino si accampi sotto casa nostra in attesa che il nostro convivente torni a casa dopo una settimana di vacanze, possiamo supporre che la raccomandata DiCo dovrà portare stampigliata in bella evidenza l’oggetto del suo contenuto (pazienza per la privacy...), e che potrà essere consegnata solo dietro esibizione di un documento personale, di cui il postino annoterà scrupolosamente gli estremi; il destinatario non reperibile si dovrà recare presso l’ufficio postale, senza possibilità di deleghe. Tutto, pur di non sancire l’obbligo della dichiarazione contestuale e dell’assenso di entrambi i conviventi.
Non sfugge la preghiera implicita contenuta al punto A): lo sappiamo bene – sembrano dire i tecnici ministeriali – che le complicazioni della raccomandata sono inverosimili e pazzesche; l’unico modo sensato per dichiarare i DiCo è di venire a farlo tutti e due all’Anagrafe. Ma non possiamo dirlo apertamente: sù, fate i bravi, non metteteci in difficoltà con i teodem – ci rimettereste anche voi, se quelli bocciano la legge – lasciate perdere le Poste e venite all’Anagrafe, che così si fa prima e con meno fatica...

Il disegno di legge solleva un’altra, ancor più grave perplessità: da molti indizi sembra che esso non preveda la possibilità per due conviventi di sottrarsi ai suoi effetti giuridici, che lo vogliano oppure no. Qui la risposta del Ministero è più indiretta, e conviene analizzarla a fondo.
Cominciamo da ciò che sembra affermare la lettera del disegno di legge, all’art. 1:
1. Due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale, […] sono titolari dei diritti, dei doveri e delle facoltà stabiliti dalla presente legge.
2. La convivenza di cui al comma 1 è provata dalle risultanze anagrafiche in conformità agli articoli 4, 13 comma 1 lettera b), 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, secondo le modalità stabilite nel medesimo decreto per l’iscrizione, il mutamento o la cancellazione. È fatta salva la prova contraria sulla sussistenza degli elementi di cui al comma 1 e delle cause di esclusione di cui all’articolo 2. […]
3. Relativamente alla convivenza di cui al comma 1, qualora la dichiarazione all’ufficio di anagrafe di cui all’articolo 13, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, non sia resa contestualmente da entrambi i conviventi, il convivente che l’ha resa ha l’onere di darne comunicazione mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’altro convivente; la mancata comunicazione preclude la possibilità di utilizzare le risultanze anagrafiche a fini probatori ai sensi della presente legge.
Cosa vuol dire tutto ciò? Come si vede, si cita due volte un decreto del Presidente della Repubblica, approvato nel 1989 e quindi già da tempo in vigore. All’art. 4, comma 1 il decreto definisce cosa si deve intendere per «famiglia»:
Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Secondo l’art. 13, comma 1, lettera b dello stesso decreto, chi forma una nuova famiglia ha l’obbligo di dichiararlo entro venti giorni all’Anagrafe del Comune in cui vive, che a sua volta creerà una apposita scheda di famiglia. Ora, da una lettura attenta del disegno di legge sui DiCo sembrerebbe che sia questa dichiarazione quella di cui parla: basta che Elisabetta abbia dichiarato all’Anagrafe – come è suo preciso obbligo – di convivere con Luca, e che Luca ne sia stato portato a conoscenza, perché i due si trovino automaticamente titolari di tutti i diritti e i doveri previsti dalla legge sui DiCo (per la verità, secondo una possibile interpretazione il disegno di legge sembrerebbe imporre le conseguenze giuridiche della convivenza anche a chi non sia stato informato dell’iscrizione all’anagrafe; ma non complichiamo ulteriormente le cose).
La scheda di approfondimento cambia però inopinatamente le carte in tavola. Subito dopo il passo sulla raccomandata, afferma infatti:
L’anagrafe riporterà tali dichiarazioni in una scheda che è già prevista, che si chiama scheda della famiglia anagrafica, dove sono già inseriti tutti quanti vivono sotto lo stesso tetto. Oggi non si sa a che titolo vivono insieme, a meno che non risulti dai registri di un altro ufficio, quello dello stato civile.
L’anagrafe si limita a fotografare la realtà; invece lo stato civile registra gli status, come il matrimonio: sono due uffici diversi.
Dopo l’entrata in vigore della legge:
  • chi fa emergere la propria situazione di fatto andando all’anagrafe e facendo quella dichiarazione in uno di quei due modi previsti si trova dentro l’ambito di applicazione della legge.
  • Chi non può perché rientra nelle esclusioni della legge, o chi non è interessato a dichiarare che convive con le caratteristiche individuate dall’art. 1 della legge, continua a stare puramente e semplicemente nella scheda della famiglia anagrafica: la legge non gli si applica.
C’è bisogno di questo passaggio perché ci deve essere certezza sui titolari: sia in positivo, per renderli effettivi, sia in negativo, per evitare abusi [corsivi miei].
Qui la dichiarazione all’Anagrafe si è sdoppiata: quella obbligatoria per la costituzione di una nuova famiglia non basta più per fare scattare gli effetti giuridici dei DiCo; ce ne vuole una seconda, integrativa, non prevista dal decreto presidenziale di cui parlavamo, in cui si afferma che chi convive lo fa su basi affettive.
Si tratta di un chiarimento del disegno di legge del Governo o di una sua correzione? Temo che si debba propendere per la seconda ipotesi: nella bozza che era circolata prima dell’intervento del giornale dei vescovi, l’art. 1, comma 1 recitava:
Qualora due persone, anche dello stesso sesso, legate da reciproci vincoli affettivi e che convivono stabilmente, intendano avvalersi dei diritti e, conseguentemente adempiere ai doveri individuati dalla presente legge, ne fanno dichiarazione congiunta all’ufficiale dell’anagrafe del Comune dove hanno stabilito la comune residenza, il quale annota la data della dichiarazione e la integra nella scheda anagrafica di cui all’articolo 1 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228 ed agli articoli 4, 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
Questo è precisamente ciò che adesso dice la scheda di approfondimento del Ministero – ma non sembra un caso che il testo del disegno di legge contenga invece una formulazione del tutto diversa.
Ammettiamo comunque che questa sia l’interpretazione autentica della legge, o meglio ancora che – integralisti permettendo – la legge ritorni alla lettera primitiva; potrebbero i conviventi stare tranquilli? Il dubbio, purtroppo, è più che mai lecito.
La scheda di approfondimento ripete ossessivamente un concetto: diritti e corrispondenti doveri nascono da un fatto (la parola ricorre ben cinque volte nella prima pagina del documento). Recependo interamente le obiezioni della Conferenza Episcopale Italiana, i legislatori hanno voluto in questo modo marcare un punto fermo: i diritti previsti dalla legge non nascono da un libero patto tra i due contraenti. La convivenza non è un nuovo istituto cui chi vuole può accedere, ma una condizione di fatto cui si attaccano una serie di conseguenze giuridiche, valide per chiunque in quella condizione si trovi ad essere. La controprova di quanto qui si afferma è data da una monumentale assenza nella scheda ministeriale: si continua a non chiarire come il convivente che riceve la comunicazione dell’avvenuta dichiarazione possa sottrarsi, se così vuole, a degli obblighi che non ha sottoscritto. Ebbene, il chiarimento non c’è perché non ci può essere: se il cittadino, pur convivendo more uxorio con il suo partner potesse sottrarsi agli effetti dei DiCo, ciò vorrebbe dire che la legge riguarda un nuovo status giuridico, e non a una condizione di fatto già esistente; ma questo, a causa della pressione della Cei, non si può proprio ammettere.
Si dirà: pazienza, per le coppie normali basterà non firmare la dichiarazione integrativa con la quale si certifica a che titolo si svolge la convivenza. Ebbene, non ne sarei tanto sicuro. Torniamo ai nostri Luca ed Elisabetta. Elisabetta ha dichiarato la nascita della nuova famiglia all’Anagrafe ma, d’accordo con Luca, ha omesso di integrare la scheda di famiglia con la dichiarazione sulle motivazioni della convivenza. Cosa diceva, però, l’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica?
Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Nel momento in cui Luca cambiasse idea, e volesse costringere la propria partner a corrispondergli gli alimenti, potrebbe dimostrare molto facilmente di non essere legato a lei da «vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione o tutela»; e che dunque Elisabetta, con la dichiarazione all’Anagrafe, aveva implicitamente ammesso l’esistenza di vincoli affettivi, proprio quelli cui la legge fa corrispondere precisi obblighi... Come afferma ad altro proposito la scheda del ministero, involontariamente minacciosa: «nei primi nove mesi dall’entrata in vigore della legge si può provare che la convivenza è iniziata prima con gli stessi criteri usati nei tribunali». Ed è lì che finirà prevedibilmente questa legge, se sciaguratamente le Camere la lasciassero passare immutata: nelle aule dei tribunali.

