lunedì 5 marzo 2007

Quello che Claudio Risé non ha capito

Il tentativo di introdurre i DiCo nel nostro ordinamento giuridico sembra aver generato una reazione che va ormai ben al di là della pur dura opposizione al progetto di legge. I peggiori umori anti-omosessuali stanno risalendo dai pozzi neri dove li credevamo confinati, e avvelenano il dibattito. Così, Paola Binetti può proclamare su La7 che «L’omosessualità è una devianza della personalità» (aggiungiamo anche questo sul conto che chi l’ha candidata sarà prima o poi chiamato a saldare...), mentre Luca Volontè ci spiega con la consueta ineffabilità che «i fondatori della psicologia moderna descrivono l’omosessualità come patologia clinica».
Personalità devianti, patologie mentali: l’attacco è scelto con accuratezza. Non si accusa l’omosessuale di una pura e semplice scelta «sbagliata», imputazione che costringerebbe a una contrapposizione brutale e suonerebbe per giunta improbabile; né si riconduce l’omosessualità a una «disfunzione» genetica o congenita, per la quale non ci sarebbero cure proponibili e di fronte alla quale sarebbe possibile solo una rispettosa tolleranza. Invece, la patologia mentale – opportunamente ricondotta nella sua eziologia a una famiglia disfunzionale – permette di dipingere impunemente la personalità gay come dimidiata, facendo mostra di un’untuosa compassione per il malato, e di far balenare allo stesso tempo la possibilità di una cura: se la disfunzione è psichica si potrà ben curare con cure psichiatriche, no?

Non diversamente, anche se più articolatamente dei due mostri preistorici citati sopra, Claudio Risé, psicoanalista iper-reazionario di qualche fama, si cimenta nell’attacco al gay camuffato da soccorso terapeutico sulle colonne del Domenicale di Marcello Dell’Utri («Sessi, tertium non datur»; per le prime reazioni si può partire da questo post di Inyqua). E sceglie di confrontarsi – vedremo subito con quali risultati – con l’ipotesi dell’origine genetica dell’omosessualità: non come occasionale mutazione negativa, che i numeri escludono, ma come tratto stabile del panorama genetico umano (e di molte altre specie animali).

