Non è un caso di eutanasia. La parola «eutanasia» è usata quasi sempre per indicare la cosiddetta eutanasia attiva, cioè un’azione (che in genere consiste nella somministrazione di un farmaco adatto) volta a causare la morte il più possibile indolore di un’altra persona. Nel caso di Eluana Englaro, invece, quello che è stato chiesto e che la corte ha concesso è il permesso di sospendere un’azione, in particolare la somministrazione di nutrimento per mezzo di un sondino; un permesso dunque non di fare ma di smettere di fare.
Si può obiettare che in realtà non c’è alcuna differenza: che si tratti di un’azione o di un’omissione, in ogni caso si sta provocando la morte di un essere umano. E indubbiamente dal punto di vista morale è così – anzi in questo caso la somministrazione attiva di un farmaco potrebbe apparire addirittura più accettabile ed umana della sospensione del nutrimento. Ma dal punto di vista giuridico le cose cambiano: tra fare ed omettere c’è una grande differenza. Supponiamo che io mi rechi in un paese africano e ne irrori le coltivazioni con diserbanti, e faccia saltare in aria i magazzini di generi alimentari e le vie di comunicazione. Della carestia e delle morti per fame che ne seguiranno sarò penalmente responsabile (e sarò fortunato se me la caverò con un ergastolo). Ma se la carestia è già in corso e io, pur avendone i mezzi, non invio un contributo in denaro capace di limitare i danni a quelle popolazioni, e causo con questa omissione delle morti che altrimenti non ci sarebbero state, sarò moralmente responsabile – forse addirittura quanto nell’altro caso; ma è difficile immaginare che io possa essere anche responsabile penalmente.
Parlando in generale, la legge non ci obbliga ad agire a beneficio di altre persone, neanche quando in gioco c’è la loro vita. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, che riguardano per esempio i tutori della legge, o i genitori di un minore (che implicitamente, riconoscendolo alla nascita, assumono l’obbligo di averne cura), o tutti noi nel caso che l’azione che ci viene richiesta non sia onerosa (è il caso che riguarda l’omissione di soccorso). Ma il principio generale non cambia; e sicuramente non si può aggiungere alle eccezioni quella di obbligare qualcuno a ‘beneficiare’ persone, come Eluana, che hanno espresso la chiara volontà di non ricevere quel tipo di benefici.
Viceversa, la legge in generale ci obbliga a non causare intenzionalmente con una nostra azione la morte di altre persone. Anche qui ci sono eccezioni: legittima difesa e stato di guerra sono quelle che vengono subito alla mente. Nell’ordinamento giuridico italiano non c’è fra le eccezioni l’omicidio del consenziente, neppure nella forma particolare dell’eutanasia volontaria. Ci sono molte ed ottime ragioni per ritenere che l’eutanasia dovrebbe venire ammessa fra quelle eccezioni; ma al momento non lo è, e praticarla legalmente sarebbe impossibile.
Non è un caso di accanimento terapeutico. Il concetto di accanimento terapeutico, come ci ricorda Anna Meldolesi in un intervento di questi giorni, è praticamente un’esclusiva del dibattito bioetico italiano, mentre altrove è ignoto. Comunemente viene inteso come l’applicazione a malati terminali di trattamenti medici pesanti e incapaci di apportare benefici di nessun tipo ai pazienti; in pratica, condannando l’accanimento terapeutico si condannano le cure inutili – cosa che dovrebbe essere scontata, e che non è molto utile ribadire. Nel caso di Eluana Englaro non siamo ovviamente di fronte a questa accezione di accanimento terapeutico: la paziente non è terminale, e la nutrizione artificiale è essenziale per tenerla in vita. La cosa tuttavia è irrilevante: per il principio del consenso informato tutti i trattamenti medici, anche quelli indispensabili a tenere in vita una persona, anche quelli sopportabilissimi e niente affatto pesanti, possono essere praticati soltanto se chi li subisce li ha accettati. È questo che è in gioco nel caso Englaro e in tutti i casi analoghi (anche se la sentenza della Cassazione, sulla quale si fonda quella di questi giorni della Corte d’Appello, su questo punto non è completamente coerente). E si può anche andare oltre: il dibattito interminabile sulla natura dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali – si tratta di trattamenti medici o no? – è del tutto inutile (anche se effettivamente essi sono trattamenti medici). Il principio generalissimo che vale è questo: nessuno può mettere le mani sul mio corpo contro la mia volontà, per nessun motivo. Il corpo è la mia proprietà più intima e inalienabile, di cui io solo posso decidere.