La smentita di un miracolo annunciato


Francesco Agnoli in I Dico non si fanno per rispetto della libertà, èFamiglia online (Avvenire), 16 febbraio 2007:

In questi giorni, quando si discute dei Dico, ritorna di continuo un vecchio ritornello: «Io, personalmente, non farei nessun Dico. Credo nel matrimonio, nell’amore responsabile, stabile, fedele, fatto di diritti e di doveri. Ma perché impedire i Dico ad altri, che la pensano diversamente, che non hanno la mia stessa visione del matrimonio? Perché imporre ad altri la mia opinione?».
Queste prime righe sono state una promessa di un miracolo (fatta eccezione per l’identificazione tra matrimonio e amore responsabile e così via; ma insomma non si può chiedere ad una zanzara di suonare il pianoforte). Che puntualmente ha mostrato la sua fallacia. Ho pensato: “Francesco Agnoli ha capito uno dei concetti fondamentali della civiltà, uno dei fondamenti dello Stato liberale, conquista politica e culturale rivoluzionaria quasi quanto l’evoluzionismo”. (Chissà che non sia un caso che mi sia venuto in mente tale paragone. Il nostro sembra in difficoltà su entrambi i versanti.)
Dicevo, la smentita di un miracolo annunciato. Alla sesta riga ecco giungere un “In realtà”. Francesco Agnoli ci spiega come stanno davvero le cose, ci racconta cosa si nasconde dietro all’apparente ragionamento (che poi un ragionamento dovrebbe dirsi errato o corretto, coerente o contraddittorio, ma apparente che cosa significa? Che non è un ragionamento, bensì un sofisma – ecco svelato l’arcano. Tuttavia il sofisma non è che un ragionamento capzioso, magari falso, ma è un ragionamento (e quanto i sofisti ragionassero meglio di Agnoli è superfluo dire).
In realtà, dietro questo apparente ragionamento, si nasconde un sofisma: mentre si discute di un argomento, i cosiddetti Dico, mentre si vota per creare o meno un nuovo istituto giuridico, mentre insomma ognuno dice la sua, a favore o contro, per cambiare la società e le sue consuetudini, gli unici che rischiano di tagliarsi fuori sarebbero coloro che si oppongono, coloro che non approvano.
Che cosa ciarla Agnoli? Tagliarsi fuori? Forse non ha capito il ragionamento dal quale è partito. Chi dice: “Non farei x, ma non imporrei agli altri di non fare x” è un buon esempio di essere umano civile e in grado di sottrarsi alla violenza di “Ti obbligo per il tuo bene”. Ma per Agnoli questo è un atto di autocensura.
Bella democrazia, quella in cui qualcuno deve decidere di stare sostanzialmente zitto, omettere di esprimere la propria opinione, auto-censurare il proprio punto di vista! Non è un caso che a ripetere per primi il ritornello, affinché tanti lo imparino a memoria, sono solitamente i radicali. Gli stessi che si scandalizzano quando qualcuno parla di verità, quando qualcuno afferma di credere nella verità, e poi costituiscono un partito per portare avanti, a suon di leggi, referendum e propaganda, le proprie “verità”! Dovrebbe allora anzitutto essere chiara una cosa: chi crede nel matrimonio, come istituto fondamentale su cui si basa la società umana, può e deve sostenere la sua convinzione, allo stesso modo di chi fa il contrario, senza essere accusato, da quest’ultimo, di conculcare la libertà altrui.
È diverso sostenere la propria opinione dall’imporla per legge (o per assenza di legge). Chi crede nel matrimonio si sposa; questo dovrebbe significare che chi crede nel matrimonio deve trascinare fino all’abside tutti i recalcitranti amanti? E poi, caro Agnoli, non hai fatto caso che sei passato da verità (singolare) a verità (plurale)? Slittamento per te casuale, ma involontariamente segnale di quanto sto per ricordarti: chi si batte per la possibilità di scegliere (verità al plurale) non impone a nessuno una visione della vita che è necessariamente personale, soggettiva e non universalizzabile. Chi si batte per la libertà (di divorziare, di abortire, di morire, e così via) riconsegna il destino nelle mani di ciascun individuo, ma non costringe nessuno a una scelta predefinita. Chi vuole divorzia, chi non vuole si ama per tutta la vita o vive da separato in casa. Insomma, ognuno fa come vuole (con i limiti segnati dal principio del danno su cui ora non ho voglia di soffermarmi).
Ma Agnoli non sa di cosa sta parlando. Non sceglie il silenzio dinnanzi a faccende che gli si negano, ma la presunzione di essere portatore di Verità (quella al singolare).
Detto questo, è bene ricordare alcuni concetti innati nell’uomo, anche in quello pagano dell’antica Grecia.
Se sono innati (ovvero legati alla natura umana, alla natura dell’homo sapiens) certo che ce l’hanno pure i greci (pure tanti altri che Agnoli escluderebbe). Ma non è ancora arrivato il meglio.
l’uomo, come scriveva Aristotele, è un animale sociale, politico, che vive in relazione con gli altri, e che non può fare altrimenti. Agli altri si interessa, con gli altri vive, gioisce, soffre, costruisce e distrugge... Il poeta latino Terenzio scriveva: «Sono uomo, e nulla di ciò che è umano considero a me estraneo». Il pensiero liberale individualista, invece, sostiene che ognuno fa quello che vuole, perché ognuno è padrone di se stesso, della sua vita, e può disporne a piacimento; e sostiene che qui starebbe la vera libertà, la vera realizzazione dell’uomo. Afferma che ognuno deve perseguire il proprio interesse, ripiegarsi sul proprio io, escludere gli altri dal proprio orizzonte. Ma questo ragionare, oltre che profondamente egoistico, non è neppure umano. Non siamo monadi, esseri assoluti svincolati da tutto e dal prossimo, «atomi nello spazio e attimi nel tempo», bensì creature con dei legami, con un passato, una storia, un’origine, e in qualche modo già artefici del futuro. Come alberi piantati a terra, con le radici, e con i rami tesi verso il cielo, e verso il futuro. Nasciamo da una relazione, ci sviluppiamo nell’utero materno, in relazione con nostra madre, cresciamo in un tessuto di relazioni, che non ci limitano, nella nostra libertà, ma ci realizzano e ci completano. Poi diveniamo adulti, indipendenti, si fa per dire, magari pure benestanti, e qualcuno si illude di poter fare da solo, decidere da solo, realizzare da solo la propria felicità. Così, divenuti cinici, riduciamo il lavoro a competizione, la vita a una giungla in cui vige la legge del più forte, e la vita affettiva a esperienza solamente individuale e privata, come un oggetto di nostra appartenenza. Così riduciamo spesso il sesso a qualcosa di svincolato dall’altro, non come relazione, ma come auto-realizzazione, in cui il prossimo diviene mezzo, e non più fine (il famoso “amore sicuro”).
Difficile governare i pensieri eh? Inutile rispondere a chi non si è preso nemmeno la briga di conoscere la storia del pensiero umano, e farfuglia parole la cui eco scolastica ammanta di ridicolo. La legge del più forte? Io rinuncio, l’unica risposta che mi viene in mente è quanto diceva Woddy Allen a proposito di masturbazione: è fare del sesso con qualcuno che stimate veramente!

