lunedì 23 luglio 2007

La morte è un fatto e non un diritto

Oggi Lucetta Scaraffia commenta il nuovo libro di Adriano Pessina (Perché non esiste il “diritto di morire”, Corriere della Sera, 23 luglio 2007). Quale giorno più propizio di oggi!
Si comincia così:

Per capire le ragioni dei cattolici nei confronti del testamento biologico e dell’eutanasia — e fare giustizia delle generiche accuse di «paternalismo» o di nostalgia per uno «Stato etico» avanzate da chi sostiene a tutti i costi la necessità di una legge sul testamento biologico — è utile leggere il breve saggio Eutanasia di Adriano Pessina (Cantagalli, pagine 116, euro 12,50), che con lucidità e chiarezza ne spiega le ragioni morali e filosofiche: che non sono, quindi, solo religiose.
L’avvio mi suggerisce un leit motiv della campagna referendaria sulla legge 40: avere un figlio a tutti i costi. E il fatto che venga piegato fino a diventare, il fare qualcosa a tutti i costi, ostinazione o peggio cocciutaggine infantile su una esigenza inutile e dannosa (avere un figlio o una legge sul TB). Ciò che è buffo è che se sostituiamo “avere un figlio” o “fare una legge sul TB” con laurearsi o conquistare un obiettivo non è poi tanto evidente il motivo di condanna. Insomma, fare qualcosa “a tutti i costi” non è di per sé negativo, dunque bisognerebbe spiegare le ragioni del disprezzo che trasuda dall’espressioni in oggetto. Vediamo se Lucetta riesce, con l’aiuto di Pessina, a offrirne qualcuna.
Innanzitutto l’autore distingue nettamente fra eutanasia e sospensione dei trattamenti valutata come accanimento terapeutico, e ricorda che invece alcuni sostenitori dell’eutanasia tendono a equiparare queste situazioni, negando che esista una reale differenza, come si è visto nel caso Welby. Con una mossa teorica che radicalizza la centralità dell’autonomia essi pongono infatti le premesse per questa confusione — e oggi molti dei più strenui sostenitori del testamento biologico sono anche a favore dell’eutanasia — mentre, ricorda Pessina, «la legittimità o no di un rifiuto non dipende solo ed esclusivamente dal fatto che sia frutto di una scelta libera, ma dalle ragioni che la sostengono».
Le ragioni che sostengono una libera scelta? Allora vediamo. Se io sono libero di andare a passeggio, posso andare a passeggio per le ragioni più strambe. Oppure no? Devo forse dimostrare che vado a passeggio per ragioni legittime? Giudicate legittime da chi? O sono libero, oppure non lo sono. È questa libertà (di andare a passeggio o di rifiutare un trattamento) che deve essere sostenuta da ragioni valide, ma una volta affermata non può essere perennemente sottoposta a un tribunale non meglio identificato che ne valuti le declinazioni. Vai a passeggio per incontrare lo zio? Va bene. Vai a passeggio per fumare una sigaretta? Mica tanto. Vai a passeggio per comprare una rivista porno? Assolutamente no, permesso negato. Non funziona. Se io sono libero di rifiutare un trattamento, sono in grado di capirne le conseguenze e decido di avvalermi di questa possibilità, nessuno può venirmi a dire che le mie ragioni a sostegno del mio rifiuto sono inconsistenti.
Ponendo la scelta come fondamento del valore di ciò che viene scelto si arriva infatti a giustificare il discutibilissimo «diritto di morire». E proprio «la scorciatoia formalistica e proceduristica» proposta su questa base sembra allora più facilmente percorribile, perché evita «il confronto tematico, il giudizio morale». Anche se la nostra epoca è affascinata dal primato della volontà, bisogna rendersi conto che «la possibilità di decidere di sé fino al punto di non essere più è, e resta soltanto un fatto, non costituisce né un diritto né un bene».