Non è un caso di discriminazione. Contrariamente a quanto alcuni insinuano, nel caso di Eluana Englaro non è stato stabilito che la vita di ogni paziente in Stato Vegetativo Persistente è priva di valore. Quello che in realtà è stato provato è che vivere in queste condizioni era privo di valore per Eluana. Molti di noi sono portati a commentare, a proposito di casi come questo, «è vero, una vita come quella non è degna di essere vissuta». Ma questa affermazione può avere un senso solo in quanto costituisce in realtà una forma abbreviata del giudizio «una vita come quella non la riterrei degna neppure per me di essere vissuta». Non si tratta soltanto di concedere a chi riduce la vita umana al brutale dato biologico di vivere e morire in accordo con le proprie credenze; anche chi non la pensa come costoro può ritrovarsi a preferire di non essere lasciato morire. Per esempio, uno può ritenere che la sua vita personale si arresti con la perdita definitiva della coscienza, e che tutto ciò che accade in seguito al suo corpo non lo riguardi più; e di conseguenza può disporre che il sostegno vitale non venga interrotto se ciò può risultare di beneficio ai suoi familiari, che magari trarrebbero conforto da quel simulacro di presenza continua del loro caro. Ogni vita è degna di essere vissuta, se è degna per chi la vive.
domenica 13 luglio 2008
Cosa non è il caso di Eluana Englaro
Postato da Giuseppe Regalzi alle 13:13
Etichette: Accanimento terapeutico, Eluana Englaro, Eutanasia
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10 commenti:
Alcune considerazioni:
"La parola «eutanasia»è usata quasi sempre per indicare la cosiddetta eutanasia attiva"
Esatto, QUASI sempre: in questo caso si tratterà di eutanasia passiva.
Seguendo la prima parte del tuo ragionamento, se io mi trovo in una situazione anomala (tipo sopravvissuti a un terremoto o dispersi in mare) con un neonato che non è mio figlio o mio "pupillo" e non gli dò volontariamente da mangiare e bere non compio un atto illegale?
Per quanto riguarda il secondo punto se io racconto ai giudici di Milano che mia nonna con una grave demenza aveva a suo tempo detto (a me e ai miei cugini e zii)che piuttosto che ridotta così preferiva morire posso smettere di prepararle la minestra e imboccarla? Se smetto di imboccarla lei non mangerebbe più e, nel giro di qualche giorno (e vecchia e malandata), morirebbe. Ci sarebbe qualche differenza vera e propria con il caso di Eluana?
Ultima considerazione: se è solo un pezzo di carne ormai non più "persona"; se non prova più alcuna "sensazione" perchè il giudice ordina di dare medicinali contro il dolore e di agire contro i disagi della disidratazione e di curarne il corpo e -perfino- l'abbigliamento? Un vegetale cui non dai più da bere lo lasci seccare senza tutti qusti scrupoli: forse un qualche dubbio che ci sia ancora una "persona" da curare il giudice ce l'aveva...
Annarosa: se, come tu stessa ammetti, per "eutanasia" si intende quasi sempre l'eutanasia attiva, allora per evitare confusione fra due cose molto diverse sarà bene usare termini meno generici. Eutanasia passiva potrebbe anche andar bene, ma in generale si preferisce il termine più specifico di sospensione dei trattamenti medici, visto che nei casi proposti dalle cronache l'eutanasia passiva consiste sempre appunto in questo. Naturalmente c'è chi si tiene stretto al termine "eutanasia" per via delle connotazioni negative che questo (ingiustamente) ha, connotazioni che si vuole trasmettere per suggestione a una pratica sgradita...
Il caso del neonato che esponi ricade interamente, direi, in quello dell'omissione di soccorso. Se io invece mi reco in un paese del Terzo Mondo e lì incontro un bambino denutrito, non sono per questo tenuto ad adottarlo e a portarlo con me (anche se questo sarebbe un comportamento della più alta moralità).
Nel caso della nonna la tua testimonianza dovrebbe essere corroborata da altri testimoni indipendenti e affidabili (com'è successo nel caso di Eluana). Inoltre la sospensione della nutrizione dovrebbe essere effettuata sotto stretto controllo medico e in condizioni di sedazione (un demente sente dolore).
Avere una residua sensibilità per il dolore non significa essere persone: altrimenti dovremmo considerare tale anche un pesce che si dibatte dopo essere stato preso all'amo.