Il potere che si afferma invece a partire da dopo la Seconda guerra mondiale tende, per sintetizzare all’estremo, a rovesciare la vecchia maledizione degli omosessuali in una sorta di benedizione. […] Una delle più recenti dimostrazioni di questo rovesciamento è l’articolo del professor Giuseppe Remuzzi, comparso sul Corriere della Sera del 17 gennaio scorso e intitolato Il gene dell’omosessualità migliorerà l’uomo?. Si comincia con l’affermazione, caposaldo di questa ideologia, che l’omosessualità sia di origine genetica. Anche se le ricerche, costate miliardi di dollari, per dimostrarlo sono finora approdate a nulla. Per sostenere quest’affermazione, il dottor Roberto Marchesini, in una sua comunicazione al NARTH Italia, sezione della National Association for Research & Therapy of Homosexuality fondato dal professor Joseph Nicolosi, afferma che «l’autore fa riferimento – senza citarlo – ad un celebre studio sull’omosessualità nei gemelli (Bailey e Pillard, A Genetic Study of Male Sexual Orientation, in Archives of General Psychiatry, 48, del 1991), uno studio che, invece, permette di escludere l’ipotesi genetica, lasciando emergere al contrario l’importanza del contesto familiare e culturale nello sviluppo del comportamento omosessuale». Dopo avere cercato di appoggiarsi a uno studio che dimostra tutt’altro, anche Remuzzi, tuttavia, non può sottrarsi alla domanda: «Ma com’è che il gene legato all’omosessualità si è diffuso nella popolazione se la loro non è un’attività sessuale che porta a riprodursi?». La risposta è semplice, osserva ancora Marchesini: «non esiste nessun “gene gay”, e questa domanda sottolinea l’assurdità dell’ipotesi genetica». Per Remuzzi, invece, «C’è una spiegazione sola: che il gene “gay” sia utile all’evoluzione della specie». Ecco quindi l’ideologia dell’origine genetica dell’omosessualità sorretta dall’ideologia evoluzionista. E in conclusione la spiegazione benedicente: «chi ha un gene “gay” potrebbe essere più attraente fisicamente o più capace di fecondare. Questo darebbe un vantaggio riproduttivo e consentirebbe al gene di diffondersi». Ecco quindi che gli omosessuali diventano i “più belli e più forti. E più fertili”. Tutto questo senza ombra di dimostrazione, e anche se Remuzzi è costretto ad ammettere che «il gene (o i geni) dell’omosessualità non sono stati identificati». Questo esempio dimostra lo stile (tutto ideologico, dietro un linguaggio apparentemente scientifico) utilizzato per dimostrare : a) che chi è gay lo è, e basta, b) che costui non deve lamentarsene o cercare di cambiare perché così va benissimo. Anzi, secondo Remuzzi, la persona in questione è anche un benefattore, giacché, oltre a essere bello, migliora la specie. Si capirà allora la difficoltà di chi, esercitando la professione terapeutica, sempre più spesso si trova davanti una persona che dice di avere un comportamento omosessuale e che chiede di essere aiutato ad abbandonarlo poiché non lo sente corrispondente al proprio sé, ricavandone, invece, grande infelicità.
Per dare un’idea del rigore argomentativo di Risé e di Marchesini, consideriamo l’accusa che rivolgono a Giuseppe Remuzzi di avere cercato di appoggiarsi, senza citarlo, «a uno studio che dimostra tutt’altro». Accusa già abbastanza discutibile, visto che a leggere l’abstract dello studio (l’articolo integrale mi è al momento inaccessibile) pare proprio che Bailey e Pillard sostengano l’ereditabilità dell’orientamento omosessuale, sia pure con modalità complesse; ma che diventa poi surreale e un po’ demente, quando ci si accorge che Remuzzi dichiara in realtà di rifarsi a uno studio scientifico originale (Sergey Gavrilets e William R. Rice, «Genetic models of homosexuality: generating testable predictions», Proceedings of the Royal Society B 273, 2006, pp. 3031-38), che ha avuto ampia risonanza alla sua uscita, e la cui lettura conferma in pieno che Remuzzi si è basato su di esso, e soltanto su di esso.
Risé parla anche di «ideologia evoluzionista», il che ci conferma che non ha letto (o fa finta di non aver letto) lo studio originale di Gavrilets e Rice: otto pagine fitte di equazioni su una rivista peer reviewed non corrispondono esattamente all’idea che uno si fa di una tirata propagandistica...
Ma cosa dicono questi autori? Si parte dalla constatazione che l’omosessualità è probabilmente ereditaria, e che dipende da geni molteplici, estremamente variabili all’interno di una popolazione e in parte regolati da fattori ambientali (per uno strano fenomeno sembra per esempio che le probabilità di avere un figlio omosessuale aumentino col numero di parti: forse è coinvolta una reazione immunitaria materna durante la gestazione). Dato che, come abbiamo detto, questi geni costituiscono un tratto stabile del panorama genetico umano, e che gli omosessuali hanno in media meno figli degli eterosessuali, la teoria dell’evoluzione si trova di fronte al problema di conciliare questi dati contraddittori: per la spinta della selezione naturale un gene che porta a fare a meno figli sparisce infatti ineluttabilmente in poche generazioni. Ma non occorre affatto concludere che «non esiste nessun “gene gay”»...
Le spiegazioni proposte finora sono in effetti ben tre; l’articolo di Gavrilets e Rice si limita ad avanzare previsioni empiriche che dovrebbero permettere di scegliere in futuro fra queste ipotesi:
  1. Geni eterozigoti. Com’è noto, possediamo due copie di ciascuno dei nostri 23 cromosomi: una è ereditata dal padre, l’altra per via materna. Quindi anche di ogni gene abbiamo due copie: se le copie sono differenti diciamo che l’organismo è eterozigote per quel gene, se sono identiche diciamo invece che è omozigote. È possibile allora che un gene sia favorevole se eterozigote (cioè consenta all’organismo che lo possiede di avere una progenie più vasta di chi non lo possiede), ma sfavorevole se eterozigote: è quel che succede con la talassemia, la cui forma eterozigotica – detta microcitemia – conferisce ai portatori, che sono quasi del tutto sani, una certa protezione contro la malaria (ecco perché la malattia è particolarmente diffusa in Sardegna e in altre ex zone malariche), mentre la forma omozigotica causa una gravissima malattia. Lo stesso meccanismo – ma fortunatamente senza conseguenze per la salute dell’individuo – potrebbe spiegare l’omosessualità: una copia singola di un gene «gay» potrebbe permettere (è un esempio fittizio) una migliore collaborazione tra maschi nella caccia e tra femmine nella raccolta, con un conseguente aumento del successo riproduttivo, mentre una copia doppia causerebbe un cambiamento dell’orientamento sessuale.
  2. Altruismo parentale. Supponiamo che i geni deputati all’omosessualità siano silenti in alcuni individui, e attivi nei loro più stretti parenti, e che i secondi tendano a occuparsi della prole dei primi, in assenza di figli propri: è allora possibile che il risultato netto sia un aumento del successo riproduttivo della famiglia, e della diffusione dei suoi geni comuni, compresi quelli che causano l’omosessualità.
  3. Selezione sessuale antagonista. Un gene può esplicare un’azione differente se si trova nelle femmine o nei maschi. Può per esempio far aumentare la fertilità nelle prime, e determinare l’omosessualità nei secondi, o viceversa. Anche in questo caso i geni dell’omosessualità si manterrebbero stabili in una popolazione umana o animale.
Come si vede, le cose sono un po’ più complesse di come ce le presenta Claudio Risé...

