sabato 3 dicembre 2011

Dieci considerazioni su Travaglio (e Magri)

Il commento di Marco Travaglio riguardo al suicidio assistito di Lucio Magri offre numerosi spunti di riflessione. Li elenchiamo senza ulteriori introduzioni.

1) Le prime righe sono “io non farei”, “io non direi”. Quando finalmente leggiamo “Ma qui mi fermo” è troppo tardi. Per l’ennesima volta siamo di fronte alla regola, suggerita e poi ritirata, che gli altri dovrebbero comportarsi come ci comporteremmo noi. Pareri, certo, ma dal sapore profondamente paternalistico e moralistico.

2) L’ipocrisia del suicidio assistito e il vero nome: omicidio del consenziente. Potremmo discutere di nomi e termini, ma se siamo disposti ad arretrare e a domandarci se possiamo disporre della nostra vita, ci accorgeremmo che i due concetti si sovrappongono. L’omicidio è moralmente condannato perché, tra le altre ragioni, viola la volontà di chi è ucciso. Se a “omicidio” aggiungiamo “consenziente” questa condanna vacilla. Inoltre parliamo di suicidio assistito quando ci muoviamo in campo sanitario. La malattia terminale non è una bacchetta magica per giustificare alcunché, ma una delle condizioni in cui si può discutere se è lecito o no domandare di essere aiutato a morire. Il problema è eventualmente il coinvolgimento del medico e la sua volontà, non che non ho una malattia terminale.

3) Eutanasia, Mario Monicelli o Eluana Englaro: “non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina”. Come dicevo prima non ci sono solo le malattie terminali da considerare. Piergiorgio Welby non era un malato terminale. Ci sono molte condizioni cliniche croniche che alcuni non tollerano e non vogliono più vivere e che non possono essere considerate malattie terminale. Ce ne freghiamo di queste persone oppure vogliamo perdere un po’ di tempo a pensarci? Inoltre Travaglio sembra verosimilmente riferirsi a Eluana Englaro come “in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina”. Giusto per precisione, qualora fosse rivolta a lei questa descrizione: Eluana Englaro era in una condizione che si chiama stato vegetativo persistente e permanente e non era attaccata a nessuna macchina. Aveva un sondino nasogastrico per la nutrizione e l’idratazione artificiale.

4) Suicidio assistito dal punto di vista logico: qui la logica salta del tutto. “Chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quellaltro” (il corsivo è mio). Quindi anche quando vado dal medico per farmi togliere le tonsille la mia vita non è più mia perché chiedo al medico di asportarle? O vale solo per la richiesta di morire? La morte fa parte della nostra esistenza e fa parte anche dell’esistenza del medico (come persona, ovviamente, ma qui prima di tutto come operatore sanitario). Quando Welby ha chiesto - ha “incaricato” - un medico ha forse regalato la sua vita al medico? E poi: se il medico è d’accordo come ne uscirebbe Travaglio? A nessuno piace crepare e sembra facile, stando seduto sul divano di casa comodamente, condannare la richiesta di persone in condizioni che è necessario conoscere prima di giudicare.