Anche ad Agnoli sorge un dubbio (non sulla masturbazione, né sulla sua inconsistenza cerebrale):
Tutto questo per dire cosa? Che la relazione matrimoniale è alla base di una società umana: «dal dì che nozze e tribunali ed are/ dieder alle umane belve essere pietose/ di sé stesse e d’altrui...». Così scriveva Ugo Foscolo, non certo un cattolico bigotto: la civiltà è nata intorno all’istituto del matrimonio e al diritto, inteso come sforzo di regolare e raggiungere il bene comune, non quello individuale, particolare, personale... Il matrimonio, che è nato dalla pietas per noi stessi e per gli altri, come scrive Foscolo, che è per l’uomo, è allora il luogo della vita affettiva, quello in cui cresciamo come figli, in cui impariamo a relazionarci col nostro prossimo, il più prossimo possibile, per crescere con un equilibrio interiore, sapendo di essere amati, veramente, e cioè stabilmente.
Ulteriore rimembranza liceale, Foscolo è vissuto un paio di secoli fa. Senza scivolare in una ingenua visione di perfettibilità del genere umano e della società, è lecito tuttavia domandarsi se il giudizio di Foscolo sul matrimonio sia non pertinente. Poetico, per carità, ma non pertinente. (E di citazione che smentirebbero Foscolo ce ne sarebbero molte, ma avrebbe un senso procedere a colpi di “X ha detto” “Y ha detto”?).
E infine la conclusione.
Dire no ai Dico significa allora continuare a credere nel matrimonio, nelle nozze civilizzatrici, nel diritto come tutela del bene comune, nell’uomo come animale sociale... Abbiamo una visione del mondo, un’idea di uomo, perché tutto ciò che è umano ci interessa, ci sta a cuore: e abbiamo il dovere, sacrosanto, di dirlo, di crederci, di batterci per questo... contro la società disgregata, in cui ognuno fa e disfa, senza neppure trattative, assume diritti e rifiuta doveri, in nome del suo io, più o meno gonfio, più o meno smarrito, più o meno disorientato. Se chi propone i Dico dice di farlo per gli altri, è bene dire che gli altri non hanno bisogno di questo, ma di altro: del matrimonio, dell’assunzione di responsabilità, di fronte a chi amano e alla società! Diciamolo ad alta voce, senza paura: diciamo no ai Dico, né carne né pesce, né pasta né minestra, costruzione giuridica artificiosa, incomprensibile, nata attraverso cavilli e mediazioni continue, a metà tra qualcosa e qualcos’altro, tra la convivenza e il matrimonio, inafferrabile e disorientante.
Non sono per l’uomo, ma contro di lui. Se ne accorgerebbero soprattutto le generazioni future: generazioni che partirebbero già col piede sbagliato, se gli spiegassimo, noi, oggi, che l’amore non è una dedizione totale, ma un patto momentaneo, un momento, un attimo, per quanto “ben” regolamentato. Lo scriveva anche Verga: abbiamo bisogno di uno scoglio, di una certezza, quella della famiglia, e coloro che vogliono abbandonare lo scoglio, la realtà umana e naturale che ci è propria e che ci corrisponde, per brama di ignoto, di meglio, o per puro egoismo, sono destinati a naufragare. Mancano forse i naufragi, nella odierna disgregazione delle famiglie, perché qualcuno possa dire che ciò che si è detto non è sperimentabile?
Strano che tra la citazione non siano comparsi I Promessi Sposi, incredibilmente inerenti per argomento e soprattutto sopravvissuti eterni nelle nostre memorie dopo esserceli sorbiti 6 volte nel corso degli anni scolastici.
Ma io ho un dubbio: l’amore è dedizione totale o istupidimento animale? Diciamolo ad alta voce (anche noi), senza paura: diciamo no all’idiozia, all’approssimazione, al vuoto cerebrale. E non mi riferisco ai DiCo.

(In onore di Francesco Agnoli ho creato una nuova etichetta. Spero apprezzi.)

mercoledì 14 febbraio 2007

Non sono incostituzionali

Dichiarazione-appello promossa dalla Fondazione Critica Liberale sull’interpretazione dell’art. 29 della Costituzione:

Senza entrare nel merito della discussione delle attuali proposte di riforma, volte a riconoscere o tutelare in diversa forma e misura unioni familiari di tipo diverso da quello tradizionale, ci preme però chiarire che è infondata l’affermazione secondo cui l’articolo 29, primo comma, della vigente Costituzione porrebbe dei limiti costituzionali al riconoscimento giuridico delle famiglie non tradizionali o non fondate sul matrimonio, come è ormai avvenuto in quasi tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale.
L’articolo 29, primo comma, non impone affatto alla Repubblica di riconoscere come famiglia solo quella definita quale «società naturale fondata sul matrimonio». Impone invece alla Repubblica di riconoscere i suoi diritti, in quanto espressione dell’autonomia sociale. Testualmente: «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Ad essa viene quindi garantita una sfera di autonomia rispetto al potere dello Stato. Per tale motivo sarebbe contraria alla Costituzione una legge ordinaria che mirasse a disconoscere i diritti di tali famiglie.
«Circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua [della famiglia] regolamentazione»: questa la funzione della disposizione secondo quanto ebbe a dichiarare Costantino Mortati nell’Assemblea costituente. «Non è una definizione, è una determinazione di limiti», ribadì nella stessa sede Aldo Moro.
Il Costituente del 1946-47 non poteva immaginare che nei decenni successivi sarebbe stata avanzata in Italia o altrove la richiesta del riconoscimento di famiglie di tipo diverso dal modello tradizionale, mentre vivo era invece il ricordo del tentativo fascista di monopolizzare l’educazione dei giovani, tentativo analogo a quello in corso proprio in quei mesi con l’instaurazione di regimi stalinisti in molti paesi dell’Europa centrale: e tale era appunto il pericolo che con la formulazione dell’articolo 29 si intendeva scongiurare.
Inoltre, secondo l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la disciplina nazionale può modulare variamente le modalità di esercizio dei distinti diritti di sposarsi e di costituire una famiglia, ma non in forme tali che possano portare alla vanificazione dell’uno o dell’altro.
Il riconoscimento giuridico di altre tipologie di famiglia non comporterebbe alcun disconoscimento dei diritti delle famiglie fondate sul matrimonio e non potrebbe quindi violare il disposto dell’articolo 29, primo comma, della Costituzione.
Il fatto che la Costituzione garantisca in modo particolare i diritti della famiglia fondata sul matrimonio non può in alcun modo avere come effetto il mancato riconoscimento dei diritti delle altre formazioni famigliari. A proposito delle quali vanno invece tenuti ben presenti il fondamentale divieto di discriminare sulla base, anche, di «condizioni personali», di cui all’articolo 3, primo comma, della Costituzione, e il dovere della Repubblica di riconoscere e garantire «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», di cui all’articolo 2, già richiamato in questa materia dalla giurisprudenza costituzionale.

