domenica 18 marzo 2007

Vita, coscienza, diritti

Ismael ha replicato qualche giorno fa («Life to lifeless», 14 marzo 2007) alla risposta che avevo dato a un suo post precedente. In genere, quando si giunge così avanti in una discussione, le cose si impantanano rapidamente in una serie di «io in realtà intendevo dire...» e di altre precisazioni noiose per tutti, tranne (forse) che per i protagonisti dello scambio; ma in questo caso mi sembra che l’ultimo post del mio avversario dialettico mi permetta di approfondire e chiarire i punti del mio post precedente, troppo affrettato forse per risultare del tutto perspicuo. Vale quindi la pena, direi, di indugiare ancora un po’ in questa partita.
Afferma Ismael:

la scienza medica non ha mai certezze assolute, ma “solo” un livello di confidenza – auspicabilmente il più elevato possibile – con l’avverarsi di una previsione. Io non me ne intendo, ma presumo che la letteratura specialistica pulluli di clamorosi affronti all’asserto medico. Oltre ai casi puntualmente riportati da Giuseppe, c’è per esempio la storia di un signore di 84 anni, risvegliatosi in sala mortuaria mentre era addirittura sprovvisto di qualsiasi sostentamento elettromeccanico. Oppure l’incredibile vicenda di Woody, il bambino “miracolato” di cui pochi giorni fa ha scritto anche Bioetiche.
Quanto illustrato, casomai, rende difficoltoso attribuire al sapere scientifico il crisma di pensiero “forte”, ma non può e non deve incoraggiare atteggiamenti improntati allo scetticismo o all’attendismo a priori. […] nella stragrande maggioranza dei casi (ciò che, sotto un profilo operativo inferenziale, vale a dire sempre), la morte cerebrale deve considerarsi il prodromo di un decesso sicuro benché artificialmente dilazionato. L’ampliamento dello scarto cronologico tra le cause e i pieni effetti della morte – comunque presente in natura: nei casi di morte per decapitazione, il muscolo cardiaco pulsa ancora per un po’ – è dovuto all’evoluzione delle tecniche di trapianto chirurgico, che richiedono il prelievo degli organi a cuore battente.
I casi clinici cui alludevo nel mio post non volevano affatto costituire un elenco di errori diagnostici, né tantomeno indurre allo scetticismo sul sapere scientifico: in nessuno di quei casi, infatti, la diagnosi di morte cerebrale si era rivelata errata. Perché parlarne, dunque? Com’è noto, la Chiesa cattolica e più in generale il mondo conservatore che ne segue le direttive morali hanno da tempo dato il loro placet etico alla pratica dei trapianti, e quindi all’identificazione della morte cerebrale come criterio valido per determinare il decesso di un individuo. Ma la ragione che la Chiesa adduce non consiste nel fatto che la morte del cervello coincide con quella della persona, perché in questo caso sarebbe costretta ad ammettere che quando il cervello ancora non esiste (e nelle prime fasi della vita dell’embrione il cervello non c’è), non esiste neppure ancora la persona. Invece, i teologi cattolici insistono sulla circostanza che la morte cerebrale sarebbe seguita quasi immediatamente e immancabilmente dalla morte dell’intero l’organismo, che cessa di funzionare come un tutto ordinato: morte del cervello e morte del resto dell’organismo verrebbero quindi in pratica a coincidere. Ma questa giustificazione – già di per sé non del tutto soddisfacente – viene confutata proprio dai casi di individui che rimangono in morte cerebrale per mesi ed anni: ci troviamo, per così dire, di fronte a una condizione cronica di morte cerebrale, in cui l’organismo continua a vivere talvolta a oltranza, riuscendo addirittura in certi casi a sostenere a lungo una gravidanza. E naturalmente non giova dire che comunque la morte è inevitabile e viene rimandata solo dall’applicazione di misure artificiali di sostegno: anche altre condizioni patologiche, come per esempio la sclerosi laterale amiotrofica (tristemente alla ribalta nei casi di Piergiorgio Welby ed altri malati), comportano una prognosi sicuramente infausta a breve/medio termine, e lasciano a un certo punto il malato a dipendere crucialmente dal ventilatore meccanico; ma nessuno definirebbe «morte» queste persone.
Naturalmente su quei casi peculiari di morte cerebrale (ma sono relativamente pochi solo perché la legge autorizza a staccare la spina, né ci sarebbe alcuno scopo ad insistere con le misure di sostegno vitale) c’è una quasi generale consegna al silenzio: la Chiesa non vorrebbe essere costretta a rimangiarsi le posizioni già assunte e ad imbarcarsi, come coerenza vorrebbe, in una crociata impopolare (nonostante le perplessità dei più intransigenti); la scienza laica, da parte sua, preferisce risparmiare ai malati le conseguenze terribili di un’eventuale imposizione clericale di un bando ai trapianti.