5) Suicidio assistito dal punto di vista giuridico: speravo di non ritrovarmi quella espressione terribile che finisce con il “punto” - scritto a lettere e poi seguito dal punto come segno di punteggiatura. Ma via è un dettaglio. Ciò che manca in questo punto di vista è il contesto sanitario. Insinuare l’analogia tra il boia e il medico è una mossa sporca e fuori tema. Inoltre si dimentica la volontà dell’individuo, che in campo sanitario (e in molti altri campi) distingue un atto di abuso da un atto lecito. Non dimentichiamo che la tecnologia medica oggi ci permette di ottenere risultati fino a qualche anno fa impensabili, ma ci mette anche di fronte a condizioni moralmente complesse. Le tecniche di rianimazione, per esempio, hanno l’effetto di far sopravvivere il nostro corpo anche con il nostro cervello distrutto - Eluana Englaro qualche tempo fa sarebbe morta - o le tecniche di respirazione e di nutrizione permettono di prolungare la nostra vita, ma a volte in condizioni che riteniamo inaccettabili. Dovremmo essere autorizzati a interrompere trattamenti o tecnologie di sopravvivenza e dovremmo essere assistiti - oppure il medico dovrebbe abbandonare i pazienti al loro destino? Dovrebbe girarsi dall’altra parte, dicendo loro di organizzarsi per proprio conto? A nessuno piace crepare e a nessun medico piace accompagnare alla morte i pazienti, ma l’alternativa al coinvolgimento dei medici (coinvolgimento difficile, emotivamente faticoso, giuridicamente scivoloso, un coinvolgimento che necessita di un dibattito serio e non ipocrita) è fare finta di niente. Ultima considerazione: perché non riferirsi - o almeno considerare - l’articolo 580 del Codice Penale, istigazione o aiuto al suicidio?

Le altre 5 su Giornalettismo.

27 commenti:

Anonimo ha detto...

Cose che capitano quando un bravo, anzi eccellente giornalista, si occupa di argomenti (nello specifico la bioetica) che evidentemente non sa o non vuole approfondire.

Alfondo ha detto...

A me pare che Travaglio, al di fuori della cronaca giudiziaria (su cui, per altro, la sua competenza è pari alla sua arte retorica), non sia proprio un eccellente giornalista, ma un calderone di banalità superficiali.

Anonimo ha detto...

Possibile che qualunque affermazione che non sia a favore dell'eutanasia sia "paternalistica, moralistica"? Questi commenti mi sembrano più delle sparate che delle riflessioni. Si incentrano sul tema dell'autodeterminazione: "della mia vita faccio quello che mi pare, e se nel farlo mi faccio aiutare, poco importa". Quello che evidentemente sfugge a chi scrive, ma solo per mancanza di fantasia, è che il dibattito non deve essere incentrato su «autodeterminazione sì- autodeterminazione no». Perché partendo da questo punto di vista si arriverebbe a giustificare la scelta dell'omicida, che scientemente accetta di togliere una vita, andando incontro alle conseguenze del caso, solo perché è una decisione che ha preso da sé.
L'autodeterminazione, la circostanza che la decisione riguardi sè e sia presa da sé non è una scrutinante generale, che tinge di buono tutto quello che tocca. Occorre al contrario capire che se una persona decide da sola di uccidersi, l'accento non va posto su "decide da sola", ma sul "di uccidersi". E' l'oggetto della decisione che fa la differenza, non le modalità con cui essa viene presa.
Se si dice che la vita è indisponibile, un motivo c'è. Perché non si può minimamente paragonare, come il commento fa, una tonsillite ad un omicidio assistito. In questa l'analogia tra boia e medico non solo non è fuori tema, ma è centrale. Pur in un'ottica possibilista sull'eutanasia come è quella di Travaglio, non si può chiedere ad una persona, specie ad una persona che ha giurato di salvare vite umane, di sopprimerle "perché pagato". Sennò come distinguerlo dal boia?

Giuseppe Regalzi ha detto...

"Perché partendo da questo punto di vista si arriverebbe a giustificare la scelta dell'omicida, che scientemente accetta di togliere una vita, andando incontro alle conseguenze del caso, solo perché è una decisione che ha preso da sé".

Quando si parla di autodeterminazione si intende - dovrebbe essere ovvio, ma evidentemente non lo è per tutti - che ciascuno è padrone della propria sfera personale, cioè del proprio corpo e della propria mente, e che in questa sfera personale non possono irrompere senza permesso gli altri (se non per difendere la loro sfera più intima da un'irruzione non autorizzata). L'omicidio non soddisfa evidentemente queste condizioni (se non nel caso della legittima difesa), ed è anzi un male proprio nella misura in cui lede così drasticamente la sfera personale altrui.