sabato 10 febbraio 2007

DiCo: il diavolo è nei dettagli

Gianni e Michela stanno per compiere un passo importante: andranno a vivere assieme. Dopo qualche discussione, hanno deciso di non avvalersi dei diritti previsti dalla legge sui DiCo, optando per una completa libertà. Gianni, per la verità, ci è rimasto male: è la parte economicamente più debole della coppia – è traduttore, e lavora sporadicamente, mentre Michela è manager di una piccola azienda – ma svolge molte incombenze domestiche, e pensa che sarebbe giusto ricevere un assegno di mantenimento se le cose finissero male tra lui e la sua convivente; ma non ha avuto il coraggio di affrontare la questione. Quando è il momento di andare a dichiarare la convivenza all’Anagrafe si offre di farlo lui, visto che Michela rimane in ufficio tutto il giorno. D’impulso, però, decide di fare qualcosa di più: come prevede la legge all’art. 1 comma 3, invia una raccomandata con ricevuta di ritorno a Michela. Il postino, lo sa bene, non ha l’obbligo di consegnarla direttamente al destinatario (perfino l’ufficiale giudiziario può lasciare una notifica a un familiare del destinatario, o al portiere o a un vicino, secondo l’art. 139 del Codice di Procedura Civile); e in casa è lui che è sempre presente per ricevere la posta. Quando il postino porta la raccomandata, Gianni firma la ricevuta di ritorno, che gli tornerà indietro il giorno dopo e che nasconderà, mentre distruggerà la raccomandata per Michela. Se le cose andranno storte e se la convivenza sarà durata almeno tre anni, esibirà la sua ricevuta per dimostrare di avere ottemperato alla legge e per esigere gli alimenti da Michela. Domanda: come farà Michela a dimostrare di non aver mai ricevuto la raccomandata? E se invece i due fossero in un primo tempo d’accordo nell’accettare i diritti e i doveri previsti dal DiCo, ma Michela decidesse, dopo una brusca separazione, di non corrispondere più gli alimenti a Gianni, come farà quest’ultimo a dimostrare di aver consegnato la raccomandata, se l’avviso di ricevuta reca la sua firma e non quella di Michela?
Questi casi implicano, naturalmente, la quasi certezza di una causa in tribunale, e di tutto ciò che ne consegue; ma potrebbe anche non andare così. Sandra ha deciso di non avvalersi dei DiCo, e in particolare ha deciso che alla sua morte i suoi beni vadano interamente ai parenti che ne hanno diritto. Ma dopo la sua scomparsa Francesca, la sua compagna, tira fuori la ricevuta di ritorno – magari firmata dal portiere – senza che nessuno possa provare che Sandra non abbia mai avuto in mano la relativa raccomandata.
Forse il caso più sconcertante è questo: Giorgio non è sicuro di che decisione prendere sui DiCo, ma Enzo gli forza la mano inviandogli ugualmente la raccomandata. Giorgio l’ha ricevuta regolarmente, ma decide a questo punto che non vuol sapere nulla di diritti e doveri. Consulta la legge, e scopre che non esiste nessuna norma che gli consenta di sottrarsi: può soltanto chiedere a Enzo di distruggere la sua ricevuta di ritorno, e fidarsi eventualmente della sua assicurazione di averlo fatto.

Sarebbe sorprendente se il demenziale meccanismo della raccomandata sopravvivesse all’esame delle Camere. Se proprio si volesse mantenere lo spirito della legge, si potrebbe forse fare ricorso a uno scambio di attestazioni autografe fra i conviventi, in cui per esempio Gianni comunichi di aver effettuato la registrazione anagrafica, e Michela di aver ricevuto questa comunicazione; ciascuno dei due potrà godere dei diritti previsti della legge esibendo il documento rilasciatogli dall’altro – e pazienza se la macchinosità del tutto verrebbe così ancora aumentata, fino al ridicolo.
E tuttavia, anche questo potrebbe rivelarsi inutile. Spero di sbagliarmi, ma da certi indizi sembrerebbe di capire che in realtà il decreto legge non preveda affatto la possibilità per i partner di sottrarsi agli effetti giuridici che enumera, che interesserebbero quindi automaticamente tutti i conviventi, posto che si possa dimostrare il fatto della convivenza. Il comma 1 dell’art. 1 attribuisce infatti la titolarità di diritti e doveri senza subordinarli a nessuna manifestazione di consenso:

Due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale, non legate da vincoli di matrimonio, parentela in linea retta entro il secondo grado, affinità in linea retta entro il secondo grado, adozione, affiliazione, tutela, curatela o amministrazione di sostegno, sono titolari dei diritti, dei doveri e delle facoltà stabiliti dalla presente legge.
E il fatale comma 3 dell’art. 1 recita, a proposito dell’invio della raccomandata:
la mancata comunicazione preclude la possibilità di utilizzare le risultanze anagrafiche a fini probatori ai sensi della presente legge.
Non si dice affatto che i conviventi senza raccomandata sono liberi di fare ciò che loro aggrada; invece, si lascia aperta la possibilità – questa, almeno, è la mia impressione – che altre prove, diverse dalle risultanze anagrafiche, potrebbero obbligare i partner ai reciproci doveri della legge; non a caso, prove di questo genere vengono citate al comma precedente. Si noti anche che l’art. 3, dedicato alle sanzioni per le false dichiarazioni, riguarda chi «chiede l’iscrizione anagrafica in assenza di coabitazione ovvero dichiara falsamente di essere convivente ai sensi della presente legge», ma non chi falsifica la volontà del partner di accedere agli effetti giuridici della legge; come se quella volontà fosse appunto irrilevante ai fini dei DiCo.