La sorte di un embrione, entro un certo periodo di tempo dal congelamento, può avere esiti differenti dalla morte – per esempio tramite l’adozione – pur restando nell’ambito delle evidenze biomediche ordinarie. Perciò distruggerlo non è sempre l’unica alternativa praticabile, né un’opzione conoscitivamente analoga alla dichiarazione di morte cerebrale. Sposando integralmente la tesi dell’indeterminazione del decesso, peraltro, si potrebbe indulgere all’idea – poco sensata – secondo cui è meglio lasciare gli embrioni sovrannumerari in freezer ad libitum, anziché prendere atto su base probabilistica del loro deperimento per raggiunti limiti di “età” e destinarli alla ricerca. Oppure, mutatis mutandis, si potrebbe concludere che occorre vietare del tutto l’espianto di organi.
[…]
La situazione dell’embrione crioconservato impiantabile è diversa: oltre a non essersi ovviamente potuto esprimere sul “dopo”, hic et nunc esso non è affatto “a fine vita”. Né in senso lato (lo stadio embrionale si situa a inizio vita), né in senso stretto (deve ancora sopraggiungere l’inutilizzabilità dell’embrione a fini riproduttivi). Per di più, i suoi “tutori” possono scegliere di metterlo al mondo o di permettere che altri tentino di farlo al posto loro, non solo di invocarne l’intangibilità. Per tutti questi motivi, la fase vitale in cui si trova l’embrione si distingue ontologicamente da quella in cui versa un morto cerebrale.
Qui il mio interlocutore cerca di confutare una tesi che non è tuttavia la mia. L’argomento cui Ismael obietta è noto: gli embrioni congelati perdono dopo un certo lasso di tempo la capacità di venire impiantati nell’utero; ma alcune delle cellule che li compongono rimangono vitali, e possono essere estratte e usate come fonti di cellule staminali, in un procedimento che – dal punto di vista etico – ricorda appunto l’espianto di organi, e che dunque dovrebbe risultare ammissibile anche al pensiero morale cattolico. Ma il mio paragone tra statuto dell’individuo cerebralmente morto e statuto dell’embrione non ha nulla a che fare con questo argomento.
Nella condizione di morte cerebrale noi non esistiamo più; ciò che continua a vivere è il nostro organismo, ma noi non siamo identici al nostro organismo: noi siamo persone, menti incarnate. All’altro estremo della vita, un embrione – non solo un embrione crioconservato, ma qualsiasi embrione, anche il più vitale e guizzante nel più caldo dei ventri materni – è allo stesso modo un organismo vivo, che non contiene però ancora alcuna persona (la mente cosciente essendo collegata, in modo sicuro anche se ancora poco chiaro, a una corteccia cerebrale funzionante), il cui statuto morale non si discosta significativamente da quello dell’ovocita o dello spermatozoo, e che quindi non è di per sé soggetto di diritti o interessi, così come non ne è soggetto l’individuo cerebralmente morto (se non per quelli che lo riguardavano da vivo, espressi tramite le sue disposizioni testamentarie), cui si può per esempio staccare il respiratore meccanico senza autorizzazioni particolari.
C’è un’amara ironia nello scandalo che i cattolici integralisti ostentano di fronte a questa concezione, e anzi nella incapacità di molti di loro a capire il senso di discorsi come questo: perché questa, in fondo, non è che la versione scientificamente aggiornata della antica concezione, cristiana e popolare, dell’anima che scende a un certo punto nel corpo, e che a un altro punto lo abbandona; anima che è inoltre dotata della proprietà dell’autocoscienza, a differenza del corpo. C’era una dignità in questa concezione, nonostante il dualismo ingenuo che l’animava, che non si trova più nell’osceno riduzionismo biologico che impera oggi sulle menti dei cristiani, per i quali la persona sembra identificarsi ormai con il codice genetico, in una negazione dei valori umanistici che non mancherà di esercitare un influsso nefasto sulla società (si pensi a chi, come per esempio Antonio Socci, già oggi mostruosamente paragona i genocidi del secolo scorso, con tutto il loro immane carico di sofferenze e di vite concrete spezzate, alla pratica dell’aborto, dove in gioco sono soltanto vite biologiche).