Questa non è una strana dottrina laicista dell'ultima ora: è la posizione liberale classica, nota da alcuni secoli, che uno naturalmente può anche criticare, però sapendo esattamente che cosa critica. Possibile che si debbano ancora spiegare queste ovvietà?

l'anonimo di prima ha detto...

Prendo spunto, Regalzi, dalla sua risposta a me. Ho parlato di omicidio, a suo dire, a sproposito. Ma oso dire che non è così. Per lei infatti la differenza fondamentale sta nel fatto che se si parla di suicidio si rimane nella propria sfera. Ma esattamente quando è che si sfora la propria sfera? Qual è il confine "invalicabile"?
Se di omicidio del consenziente si tratta, ecco, soffermiamoci sul primo termine, "omicidio". Il consenso non è idoneo a rompere quel confine che c'è tra la propria vita e quella altrui. Se così fosse, dovremmo dire che non esiste una sfera personale rigidamente definita, dato che le situazioni della vita possono aprire delle finestre importanti che creano delle rilevantissime eccezioni. Addirittura togliere la vita. E questa è precisamente la posizione del codice penale, che fa sua una dottrina che è di stampo liberale classico.
Quindi, delle due l'una: o c'è una rigida separazione tra la mia vita e la tua, e allora non posso toglierla, oppure si possono aprire delle finestre. Ma in questo caso non si può più parlare di autodeterminazione, perché se ho bisogno di coinvolgere altri nella mia decisione, anche la decisione degli altri di aiutarmi o meno conta.

Giuseppe Regalzi ha detto...

"Il consenso non è idoneo a rompere quel confine che c'è tra la propria vita e quella altrui. Se così fosse, dovremmo dire che non esiste una sfera personale rigidamente definita, dato che le situazioni della vita possono aprire delle finestre importanti che creano delle rilevantissime eccezioni. […] Quindi, delle due l'una: o c'è una rigida separazione tra la mia vita e la tua, e allora non posso toglierla, oppure si possono aprire delle finestre. Ma in questo caso non si può più parlare di autodeterminazione, perché se ho bisogno di coinvolgere altri nella mia decisione, anche la decisione degli altri di aiutarmi o meno conta".

Nessuno dice che la sfera personale debba essere sempre inviolabile. Se fosse così non ci si potrebbe mai nemmeno scambiare un bacio! Si possono aprire tutte le finestre che si vogliono - purché con il consenso del padrone di casa. E naturalmente la decisione degli altri conta; chi ha mai detto il contrario? Io non posso costringere nessuno ad aiutarmi a sucidarmi; ma se trovo qualcuno disposto a farlo - e a quanto pare se ne trovano in abbondanza - nessun terzo deve interferire nel nostro libero accordo.

sempre l'anonimo di prima ha detto...

Quindi a suo dire il consenso sarebbe sufficiente a legittimare qualunque comportamento. Potrebbe anche funzionare, se non fosse che viviamo in una società che pone delle regole. Come tutte le regole, non devono essere accettare dal singolo per poter essere vigenti. Nel suo esempio dell'aspirante suicida che trova un aspirante omicida, trovo un grosso intoppo: le regole non permettono un simile scambio, perché nel momento in cui mi rivolgo all'esterno mi rivolgo alla società, di cui tutti facciamo parte. E le regole sociali giudicano in un certo modo chi uccide su ordine, o anche su proposta contrattuale, altrui.
La sua visione, che definirei contrattualistica, del suicidio assistito, dimentica, non so se volutamente o no, che i due soggetti non vivono in un mondo senza tempo né spazio né norme, ma la loro interazione è produttiva di effetti anche giuridici. Che lo vogliano o meno. L'unico modo per affermare che una cosa del genere sia, o debba essere, scevra dalla possibilità di un qualsivoglia biasimo, è di postulare un vivere anomico. Comprendo che probabilmente questo è proprio il suo punto di vista, e cioè che in questa materia lo stato, come anche la società, dovrebbe astenersi da ogni giudizio. Ma mi pare assai più di buon senso dire che l'importanza della materia è anche e soprattutto sociale, quindi la società non può e non deve disinteressarsi di questa materia.