Se la parola “diritto” anteposta a “di morire” crea tanto fastidio possiamo parlare di libertà. Non è questione di evitare il giudizio morale ma di non trasformarlo in una imposizione moralistica o in una legge, per il bene di qualcun altro o perché “io non lo farei”. Lo slogan che la morte è un fatto e non un diritto è davvero esilarante. Anche la vita è un fatto, anche la libertà o il rispetto. La nostra stessa esistenza. Ciò non significa che non possa esserci un aspetto da preservare, da garantire, da proteggere.
Possiamo sostituire “diritto di morire” con “diritto di scelta”, se la scelta non è imbavagliata e delimitata. E allora nella scelta rientra anche il morire, il come morire e il quando morire. Va bene così?
Quanto al fatto che la possibilità di scegliere di morire non sia (non possa mai essere) un bene c’è da discutere molto. E la discussione verterebbe su principi quali l’indisponibilità della vita o la sua sacralità. E gli antagonisti come la qualità di quella vita e la proprietà, quindi la possibilità di disporne. Qualche volta morire può essere un bene, quando l’esistenza è torturata da una malattia, ad esempio. Chi decide? Il diretto interessato. È soltanto lui che può stabilire se la sua esistenza sia ancora un bene. E come imporgli qualcosa di diverso?
Parole che fanno riflettere sulla necessità di un testamento biologico, di recente negato in Italia anche dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri che ha invece proposto di valorizzare l’importanza di un’alleanza terapeutica fra medico e paziente e l’uso delle cure palliative.
Negato? In che senso negato? Suggerirei, poi, di analizzare le ragioni di questa “negazione” e di non usarla come principio di autorità. Inoltre è ipocrita e scorretto insinuare che chi è a favore delle direttive anticipate sia contrario alle cure palliative o alla alleanza terapeutica. Basta con questi luoghi comuni ingenui e sciocchi.
Il funzionamento problematico di questo strumento giuridico è già stato rilevato nei Paesi dove è da tempo in vigore: qui — in assenza di chiare volontà del paziente, del resto molto difficili da specificare in situazioni in cui le scoperte scientifiche ampliano in modo continuo le possibilità della medicina — si è esteso il ruolo del «fiduciario». Anche se numerosi studi, condotti su pazienti terminali che non hanno ancora perso coscienza, hanno dimostrato che le scelte dei fiduciari, di fronte alle decisioni sulla fine della vita, sono molto discordanti da quelle del paziente.
Le scoperte ampliano le possibilità della medicina senza miracoli, purtroppo. Anche questo argomento, se ci si riflette invece di ripeterlo come una cantilena, è barcollante. Quali studi? Sarebbe interessante leggerli, e non avendo la fonte non posso pronunciarmi. Ricordo solo che finché il paziente è lucido può decidere lui, quando dovesse perdere conoscenza ascoltare il fiduciario è un modo (seppure imperfetto) di eseguire le sue volontà. L’assenza di indicazioni del paziente e di un fiduciario in che modo migliorerebbe la situazione? Abbandonando al caso le decisioni?
Particolarmente grave è stata poi l’estensione di questa «autodeterminazione» ai bambini di meno di un anno — chiaramente privi della possibilità di scegliere — in assenza di reali speranze di sopravvivenza o affetti da gravi anomalie, che nella metà dei casi si traduce nella decisione di sospendere o annullare trattamenti per accelerare la morte del bambino.
Bisogna quindi essere molto prudenti nel legiferare su un tema così pericoloso e delicato, soprattutto quando si propongono leggi non necessarie. Ricordando, come scrive Pessina, che il rifiuto del «diritto di morire» non deriva «da nessuna sacralizzazione della vita astrattamente intesa, ma dal rispetto del senso storico dell’esistere».
Leggi non necessarie. Non mi sembra di avere letto una sola motivazione del fatto che una legge sulle direttive anticipate sarebbe superflua. Confesso la mia confusione rispetto al “senso storico dell’esistere”. Proprio non capisco di cosa si tratti. Forse è roba di filosofi continentali…

12 commenti:

Anonimo ha detto...