Ma, se questo è vero, come si è potuta perpetrare questa enormità giuridica? E in ogni caso, che cosa ha determinato il ricorso al folle meccanismo della raccomandata con ricevuta di ritorno?
Nella bozza che era circolata più o meno riservatamente prima della presentazione ufficiale del disegno di legge, le cose stavano ben diversamente. Al comma 1 dell’art. 1 si leggeva:
Qualora due persone, anche dello stesso sesso, legate da reciproci vincoli affettivi e che convivono stabilmente, intendano avvalersi dei diritti e, conseguentemente adempiere ai doveri individuati dalla presente legge, ne fanno dichiarazione congiunta all’ufficiale dell’anagrafe del Comune dove hanno stabilito la comune residenza, il quale annota la data della dichiarazione e la integra nella scheda anagrafica di cui all’articolo 1 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228 ed agli articoli 4, 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
Cosa è successo fra la redazione della bozza e il completamento del disegno di legge definitivo? È successo quello che tutti sappiamo: che le gerarchie vaticane si sono lamentate:
qualsiasi modello di registrazione, certificazione o attestazione della convivenza, ad esempio di tipo anagrafico, alla quale venisse collegata l’attribuzione di diritti e di doveri dei soggetti che ne fanno parte, sarebbe del tutto gratuita, e finirebbe per riconoscere legalmente una realtà di tipo para-familiare, determinandola anzi come un nuovo status.
Ebbene, tutto ciò che qui si paventa, lo troviamo nella bozza messa abilmente in circolazione per saggiare l’opinione pubblica. È infatti l’articolo 1 a dare subito il là in senso para-matrimoniale al testo. In primo luogo, introduce il “rito” della dichiarazione di convivenza e della conseguente “annotazione” nell’anagrafe comunale e fa discendere da questo passaggio l’attribuzione di diritti e di doveri ai conviventi. Si delinea, insomma, un processo nel quale l’anagrafe diventa lo strumento non di un puro e semplice accertamento, ma dell’attribuzione di uno status giuridicamente rilevante. […]
Un conto è riconoscere alcuni diritti a persone che hanno dato liberamente origine a una situazione di fatto che rimane tale, e tutt’altro è dare a tale condizione una rilevanza giuridica che ne fa, appunto, la fonte di diritti e doveri assai simili a quelli previsti per la famiglia fondata sul matrimonio.
Così sul giornale dei vescovi («Il perché del nostro leale “non possumus”», 6 febbraio 2007). Molti commentatori hanno spiegato i cambiamenti apportati alla bozza con la volontà di cancellare ogni possibile qualità ‘rituale’ del passaggio allo status di conviventi; ma questo elemento, seppur certo presente, non spiega la portata degli stravolgimenti: lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere con la previsione di dichiarazioni anche disgiunte, senza ricorrere al grottesco scambio di raccomandate (nel testo licenziato dal Consiglio dei Ministri la dichiarazione, se resa in coppia, può essere soltanto contestuale, cioè contemporanea, ma questo dipende da motivi tecnici relativi all’impianto della legge su cui non vale la pena di soffermarsi).
Credo che il governo abbia voluto a tutti i costi tener conto del rifiuto del Vaticano di ogni possibile «nuovo status», a favore di «una situazione di fatto che rimane tale». Accettare di far dipendere diritti e doveri previsti dalla legge da una manifestazione di volontà dei conviventi, positiva o anche solo negativa, avrebbe significato creare di fatto una condizione diversa e nuova rispetto alla convivenza normale; ecco perciò che tutte le convivenze si trovano ad avere automaticamente (o comunque in seguito a una semplice comunicazione di un partner all’altro) effetti giuridici.

L’aborto giuridico che è il risultato di questo tentativo di evitare la vendetta politica delle gerarchie, non potrà che essere mutato profondamente dal Senato e dalla Camera. Bisognerà vedere però se i cattolici del centrosinistra che si dicono laici riusciranno ad accettare un testo diverso dall’attuale; gli agenti del Vaticano, per parte loro, non potranno che votare contro. Possiamo solo sperare che – dopo il disastro compiuto – il governo si faccia da parte, e che si ricerchi un’intesa con i volenterosi del centrodestra (Biondi, Moroni, etc.). Nel mentre, la nuova questione cattolica diventa nel nostro paese di giorno in giorno più drammatica.

venerdì 9 febbraio 2007

La realtà democratica di Paola Binetti

Paola Binetti (lo sapete chi è) su i DiCo (io fatico anche solo a scriverlo “DiCo”) dice (perdonate il disguido linguistico) che sono:

il miglior risultato che si poteva trovare in questo momento storico e con questa maggioranza così variegata. Bisogna prendere atto che questa è la realtà democratica.
Cara, cara, Binetti. La realtà democratica. A forza di studiare l’ave maria ha trascurato la filosofia politica, il diritto costituzionale e il buon senso.
La realtà democratica.
Forse che non esistono limiti alla realtà democratica?, avrebbe domandato mia nonna. Oppure si può contrattare e votare su tutto?
Una bella riunione di condominio sulla schiavitù: se i condomini a maggioranza votano “sì”, è fatta. Ristabiliamo la schiavitù! Ma sì. È la realtà democratica. La bellezza del voto popolare, il fascino civico. L’attrattiva del potere del voto.
Anche i fautori del pensiero liberale (quelli genuini, non gli usurpatori viventi) ponevano dei limiti solidi alle materie su cui non si poteva transigere: diritti. Parola desueta, e scomoda per Binetti travolta dalla passione per l’eternità e il perdono divino.
Benjamin Constant diceva che calpestare anche i diritti di un solo individuo è intollerabile. E che uno Stato che si macchia di un simile errore diventa illegittimo e dispotico.

Anche l’estetica non è il suo forte. Ha detto che avrebbe preferito:
si chiamassero ‘Didoco’, per evitare che si ponga l’accento più sui diritti che sui doveri delle coppie conviventi.
Chi ha altre proposte? Io direi ‘PreCuCo’ (= Presa per il Culo dei Conviventi).

Turismo matrimoniale

Dopo il turismo procreativo intensificato dalla legge 40, si comincerà a parlare di turismo matrimoniale.
Vogliamo avviare un database per precorrere i tempi?
Io ho già dichiarato la mia destinazione.

DiCo’s mother

Ve la ricordate? Certo che sì. Ebbene, è terribilmente somigliante ai 14 articoli dei DiCo (esiste acronimo più ridicolo?).
Sembra un testo normativo che dovrebbe tutelare i diritti delle persone conviventi e tutto il resto, invece è una mummia, una caricatura di un organismo vivente. Un impostore che indossa gli abiti di qualcun altro
Al cinema funziona, i colpi di scena sono assicurati, la sorpresa innegabile.
Ma in tema di diritti è un disastro. Scimmiottare il riconoscimento dei diritti è imperdonabile. E vergognoso.
A proposito, mi rifiuto di aggiungere l’etichetta DiCo. Continuo a chiamarli diritti civili o per semplificare Pacs. Ma DiCo, no, DiCo mi rifiuto.

Sconvolgente novità

ARTICOLO 4 (Assistenza per malattia o ricovero)

1. Le strutture ospedaliere e di assistenza pubbliche e private disciplinano le modalità di esercizio del diritto di accesso del convivente per fini di visita e di assistenza nel caso di malattia o ricovero dell’altro convivente.

giovedì 8 febbraio 2007

Abbozziamo?