Giuseppe Regalzi ha detto...

"E le regole sociali giudicano in un certo modo chi uccide su ordine, o anche su proposta contrattuale, altrui".

Certo, attualmente è così. Ma le regole si possono cambiare...

"L'unico modo per affermare che una cosa del genere sia, o debba essere, scevra dalla possibilità di un qualsivoglia biasimo, è di postulare un vivere anomico".

Mi pare un po' eccessivo. Devono esistere comunque delle norme che puniscano la violenza, cioè l'interferenza non voluta con le vite degli altri.

annarosa ha detto...

Aspirante suicida e aspirante omicida: due volontà che si incontrano liberamente. Mi ricorda una storia.Quella di Armin Meiwes, 46 anni, Germania. Il 10 marzo del 2001 aveva ucciso un esperto berlinese di computer, conosciuto in internet, nella sua casa a Rotenburg. L'uomo era consapevole di ciò che l'attendeva e aveva dato il suo consenso. Tutto era stato documentato con un video, realizzato dallo stesso cannibale, della durata di quattro ore. La notte stessa dell'arrivo del suo ospite di 37 anni, Meiwes, di un anno più anziano, lo uccise con un coltello da cucina dopo averlo semi-anestetizzato con alcool e sonniferi.

Ma prima, quando era ancora in vita ma semicosciente, lo aveva evirato e avevano mangiato insieme - secondo le immagini dei filmati - gli organi genitali dopo averli cucinati. Finita la vittima con una coltellata, Meiwes aveva poi sezionato il cadavere ed aveva conservato nel freezer i pezzi di carne umana che ha via via scongelato e mangiato.

Tutto bene quel che finisce bene. Peccato questo ritardo nella società: sarebbe ora di legalizzare l'antropofagia di consenzienti. In fin dei conti sono l'incontro di due libertà che non crea danni a nessuno.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Annarosa, il consenso per essere valido presuppone la capacità di intendere e di volere. Ora, secondo te, sinceramente, quant'è probabile che questi due signori fossero sani di mente?

Emanuele ha detto...

dunque se lei, Regalzi mette in dubbio la coscienza e volontà dei due soggetti citati da Annarosa(apparentemente solo perchè capaci di un atto che a lei pare ancora inaccettabile), questo dovrebbe ammettere un sindacato circa la capacità di ciascun soggetto che chiede l'omicidio assistito, cosa che dubito capiti e possa capitare, se la società non interviene nel controllare i contratti umani.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Emanuele, non capisco dove sia il problema. Se ci fosse una legge che regolasse il suicidio assistito certo prevederebbe la verifica della capacità di intendere e di volere degli interessati, in base alla scienza psichiatrica (e non a ciò che io o chiunque altro possiamo "mettere in dubbio"). Non è una interferenza, a patto che si seguano appunto criteri oggettivi e si valuti solamente se sono soddisfatte le condizioni elementari di validità del contratto.

sempre il solito anonimo ha detto...

Il cannibale era perfettamente consapevole di quello che faceva. E così l'ingegnere-cibo. Troppo comodo dire "erano entrambi pazzi". Inoltre non vedo come la pazzia possa rilevare: perché se una persona è insana perderebbe l'ipotizzato diritto all'autodeterminazione anche in forma indiretta col suicidio assistito? Tale eccezione non è collocabile nella regola contrattualistica da lei espressa sopra.
I pazzi vengono interdetti nella loro capacità di decidere per conto loro per paura che possano farsi del male: ma se si ammette anche per i "sani" che possano uccidersi o farsi uccidere, che problema c'è con i pazzi? A fortiori dovremmo assecondare i loro istinti suicidi. Per quale mai motivo dovremmo fermarli, secondo la sua visione? Cosa giustificherebbe questa ingerenza? Non certo il desiderio paternalistico di proteggere la sua vita perché essa un valore assoluto, credo. E allora che cosa?

annarosa ha detto...