A scanso di equivoci, vorrei sottolineare che il gatto non è in chemio ma è affetto da un'innocua ipoticro... ipocrito... ipotrico..., insomma è un gatto Sphinx. Ha capito che quello di Pessina è tutto fumo negli occhi e quindi li chiude.

Chiara Lalli ha detto...

Gli sono caduti tutti i peli per lo sforzo di capire... E poi dissimula spacciandosi per una razza. Ecco come stanno davvero le cose!

Anonimo ha detto...

Insomma, il nocciolo della questione è sempre lo stesso: non riconoscere all'individuo il diritto alla libera scelta.

Farebbero prima a dire, con onestà e senza ipocrisie: Dio (il loro) non vuole.

Splendida analisi, complimenti.

restodelmondo ha detto...

Chiara: devi avere in casa una fornitura di antiacido a ettolitri. Attenta. Se lo sa certa gente, è pronta a dichiarare che l'acidità di stomaco è un fatto, e il Maalox non è un diritto (tant'è vero che mio cugino era allergico e ci è andato in shock anafilattico*, vuoi che non sia pericoloso?).

E il gatto è bellissimo.

*non era mio cugino e non era proprio il Maalox, ma un mio parente ha davvero rischiato le penne per un antiacido da banco. Medici di passaggio, strabiliate pure.

Anonimo ha detto...

La Morte, come la Vita, è un dono di Dio.

Chiara Lalli ha detto...

Illaicista, sono d'accordo con te. Magari dismettessero le ipocrisie! Premettono: "io non sono paternalista" e poi ti elencano ciò che devi fare per il tuo bene...
(grazie per i complimenti).

Restodelmondo, speriamo che nessuno controlli. Ho cose ben più illegali di un Maalox in casa, e certo bisognerebbe fare qualcosa "per il mio bene". Perché la mia vita non mi appartiene, e io non ho il diritto di metterla a repentaglio.
Come giustamente ci ricorda Anonimo, la Vita (con la v maiuscola) è un dono di dio, pure la morte. Ma io quello che non ho mai capito è: un regalo non si può restituire? O, al più, riciclare?

Joe Silver ha detto...

Confesso la mia confusione rispetto al “senso storico dell’esistere”. Proprio non capisco di cosa si tratti. Forse è roba di filosofi continentali…

E' che sei troppo seria e accademica per affidarti a San Google... Comunque meglio così.

Chiara Lalli ha detto...

Joe Silver, dici che San Google può trasformare i continentali in qualcosa di senso? In qualcosa di comprensibile?
Se così fosse, prometto, mi converto...

Joe Silver ha detto...

Capire, capire... voi filosofi pretendete pure di capire quello che dicono i vostri colleghi! Per me è sufficiente memorizzare qualche frase e qualche nome "continentale", per fare una figurona con i miei amici... :-)

Chiara Lalli ha detto...

Se vuoi posso farti da negro e prepararti qualche discorsetto con cui faresti furore...

Ivo Silvestro ha detto...

C'è continentale e continentale (come ci sono analitici e analitici, del resto).
Comunque: ottima analisi e ottima foto.
Per comprendere l'obiettivo di Lucetto & co. bastava mettere in bella evidenza la frase sospensione dei trattamenti valutata come accanimento terapeutico.
Ecco, se è accanimento va bene, altrimenti no. Ha un senso questa affermazione? No, però se la togliamo crolla tutto come un castello di carte...

Concediamo pure che l'espressione "diritto alla morte" sia problematica: qui si parla di libertà di scegliere le proprie cure, che siano o no accanimento terapeutico.

Chiara Lalli ha detto...

Ivo Silvestro, concordo su quanto dici.
L'accanimento terapeutico è oppure non è (oddio, parlo quasi come un continentale...) in base alla volontà del paziente. Può bastare dunque dire che si parla di libertà. E se la libertà è presa sul serio, c'è davvero poco da aggiungere. Altrimenti entriamo nel circo delle prese per il culo. La più aulica è invocare la sacralità della vita etc. etc. e guardare qualcuno morire di fame e di sete.
Ma la vita è sacra.