Il testo della bozza sui conviventi uscita questo pomeriggio dal Consiglio dei Ministri è disponibile sul sito della Stampa. Nove anni per concorrere all’eredità del convivente defunto; per i termini della pensione di reversibilità, a quanto capisco, si è rimandata ogni decisione a un riordino della normativa. Surreale la comunicazione a mezzo raccomandata (con ricevuta di ritorno...) al partner per informarlo che lo si è iscritto all’anagrafe come proprio convivente.

mercoledì 7 febbraio 2007

Non possumus

Io non parlo tanto latino. Per una volta che è stata ironica non si può infierire. Però lo capisce anche un analfabeta il significato della dichiarazione.

lunedì 5 febbraio 2007

Progetti di convivenza

I progetti di legge presentati nel corso di questa legislatura sui patti di solidarietà, le unioni civili e le unioni di fatto sono già molti: per un elenco completo si può interrogare l’apposito motore di ricerca del Senato (che si usa anche per i disegni di legge presentati alla Camera), digitando conviventi nella casella «Ricerca per classificazione (Sistema TESEO)». Dei progetti già assegnati a una commissione è disponibile anche il testo, e di questi dò qui l’elenco:

C. 33
On. Franco Grillini (Ulivo) e altri
Disciplina del patto civile di solidarietà

C. 580
On. Franco Grillini (Ulivo)
Disciplina dell’unione civile

C. 1155
On. Enrico Buemi (Rnp)
Disciplina delle unioni di fatto

C. 1246
On. Daniele Capezzone (Rnp) e altri
Modifiche al codice civile e altre disposizioni in materia di unione civile

C. 1562
On. Titti De Simone (RC-SE) e altri
Norme in materia di unione registrata, di unione civile, di convivenza di fatto, di adozione e di uguaglianza giuridica tra i coniugi

C. 1563
On. Titti De Simone (RC-SE) e altri
Disciplina delle unioni civili

C. 1730
On. Dario Rivolta (FI) e altri
Disciplina del contratto di convivenza

S. 18
Sen. Vittoria Franco (Ulivo) e altri
Norme sul riconoscimento giuridico delle unioni civili

S. 62
Sen. Luigi Malabarba (RC-SE)Norme in materia di unione registrata, di unione civile, di convivenza di fatto, di adozione e di uguaglianza giuridica tra i coniugi

S. 472
Sen. Natale Ripamonti (IU-Verdi-Com)
Disposizioni in materia di unioni civili

S. 481
Sen. Gianpaolo Silvestri (IU-Verdi-Com) e altri
Disciplina del patto civile di solidarietà

S. 589
Sen. Alfredo Biondi (FI)
Disciplina del contratto d’unione solidale

S. 1208
Sen. Maria Luisa Boccia (RC-SE) e altri
Normativa sulle unioni civili e sulle unioni di mutuo aiuto

S. 1224
Sen. Roberto Manzione (Ulivo)
Disciplina del patto di solidarietà

S. 1225
Sen. Giovanni Russo Spena (RC-SE) e altri
Norme in materia di unione registrata, di unione civile, di convivenza di fatto, di adozione e di uguaglianza giuridica tra i coniugi

S. 1227
Sen. Giovanni Russo Spena (RC-SE) e altri
Disciplina delle unioni civili

Alcuni di questi disegni di legge sono nettamente migliori della misera bozza governativa che circola in questi giorni; spero di tornarci su fra poco.

Indovina chi viene a cena?

Il testo di legge governativo sui Pacs non ci piace, l’abbiamo detto fino alla noia. Non risponde alle esigenze e alle aspettative delle coppie di fatto, sia dal punto di vista del riconoscimento di diritti che spettano al cittadino secondo le norme costituzionali, sia sotto il profilo della dignità sociale e civile che deve essere riconosciuta a questo tipo di unione.

Che fare?

Protestare. Non rassegnarci.
Far sentire le voci di dissenso, non accettare il silenzio.

Chiediamo a tutti quelli che sono d’accordo di:
Unire la vostra voce alla nostra.
Contattare persone o associazioni che potrebbero partecipare alla protesta.
Farci sapere al più presto l’eventuale adesione nominale o in carne ed ossa alla Conferenza Stampa che stiamo organizzando e di cui vi daremo al più presto informazioni (nei commenti o inviandoci una mail).

Aggiorneremo questo post con le adesioni e le informazioni sulla Conferenza Stampa.

Approffitiamo anche per segnalare la Manifestazione nazionale sulle unioni civili del prossimo 10 marzo (a Roma, Piazza Farnese).
Anche su questa iniziativa forniremo ulteriori informazioni.


Aggiornamento 1

Ringraziamo per le adesioni:
Stefano Beretta
Maurizio Colucci
Aurelio Mancuso
Luigi Castaldi
Andreas Martini
Morgan Palmas
Raffaele Carcano
Ludivica Mazza
Davide Montanari
Egizia Mondini
Camilla Giunti
Silvana Prosperi
Annamaria Abbate
Pasquale Quaranta
Massimo Rivetta
Leilani
Marco Zamparini
Luca Schenato
Alessandro Capriccioli
Roberto Brigati
Raffaele Prodomo


Sostengono l’iniziativa:
UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti)
LIFF (Lega Italiana Famiglie di Fatto)
Associazione Amica Cicogna Onlus
No God
Consulta di Bioetica

domenica 4 febbraio 2007

Pacs: automobili progettate per non durare

Nella sezione Famiglia di Avvenire trovo l’ennesima invettiva sui Pacs, sebbene si chiami “obiezione” (L’obiezione. Lo Stato protegga i legami stabili, 26 gennaio 2007, di Giacomo Samek Lodovici).
Ogni parola è incantevole, ma il passaggio che mi seduce è:

Il matrimonio è una forma di relazione che ha un valore pubblico e il diritto riconosce che l’unione familiare ha un significato sociale, in quanto, anche se i coniugi si amassero poco, assicura la continuazione di una società e la migliore protezione dei figli.
Cercando qua e là “Giacomo Samek Lodovici” mi imbatto in un articolo meritorio di attenzione, pubblicato dal nostro con il titolo No ai Pacs, in nome della laicità, su Il Timone in data 11 dicembre 2006.
Poi non dite che non ci aveva messo in guardia.
L’articolo inizia con un “Dunque, (virgola)” che mi fa venire in mente tutte le buone regole di scrittura che i tanti insegnanti hanno provato a inculcarci nel corso degli anni – evidentemente senza successo.
Ma il fallimento pedagogico si dimentica presto.
Samek Lodovici (posso chiamarti “Giacomo” che è più facile?) inizia dalla fine. Rovinerebbe un romanzo giallo anticipando il finale; ma qui si scrive di questioni serie e non di maggiordomi assassini. Perciò Giacomo ti avverte subito che quanto deve dimostrare è il rifiuto di
una qualsiasi equiparazione tra il matrimonio e queste forme di unione. Non è una questione di fede, basta essere “laici” per sostenerlo.
Infatti, lo Stato deve incentivare quelle forme di vita che contribuiscono al bene comune ed il maggior contributo consiste nella procreazione e nell’educazione dei figli, che assicurano la sopravvivenza di una società. Ora, il contesto più propizio per la nascita, la crescita e l’educazione di un uomo è una relazione interpersonale stabile.
Oh, oh. Quante sicurezze apodittiche! Quante verità indiscutibili!
Giacomo poi si affida agli studi per dimostrare che i non sposati sono fedifraghi e infedeli. Trascuro per ora gli studi citati da Giacomo e tutti gli altri studi che non ha citato perché sono attratta da un altro argomento: le unioni omosessuali.
Venendo alle unioni omosessuali, esse non possono contribuire alla continuazione della società mediante la procreazione. Possono farlo adottando dei bambini? Ciò vorrebbe dire quanto meno, privare volutamente dei bambini della figura paterna/materna. I dati finora a disposizione indicano che i bambini affidati a queste coppie hanno una propensione molto più alta a soffrire di disturbi psicologici, ad avere poca autostima, alla tossicodipendenza e ad autolesionarsi, almeno per i seguenti tre motivi. Primo: l’assenza della figura materna/paterna. Secondo: la fragilità dei rapporti omosessuali, molto più brevi dei matrimoni, con o senza figli. D. McWirther e A. Mattison, due ricercatori gay, hanno esaminato 156 coppie omosessuali: solo 7 di queste avevano avuto una relazione esclusiva, ma nessuna era durata più di 5 anni. Inoltre, un’indagine su 150 omosessuali ha mostrato che il 65% già a 40 anni aveva avuto più di 100 partner. Terzo: da altre ricerche si vede che gli omosessuali hanno una probabilità superiore di soffrire di problemi psicologici.
Esilarante la postilla, buttata lì con noncuranza da Giacomo, ai due ricercatori (sono gay, non potete sospettarli di inquinare i risultati). Ma soprattutto le inferenze di Giacomo dai dati presenti in The Male Couple (pubblicato nel 1984 e relativi a coppie di San Diego): non sei un buon genitore se hai molti rapporti omosessuali e se non hai un rapporto esclusivo; non sei un buon genitore se hai la sfiga di essere da solo (perché sei vedovo o perché sei stato mollato); non sei un buon genitore se hai un rapporto fragile; non sei un buon genitore se soffri di disturbi psicologici.
Risultato: sono proprio pochi i buoni genitori (ovvero quelli che non hanno nessuna delle quattro piaghe suddette).
Non so a quali studi si riferisce Giacomo per affermare che “i bambini affidati a queste coppie hanno una propensione molto più alta a soffrire di disturbi psicologici, ad avere poca autostima, alla tossicodipendenza e ad autolesionarsi”. Ma esistono studi che affermano il contrario di quanto Giacomo dice. Per fare solo un esempio, (How) Does the Sexual Orientation of Parents Matter?, 2001, Judith Stacey e Timothy J. Biblarz, “American Sociological Review”, 2001, Vol. 66, pp. 59-183.
Ma è necessario leggere con attenzione studi e numeri. Altrimenti si inciampa in qualche inferenza affrettata...
Giacomo chiude con una metafora strabiliante e un monito terrorizzante. In mezzo una ulteriore dimostrazione della fallacia dei Pacs addirittura proveniente dalla Antropologia Culturale. Però.
I matrimoni sono come automobili progettate per funzionare per tutta la vita e possono rompersi, ma gli altri tipi di unione sono come automobili progettate per funzionare solo per un certo periodo, dopo il quale si rompono quasi sempre: il vincolo giuridico matrimoniale ed il diverso atteggiamento dei coniugi rafforzano l’impegno.
Ancora, l’antropologia culturale mostra che la ritualizzazione (per esempio la cerimonia nuziale) di un impegno accresce la capacità di rispettarlo.
Infine, i coniugi assumono i doveri di coabitazione, di curarsi reciprocamente, di contribuire ai bisogni della famiglia, di versare gli alimenti in caso di separazione o divorzio, ecc. Se il governo attribuirà ai conviventi i diritti dei coniugi, ma non gli stessi doveri, i coniugi saranno discriminati.

Variazioni sui Pacs

Riccardo Pedrizzi, deputato di Alleanza nazionale (UNIONI CIVILI/PEDRIZZI (AN): A PADOVA POLIGAMIA E PACS UOMO-CANE, APCom, 3 febbraio 2007, da GayNews):

Ora potranno chiedere al Comune di Padova il riconoscimento di famiglia anagrafica basata su vincoli affettivi, con tutto ciò che questo comporta in termini di assegnazione di diritti, provvidenze, benefici e agevolazioni, anche un uomo che coabita con un cane o un nucleo poligamico.
[…]
A questo porta il varo della mozione che equipara, dal punto di vista della registrazione anagrafica, e quindi della formalizzazione pubblica, la famiglia naturale, legittima e costituzionale fondata sul matrimonio ad una fantomatica famiglia basata su vincoli affettivi.
[…]
Una mozione approvata con il voto determinante dei sedicenti cattolici della maggioranza di Sinistracentro che governa il Comune di Padova e che ha ricevuto la ‘benedizione’ del ministro della Famiglia Rosy Bindi, che l’ha ritenuta in linea con il programma dell’Unione in materia di coppie di fatto.
[…]
La nozione di ‘vincoli affettivi’ è assolutamente vaga e generica. Così tutto (e niente) diventa famiglia. Perfino una donna che convive con una gatta o un nucleo poligamico. E ad essere ulteriormente danneggiata, penalizzata e discriminata, sarà la coppia che, sposandosi, si assume di fronte alla società e allo Stato responsabilità e doveri definiti e precisi. Alla famiglia naturale, legittima, tradizionale e costituzionale fondata sul matrimonio, insomma, saranno sottratti diritti, risorse, benefici e facilitazioni, per indirizzarli a chi altro non dovrà fare che dichiararsi ‘vincolato affettivamente’. È la stessa cosa che il Sinistracentro, col ddl Bindi-Pollastrini e la complicità dei Teodem […] vuole fare a livello nazionale.
Meglio un Pacs con un cane che con Pedrizzi. Meglio un Pacs con un cane di un tradizionale matrimonio con Pedrizzi. Insomma meglio un cane di Pedrizzi.

(Foto Cane e padrone, di Marcello)

sabato 3 febbraio 2007

De rerum Mastellae

Con spirito di sacrificio Clemente ha dichiarato:

Nonostante abbia 39,4 di febbre, ho letto la bozza del disegno di legge sulle coppie di fatto e una cosa è chiara: è folle. Qui si configura l’anagrafe delle coppie di fatto, anche per i gay, un vero e proprio matrimonio di serie B. Purtroppo tutti i miei timori sono confermati. Se il testo rimane questo non è possibile discutere. Se c’è disponibilità a cambiarlo, allora dobbiamo lavorare per ridurre il danno
[…]
È irricevibile. È difficile metterci mano se non si cambiano la logica del provvedimento. C’è perfino una norma transitoria che consente il riconoscimento retroattivo delle coppie di fatto.
Soltanto due giorni prima... (Arcigay Campania contro Sandra Lonardo Mastella, Caserta News, 31 Gennaio 2007):
In una intervista pubblicata dal Corriere della Sera la presidente del Consiglio Regionale della Regione Campania, Sandra Lonardo, afferma con espressioni offensive, caricaturali e pregiudizi che le coppie omosessuali non sono in grado di costituire famiglia. “Con le sue affermazioni la signora Mastella è stata capace di superare se stessa meritando il primo premio del politicamente scorretto”, afferma Salvatore Simioli, presidente dell’Arcigay di Napoli, “dovrebbe imparare che il silenzio giova a chi è messo a ricoprire un ruolo politico solo perché moglie di un ex-democristiano”. “Se vuole conoscere una famiglia gay venga a casa mia, io ed il mio compagno faremo il possibile per insegnarle il rispetto degli altri”, conclude Simioli. “Intanto dimostra di essere inadeguata al ruolo delicato che ricopre, per questo ci auguriamo che ritorni a fare la “sovrana” di Ceppaloni: risulterebbe meno dannosa per la Regione Campania, per la Sinistra, per la nostra democrazia”. “L’invito a pranzo della signora Lonardo noi lo accettiamo e volentieri”, afferma Veniero Fusco, presidente dell’Arcigay “Coming Out” di Caserta e Benevento, “ma solo se c’è il suo coniuge, il senatore e ministro della Giustizia Clemente Mastella, che ha annunciato astensione al Consiglio dei Ministri e voto contro al Senato sulla legge per le Unioni Civili, così potremmo prendere “due piccioni con un pacs” e spiegare loro perché due omosessuali possono non solo costituire una famiglia ma anche meritare e rivendicare che questa sia riconosciuta con i dovuti diritti dal nostro Stato”.