Ma una grave forma di depressione come quella che aveva Magri non è già di per sé una incapacità almeno parziale di intendere e volere?

E per quanto riguarda il caso di antropofagia faccio notare che l'assassino è stato condannato all'ergastolo perché NON è stato classificato incapace di intendere e volere. La vittima probabilmente sì ma se ci sono medici disposti a rovinare chirurgicamente delle persone con evidenti turbe psichiche (altrimenti non chiederebbero certe "modifiche") trasformandoli in fenomeni da baraccone con il consenso della legge, non vedo come e perché impedire a priori che "domanda e offerta" psichiatrica si possano liberamente incontrare. Se la vittima cercava una fine del genere mi sembra crudele pensare di farlo soffrire impedendoglielo tutta la vita. Infatti l'ha fatto clandestinamente.... forse ci vorrebbe davvero la legalizzazione, no?

annarosa ha detto...

A scanso di equivoci per "fenomeni da baraccone con evidenti problemi psichiatrici" mi riferivo a gente di questo tipo:
http://promotionweb.altervista.org/blog/2010/02/15/luomo-gatto/

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Sempre-il-solito-anonimo:

"I pazzi vengono interdetti nella loro capacità di decidere per conto loro per paura che possano farsi del male: ma se si ammette anche per i "sani" che possano uccidersi o farsi uccidere, che problema c'è con i pazzi? A fortiori dovremmo assecondare i loro istinti suicidi. Per quale mai motivo dovremmo fermarli, secondo la sua visione? Cosa giustificherebbe questa ingerenza? Non certo il desiderio paternalistico di proteggere la sua vita perché essa un valore assoluto, credo. E allora che cosa?"

Innanzi tutto diciamo che i pazzi vengono interdetti, più in generale, perché non sono in grado di decidere da sé cosa è bene per loro (è la stessa ragione per cui i minori dipendono da un tutore che decida per loro nella maggior parte delle scelte importanti). Ora, per alcune persone in determinate circostanze la morte costituisce una scelta preferibile alla vita; ma nel caso di un folle non c'è appunto garanzia che la scelta corrisponda a un desiderio reale. Impediamo allo psicotico convinto di disporre dei poteri di Superman di gettarsi nel vuoto perché il suo vero desiderio non è quello di morire ma bensì di librarsi nell'aria.

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Annarosa:

"Ma una grave forma di depressione come quella che aveva Magri non è già di per sé una incapacità almeno parziale di intendere e volere?"

In parte questo è vero, ed è fra l'altro il motivo per cui soccorriamo i suicidi (non possiamo sapere se il loro gesto corrisponde a un impulso improvviso e irrazionale). Ma dall'altra parte la depressione non è la schizofrenia, e lascia quindi spesso al paziente una lucidità quasi completa; soprattutto, poi, può farlo piombare in uno stato di sofferenza profonda e dalla durata indefinita, per il quale non esistono rimedi (i farmaci disponibili sono poco più che palliativi, purtroppo). A questo punto subentra la considerazione dell'interesse oggettivo del paziente: l'unico rimedio può essere davvero la morte (è lo stesso motivo per cui in casi estremi si dovrebbe praticare l'eutanasia dei bambini - ricorderai molte discussioni passate su questo blog). Ma ovviamente il desiderio del paziente rimane una condizione necessaria per procedere. Farei una considerazione non dissimile anche per l'uomo gatto: certo, è matto, ma se stravolgerne l'aspetto è l'unico modo per farlo sentire meglio...