Il caso della morte cerebrale mette insomma in rilievo, se ce ne fosse bisogno, la mancanza di identità tra organismo e persona, a cui si può comunque arrivare anche in altri modi. Supponiamo che il nostro Ismael abbia un amico, che chiameremo Acab; e che uno scienziato folle – anzi, un tecnoscienziato, per usare la dicitura derogatoria oramai invalsa nell’uso di autorevoli cenacoli di cultura come Il Foglio – decida domani di trapiantare a forza il cervello del primo nel corpo del secondo, e viceversa (l’operazione è stata effettivamente eseguita su una scimmia, alcuni anni fa, anche se il povero animale non è sopravvissuto molto a lungo). Ad operazione compiuta, chi si affretterà a rispondere a questo mio post: la persona che si troverà ad animare il corpo di Acab o quella alloggiata nel corpo di Ismael? E chi sarà ritenuto responsabile dei debiti che Acab (un noto scialacquatore) aveva accumulato nei mesi scorsi? Poniamo poi che durante l’operazione il tecnoscienziato si sia lasciato sfuggire dalle mani il cervello di Acab, spiaccicatosi sul pavimento, e che di conseguenza anche il corpo di Ismael, rimasto privo di cervello, sia morto dopo un po’: chi piangerà la scomparsa del suo congiunto quando la cosa si risaprà, i parenti di Acab o quelli di Ismael? Credo che la risposta a queste domande sia univoca; come scriveva anche John Locke, sia pure nei termini e con i concetti del suo tempo (An Essay Concerning Human Understanding, II, 27,15):
se l’anima di un principe, recando con sé la coscienza della vita passata dello stesso, dovesse entrare a informare di sé il corpo di un calzolaio, non appena questo fosse abbandonato dalla sua anima, chiunque vede che questi diverrebbe la stessa persona del principe, responsabile solamente delle azioni del principe.
Nell’originale:
should the soul of a prince, carrying with it the consciousness of the prince’s past life, enter and inform the body of a cobbler, as soon as deserted by his own soul, every one sees he would be the same person with the prince, accountable only for the prince’s actions.
Quanto proprio a Locke, Ismael mi rimprovera che il suo concetto di persona non era inteso come un «requisito minimo per disporre del diritto alla vita». Ma il richiamo al filosofo inglese nel mio primo post voleva solo fornire un controesempio all’affermazione di Ismael, che riconduceva al pensiero socialista il concetto di persona impiegato da chi coltiva una visione liberale dell’etica; mentre invece nella riflessione filosofica più significativa di oggi si parte sempre proprio dalla persona come la definiva Locke (cfr. il grande classico di Derek Parfit, Reason and Persons, Oxford, Clarendon Press, 1984, pp. 205-8, o la riflessione recente e stimolante di Jeff McMahan, The Ethics of Killing: Problems at the Margins of Life, Oxford - New York, Oxford University Press, 2002, p. 6). Ismael obietta che gli esiti di questa riflessione sono tuttavia ascrivibili al pensiero collettivista:
Ma se non vi fosse un’interdipendenza costruttiva tra diritti oggettivi e soggettivi – magari con i primi subordinati alla presunzione eteronoma della “personalità dialettica” lockiana, a sua volta necessaria al riconoscimento dei secondi – si tornerebbe a privilegiare la concezione relazionale della persona cara ai collettivismi, larvati o meno che siano.
Non riconosco però la dicotomia operata da Ismael: i diritti soggettivi, per me, sono interessi del soggetto legittimati e garantiti dal diritto oggettivo, cioè dall’ordinamento giuridico; che cosa sarebbero, invece, i diritti oggettivi? E cosa c’è mai di eteronomo nel voler limitare i diritti soggettivi a soggetti dotati di coscienza (che non esistono se non in quanto esseri coscienti), e quindi portatori di interessi che sono autonomi e non attribuiti loro capricciosamente per le ubbie di qualche lobby religiosa?
Infine:
Bisognerebbe inoltre mettersi d’accordo sul concetto di “soluzione di continuità” che, a quanto mi risulta, delinea la cesura netta tra una fase di un processo e l’inizio della successiva (oppure il termine del processo medesimo). Soprattutto, esso deve permettere di affermare un nesso oggettivo tra il verificarsi di un “salto” in una serie discretizzata di eventi e lo scadere di un lasso temporale prefissato. Invece dobbiamo fare i conti con “il dubbio se ci troviamo di fronte a un’increspatura del muscolo o a una contrazione vera e propria”. Trovo che non sia un dubbio di poco conto, come tutti quelli analoghi a esso.
Per «soluzione di continuità» intendevo, vocabolario alla mano, semplicemente l’interruzione di un processo continuo; se nettissima o meno, non mi pare importante. Nello sviluppo fetale non abbiamo quasi mai a che fare con processi che si evolvano secondo una serie di ampiezze p del tipo:
0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6...
ma piuttosto secondo la serie:
0 0 0 0 0 0,3 1 1 1 1 1 1...
(l’esempio del battito cardiaco che facevo rientra a pieno titolo in questa seconda). Basterà pertanto specificare la condizione p>0 per ottenere le garanzie di sicurezza desiderate (le casistiche in nostro possesso consentiranno allo stesso modo di fissare una griglia temporale per i fenomeni che ci interessano, con tanto di earliest observed occurrence). Non credo che ci serva altro.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ti ringrazio della immeritata attenzione. Controlinko di gran carriera!