Caro Pacs, ti scrivo

È datata, ma solo cronologicamente perché senza dubbio i protagonisti non hanno cambiato idea e perché altri oggi ne appoggerebbero il contenuto.
Chi scrive è Massimo Colombo, Collegio regionale di garanzia Prc Liguria, Direttivo circolo Prc Albenga. Sono le sei del pomeriggio dello scorso 11 dicembre.
L’argomento si capisce dal titolo della lettera, Da un esponente di Rifondazione un’opinione personale sui PACS, inviata a “Il Vostro Giornale”, quotidiano di informazione della provincia di Savona.

Come dirigente regionale di un Partito di Sinistra e specialmente come cattolico praticante in questi ultimi tempi sono molto a disagio sui temi riguardanti i PACS che alcuni esponenti del centrosinistra si ostinano a voler portare avanti, nonostante vi siano problemi ben più urgenti da risolvere per il bene del Paese. Ritengo purtroppo che vi sia una ondata di anticlericalismo (non solo nell’Unione), che fa solo del male alla nostra società e che a tutti i costi vuole nascondere le radici che accomunano l’Europa. Voglio chiarire che la mia posizione personale è completamente a favore di quanto dice la Chiesa Cattolica e che al contrario del Ministro Turco non ritengo ingerenze le posizioni della Chiesa, ma spunti di seria riflessione. Tengo a precisare inoltre che anche altre religioni e confessioni sono contrarie ai PACS, ma nessuno questo lo vuole far notare... Auspico che per il bene della Famiglia come fondamenta della nostra società, si evitino le confusioni che stanno minando la nostra società stessa, nella quale le nuove generazioni stanno crescendo senza più veri punti di riferimento e con troppi esempi negativi (la violenza, il bullismo e i danni nelle scuole ne sono un esempio). So che queste mie parole a molti non piaceranno, ma è giusto che ognuno possa dire liberamente come la pensa. Il S. Natale del Signore ci illumini e il Santo Padre guidi sempre la Chiesa sulla retta via tracciata da Dio.
Già la lettera è fulminante. Non so decidere se sia più geniale il richiamo all’ordine sulle questioni più urgenti o il suggerimento che tra gli esempi negativi (la violenza, il bullismo e i danni nelle scuole) rientrino anche i Pacs come terroristi della famiglia. Parlare del centrosinistra come di una coalizione politica avanzata e rivoluzionaria, poi, è davvero esilarante. È comico.
Tuttavia i commenti alla missiva di Colombo, difficile da credere, superano il maestro.
Ne riporto un paio (non posso garantire la assoluta certezza che chi ha stilato il commento sia esattamente il nome che ha usato. Posso solo garantire, ad esempio, che esiste un Roberto Nicolick che è consigliere provinciale della Lega Nord).
Roberto Nicolick, Consigliere provinciale Lega Nord (11 Dicembre 2006 alle 22:48)
Non voglio entrare nel merito della fede che professo, essendo questa un fatto puramente ristretto alla mia sfera personale e privata, ma se un governo, di qualsiasi colore politico, vuole imporre alla ribalta legislativa e fiscale un fatto privato come le unioni di fatto, allora penso che sia il caso di esprimere una ferma e decisa contrarietà. […] Mi stupisco dello stupore di alcuni cosiddetti benpensanti che vorrebbero imbavagliare un papa e i suoi cardinali, tacciandoli di pesanti ingerenze politiche solo perché hanno espresso opinioni autorevoli e per giunta da una sede prestigiosa.
Guido Lugani, Coordinatore di Forza Italia Giovani Albenga (12 Dicembre 2006 alle 02:51)
I PACS sono patti di puro egoismo personale, che vogliono permettere tutto e il contrario di tutto. Credo che il paese abbia altri problemi ma purtroppo qualcuno ha fatto eleggere LUXURIA e GRILLINI in Parlamento e adesso gli devono dare il “contentino”.
Credo che i politici possano riflette sulla possibilità di allargare le libertà civili di ogni persona, ma legiferare i PACS sarebbe mettere la parola fine sul significato di famiglia.
Comunque credo che il problema è serio e possa essere affrontato ma sicuramente non adesso, proprio quando ci vogliono appioppare questa Finanziaria!!!
Mi compiaccio delle parole del Sign. Colombo, complimenti bella prova di onestà intellettuale.
Ho corretto gli errori di ortografia in tutti e tre gli interventi.
Sui commenti ho poco altro da aggiungere.
Soltanto, caro Lugani, che tutto comprende anche il suo contrario. Avrebbe risparmiato 5 parole. Magari per ribadire con foga: “I Pacs fanno davvero schifo!”.

Aggiornamento
Su segnalazione di lik, riporto la risposta di Marco Ravera,
 Segretario provinciale PRC
 Savona (28 Dicembre 2006):
I PACS non si toccano
Dura presa di posizione del Segretario provinciale alle dichiarazioni di un iscritto al PRC contro i “Patti civili di solidarietà”.
Dopo le imbarazzanti dichiarazioni sul Presidente della Provincia Marco Bertolotto, Massimo Colombo componente del Collegio regionale di garanzia del PRC, che è bene sottolinearlo si occupa principalmente di verificare i bilanci ed i conti consuntivi del partito ed è quindi un po’ una forzatura autodefinirsi “dirigente regionale”, espone maldestramente anche la sua posizione sui cosiddetti PACS.
Una posizione integralista in netta contrapposizione a quella del partito, e a mio modo di vedere lesiva della immagine pubblica del PRC, su un argomento non certo marginale come quello dei diritti. Non certo un tema “lasciato” alla libertà di coscienza. La difesa e la conquista dei diritti in ogni ambito rappresentano un punto centrale della politica di Rifondazione Comunista. Non capisco perché il nostro partito dovrebbe lottare per il diritto allo studio, per il diritto alla casa, per il diritto al lavoro, per il diritto alla pensione, ma dovrebbe fermarsi di fronte ai più elementari diritti delle persone.
Per questo anche i PACS rappresentano una priorità al pari della lotta alla precarietà, della lotta per il diritto alla casa, della lotta per la difesa delle pensioni, ecc...
Un’ultima considerazione. Rifondazione Comunista è contro ogni forma di integralismo. Religioso e non. Stando ai sondaggio più della metà della popolazione italiana che si professa di fede cattolica è favorevole ai PACS (68,7% secondo un’indagine Eurispes). Quindi Colombo con le sue dichiarazioni si colloca non tra le fila del cattolicesimo democratico, del cattolicesimo “progressista” (se mi si passa il termine), ma dell’integralismo cattolico quello che, per ultimo, ha negato i funerali a Pier Giorgio Welby.
Nei prossimi giorni Colombo verrà convocato. A prescindere dalle ortodosse posizioni personali, firmate tuttavia con gli “incarichi” di partito, è opportuno chiarire con il diretto interessato se egli si sente ancora parte di un partito che difende tutti i diritti oppure no.
Tuttavia, ad essere preoccupante, oltre alla giovane età di Colombo (31 anni, come lik segnala), è il fatto che le presunte e deliranti ragioni per opporsi ai Pacs adottate da Colombo si trovino sulla bocca di molti.