"E per quanto riguarda il caso di antropofagia faccio notare che l'assassino è stato condannato all'ergastolo perché NON è stato classificato incapace di intendere e volere. La vittima probabilmente sì"

Direi che qui conta soprattutto lo stato mentale della vittima.

annarosa ha detto...

Ma se si è d'accordo con il deturpare con decine di interventi chirurgici un matto perché sia felice, perché dobbiamo obbligare un' aspirante vittima di un rito antropofagico a vivere senza veder soddisfatto questo suo desiderio? Perché certi matti li vorresti accontentare ed altri no? Come vedi, poi, si "arrangiano" per conto loro comunque. E chi li accontenta, poveraccio, finisce in galera! Ovviamente è un ragionamento provocatorio ma non capisco dove stia la differenza sostanziale tra l'uomo gatto e l'aspirante cannibalizzato. E, in molti casi, il depresso grave. O li si accontenta tutti, i matti autolesionisti, oppure no.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Annarosa, io non ho mai detto che non li voglio accontentare. Esprimevo solo il dubbio - peraltro condiviso da te - che il cannibalizzato fosse matto e (implicitamente) che con buone cure avesse magari la possibilità di uscire dalla sua condizione. Liberalizzare l'antropofagia, comunque, non è semplice: devi trovare cannibali che non siano pazzi a loro volta (il che li renderebbe pericolosi per chi non ha il desiderio di essere mangiato, e andrebbero quindi internati) e nemmeno con tendenze criminali (perché di nuovo sarebbero pericolosi per tutti, e il loro posto sarebbe in galera).

Tu, per curiosità, cosa avresti fatto con l'uomo gatto? L'avresti condannato all'infelicità permanente? E perché, esattamente? Qual è il bene superiore da proteggere?

Emanuele ha detto...

il problema, a mio avviso, è la perdita di senso di quelle vite che, giustificandone, liceizzandone, autorizzandone la soppressione uno Stato intero sottoscriverebbe: il malato, come il depresso hanno bisogno di un aiuto a uscire da quel male, ma il fatto che loro non vedano altra uscita se non l'uscita da tutto, non significa che quella sia l'unica soluzione, anzi, potrebbero essercene altre, ma proprio la condizione di disperazione nella quale si trovano(immancabilmente per richiedere la morte) impedisce loro di vedere e/o accettare le altre. Alla depressione non c'è rimedio, non credo: ho conosciuto alcune persone che l'hanno vissuta, in modo particolarmente travolgente, eppure hanno avuto un sostegno che ha permesso loro, a poco, a poco, di superarla. Il problema, recentemente, è che si cercano soluzioni immediate, senza accorgersi che, essendo la vita un percorso, i miglioramenti non possono essere repentini come un'iniezione. C'è una pigrizia di fondo da vincere, la pigrizia d quelli che, conoscendo il malato, il depresso, non gli si vogliono accostare, non hanno tempo e attenzione sufficienti a sostenerlo, nelle sue vere necessità, magari è anche una carenza di preparazione(ma questo avviene perchè si è tabuizzato il tema morte e il tema sofferenza, escludendolo da qualunque dibattito, dimenticando che fa parte inevitabile, in quanto segnale del limite umano, di qualunque vita), in ogni caso determina una lontananza dal richiedente la morte, che non farà altro che giustificare la sua idea di vita che non vale la pena continuare. Il problema è dunque a monte di qualunque legge, come sempre, ed è non solo culturale, ma socio-antropologico: quali azioni siamo ancora disposti a fare? quelle che ci fanno piacere e placano le richieste(un po' come aiutare i poveri dando l'elemosina a quello che si incontra per strada) o quelle che sono giuste per noi e per gli altri, imparando ad includere l'esperienza della sofferenza nel novero di quelle che una vita comprende?

Annarosa ha detto...