Supponiamo che l’ipotesi genetica sia confermata dai fatti: dovremmo forse trarne delle conseguenze morali? I nostri giudizi di valore dovrebbero adeguarsi ai risultati scientifici? Si potrebbe per esempio sostenere che questi risultati mostrano come l’omosessualità sia ingranata profondamente nella natura umana; o, al contrario, si potrebbe mettere in rilievo che le ipotesi 1 e 3 la svelano essere null’altro che un effetto secondario e non voluto di meccanismi imperfetti. Ma il passaggio dal fatto al valore è sempre un passaggio che di logico ha assai poco. La teoria dell’evoluzione si limita, nella sua essenza, ad elaborare le conseguenze del fatto molto banale che gli omosessuali si riproducono in media meno degli eterosessuali – e per giunta solo nell’ambiente umano delle origini, privo di fecondazione artificiale e di madri surrogate. Il resto è solo una superfetazione ideologica e arbitraria.
In effetti, quale che sia l’origine dell’orientamento omosessuale – genetica, ormonale, ambientale, familiare, e ogni possibile combinazione di queste – il giudizio morale dipenderà sempre solo da due fatti: che gli omosessuali liberamente non rinnegano la loro natura, e che non fanno male a nessuno (anzi, da essi le società umane hanno tratto sempre varietà e benefici culturali – ma anche questa è in fondo una considerazione irrilevante).
Non ci si deve nascondere che alcuni, in certi ambienti, vivono male il loro orientamento, è vero; ma la cura consiste nell’eradicazione dell’omofobia e delle dottrine e ideologie che la alimentano, non certo nel ricorso alle male arti di qualche praticone.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Sull'argomento c'era anche un breve (e più vecchio) articolo di Dawkins (http://www.simonyi.ox.ac.uk/dawkins/FAQs.shtml#gaygene), che diceva più o meno le stesse cose e proponeva un altro paio di possibili teorie. A parte questo, è incredibile l'ignoranza dal basso della quale gente come Risé contesta lavori scientifici che non è in grado di capire.

Ciccioporceddu ha detto...

claudio-rise.it/cannabis/opuscoli.htm riporto solo questo e ci tolgo il www davanti cosi almeno non viene indicizzato.

Anonimo ha detto...

C'è da dire che anche l'articolo di Remuzzi non è espresso nei migliore di modi, insomma si presta a facili fraintendimenti

gwath