Per l'uomo gatto vale lo stesso discorso che tu fai per l'aspirante cannibalizzato: lo si cura come un matto. Oppure accontentiamo tutti i matti e a chi si crede Napoleone offriamo, almeno, un appartamento imperiale a Parigi. Perchè discriminare in nome del censo affittuario? E per quanto riguarda l'assurdità di poter regolamentare il cannibalismo io, come constata Travaglio, estenderei l'assurdità a tutte le norme che vigliono regolamentare il suicidio. Ti assumeresti la responsabilità di dire di no a qualcuno che, uscito da Exit o altri posti simili, si potrebbe suicidare in modo 'tradizionale' buttandosi sotto il primo treno?

ancora una volta l'anonimo ha detto...

Mi aiuti a capire il suo ragionamento, perché veramente mi sono perso. Lei dice che non possiamo influire sull'incontro di volontà di due soggetti che vogliano l'uno farsi uccidere e l'altro uccidere. Al tempo stesso pone l'eccezione del pazzo, "perché non sa quello che è più bene per lui". Ora però è necessario fare un passo avanti: non sa cosa è meglio per sé, e quindi? E quindi potrebbe farsi male. Ora: se si proibisce al pazzo di decidere della sua vita perché potrebbe farsi male (e non fa una grinza) perché non si può proibire al sano di farsi il massimo male possibile, cioè uccidersi?
Detto in altri termini: o un generale dovere di protezione della vita delle persone esiste, oppure non esiste. Oppure ancora vi sono eccezioni: ma queste eccezioni devono essere motivate dalla contingenza. Ora, la sola "volontà" di uccidersi non può essere una eccezione, perché chiunque potrebbe volere uccidersi. Inoltre bisogna chiedersi se la regola che la vita umana vada protetta supporti eccezioni oppure no. Del che profondamente dubito, essendo la vita il massimo bene, cosa può essere più importante della vita stessa?
Al Luigi Magri di turno potrei dire: sei pazzo, devi curarti, non sai cosa è meglio per te.

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Annarosa:

ovviamente, quando dico che è giusto lasciare che l'uomo gatto si rovini la faccia, do per scontato che non esistano cure. Mi sembrava di averlo detto chiaramente, quando ho scritto "se stravolgerne l'aspetto è l'unico modo per farlo sentire meglio". Ma forse tu per "curare come un matto" intendi chiudere in un manicomio e buttare la chiave? Quanto a quello che si crede Napoleone, mi sembra ovvio che qualsiasi rimedio debba rientrare nei canoni della razionalità economica: con i soldi di un appartamento imperiale si salvano molte vite... Se non costasse nulla, certo non mi opporrei, così come non mi opporrei a salutare quel matto con un bel "Buongiorno, maestà!". Tu gli negheresti anche questo?

"Ti assumeresti la responsabilità di dire di no a qualcuno che, uscito da Exit o altri posti simili, si potrebbe suicidare in modo 'tradizionale' buttandosi sotto il primo treno?"

Ovviamente sì, se ci fossero concrete speranze di riportarlo a una vita normale.

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Ancora-una-volta-l'anonimo:

il problema sta nel suo assunto che la vita sia sempre il massimo bene. E' per questo che lei non m'intende, perché io al contrario penso che in determinate, tragiche circostanze ci siano mali peggiori della morte. Uno di questi è appunto la sofferenza gravissima e irrimediabile. Ovviamente ci sono persone che la sopportano meglio e che forse non preferirebbero mai la morte (anche se ho qualche dubbio che non esista una tortura tanto atroce da indurre chiunque a decidere di averne avuto abbastanza), e altre che non hanno questa forza (o ostinazione). Gli esseri umani sono diversi.

ancora l'anonimo ha detto...

Avevo intuito che la sua idea fosse questa: cioè che in determinate condizioni la morte sia una cosa desiderabile. Ma ciò deriva da una determinata concezione della vita, che deve essere vissuta " a patto che mantenga ragionevoli livelli di qualità ". Questa visione, che è certamente genuina nel senso che sono convinto che lei lo creda davvero, non può non suscitare in me un senso di convinta contrarietà, per non dire ripugnanza. Se questa è la sua visione della vita, trovo nuovi motivi nel voler controbatterla. E come lei tenterà di sensibilizzare più persone possibile per far prevalere questa sua visione, io farò quanto posso per andare nella direzione opposta, certo come sono che la vita ha una dignità intrinseca. Chi lo nega non può impedirmi di affermarlo.
La ringrazio per la sua disponibilità a questo confronto che è stato corretto ed onesto.

Giuseppe Regalzi ha detto...

"La ringrazio per la sua disponibilità a questo confronto che è stato corretto ed onesto".

Grazie a lei per i suoi commenti! Come vede, almeno qui - ma spero anche altrove - nessuno le ha impedito di affermare le sue idee in materia.

Anonimo ha detto...

«chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé»

Ma come si può dire "ammettiamo pure che sia così"...non è forse un dato di fatto che la vita appartenga solo a chi la possiede?
Chi altro la possiede a parte l'essere vivente che la vive?
Travaglio, ma cosa stai dicendo?
Inoltre nel suicidio assistito la persona attua il suicidio, viene solo "assistito", appunto, da un team di medici che curano gli aspetti più fastidiosi della cosa evitandogli magari di soffrire inutilmente e gestiscono le questioni post mortem.
Oppure uno può tranquillamente uccidersi nella propria abitazione, non c'è molta differenza nella cosa in sè.
Farlo da soli magari può non riuscire o può provocare più dolore, molto meglio essere seguiti da persone esperte che trattano ogni giorno la vita e la morte.
Prima di leggere questo articolo pensavo che Travaglio avesse una mente abbastanza lucida, anche se avevo il sospetto che le sue sparate fossero la risposta economica ad un malcontento generale, generato da alcuni lati peggiori dell'umanità senza i quali Travaglio non avrebbe ragione di esistere.
Il suicidio, assistito o meno che sia, è una questione umana e come tale trascende qualsiasi religione.
Non è che se uno si suicida in Italia la questione va analizzata in un'ottica cattolica, e se si suicida in India, in un'ottica induista.
Il suicidio è una scelta che riguarda l'uomo in quanto tale.
Eutanasia e suicidio assistito sono differenti per le condizioni di salute del soggetto, non per il diritto di una persona di scegliere di morire.
Se io dichiaro in coscienza di voler morire nel momento in cui mi dovessi malauguratamente trovare in coma irreversibile, il mio diritto di scelta è esattamente identico a quello che ha una persona interessata al suicidio assistito, in quanto c'è l'elemento consapevolezza.
Chiarito questo punto, ed aggirata la follia di Travaglio, veniamo ad una lucida spiegazione del fenomeno.
Io soggetto consapevole, nato per una scelta altrui (non mi risulta che qualcuno chieda di nascere), decido ad un certo punto della mia vita di volere attuare un suicidio assistito, oppure anche un suicidio non assistito, per ragioni che sono personali e che non riguardano nessun altro, ne un giornalista, ne una religione, ne alcuno stronzo all'infuori di me.
Però, una legge malata, mi vieta di suicidarmi.
Cioè, ricapitolando, io nasco senza averlo richiesto perché due idioti volevano avere un bambino (o per qualsiasi altro motivo), decido di porre fine alla mia esistenza di cui sono l'unico proprietario, ma questo viene ritenuto illegale per questioni religiose o luoghi comuni moralisti e privi di logica.
Ci rendiamo conto della follia?
Mi sembra logicamente evidente.
Cosa c'è di male nel nascere? Tutto, visto che nessuno richiede di nascere.
Cosa c'è di male nel morire? Nulla, se uno decide consapevolmente di morire, oltretutto non avendo richiesto altrettanto consapevolmente di nascere.