Per stabilire una distinzione in termini giuridici nemmeno c'è bisogno di ricorrere a esempi con reati da una parte e comportamenti leciti (quand'anche non oltremodo meritevoli) dall'altra. Basta invece far notare come si viene trattati in modo diverso giuridicamente anche quando entrambi i comportamenti siano illegali. L'omissione di soccorso non è lo stesso reato, né prevede le stesse pene, dell'omicidio (colposo, volontario, preterintenzionale eccetera). E questo anche qualora quell'omissione possa rivelarsi fatale. Stesso discorso anche per i casi di Annarosa: per esempio nel caso di non assistenza al neonato in quella particolare situazione, anche qualora si configuri comportamento illegale esso non coincide con l'omicidio. Quando la morte è procurata in modo attivo è cosa giuridicamente diversa dal procurarla in modo passivo, anche qualora in quest'ultimo caso si configuri talvolta reato.
È interessante notare che in molti paesi di Common Law il reato di omissione di soccorso non esiste. Si tratta chiaramente di una situazione ben poco difendibile, ma è indicativa anch'essa dell'asimmetria esistente fra azioni e omissioni.
Una serie di "cosa non è" il caso Englaro ma da un'altra prospettiva:
http://vinoemirra.splinder.com/
"la somministrazione attiva di un farmaco potrebbe apparire addirittura più accettabile ed umana della sospensione del nutrimento."
Lo è senza dubbio. Infatti ci vuole una bella faccia per dirsi contrari all'eutanasia ma allo stesso tempo piangere per come morirà Eluana.
"se io mi trovo con un neonato che non è mio figlio e non gli dò volontariamente da mangiare e bere non compio un atto illegale?"
direi di si, ma non puoi neanche sequestrare le persone che non vogliono mangiare e nutrirle con la forza. cosa avresti fatto a gandhi mentre digiunava? una botta in testa, lo si lega a una sedia e poi sondino naso-gastrico, perche altrimenti rischiava di morire?
Cari blogger,
ma voi sareste veramente disponibili a morire come viene prescritto dalla sentenza di Eliana Englaro? Qualunque persona intellettivamente consapevole mai dirà che accetta di morire di fame e soprattutto di sete!
Dirà:Meglio un veleno fulminante!Meglio l'eutanasia attiva che compie il gesto dell'uccidere con rapidità!
Perchè velare di pietismo un gesto che non ha nulla a che fare con la pietà? La sospensione dell'alimentazione è semplicemente un atto sconvolgente, inutile girarci intorno, sempre sconvolgente resta. Potete scrivere fiumi di parole, non c'entra la Chiesa, il Vaticano, i cattolici, l'oscurantismo religioso, è e resta un atto sconvolgente. So che dà fastidio, ma questa falsa pietà e questa finta libertà sono così opprimenti; perchè non avete il coraggio di sostenere che era meglio ucciderla?
Chi la pensa diversamente parlerà sempre di omicidio e non sarà d'accordo.Ognuno rimane della sua idea e va bene così, perchè ognuno risponde alla sua coscienza e al suo modo di pensare.Su questi temi, è vero, non è possibile trovare compromessi.
Decidere quale è la vita che merita di essere vissuta e quale non lo è rappresenta una frontiera che per voi è valicabile perchè conquista di libertà.Libertà di morire perchè la qualità di vita non è accettabile.
Per me rappresenta un pericolo per tutte le persone in stato di debolezza e di handicap, di gravi malattie: esse sono un peso per la società, come qualcuno ha espresso apertamente sul vostro blog, e le spese per la loro sopravvivenza uno spreco.
Sarebbe troppo facile citare un precedente storico di grande spessore emotivo, che durante anni veramente bui teorizzò e applicò principi eugenetici in Europa. Oggi l'eugenetica si affaccia con anima pietosa e offre soluzioni semplici, eliminando dal vocabolario parole brutte come handicap, diversità, dolore, morte, sofferenza, sacrificio.
Cara Manuela, come si legge nella sentenza della Corte d'Appello, ad Eluana Englaro verrà somministrata una sedazione che le impedirà, nella remotissima ipotesi che qualche forma di sensibilità (non di coscienza) ancora permanga, di sentire alcun dolore quando le verrà sospesa l'alimentazione. Quindi parlare di morte per fame e per sete è qualcosa che serve solo a suscitare orrore nelle persone che ignorano i fatti. Tieni presente che qualcosa di simile avviene nella cd. sedazione terminale, una pratica ritenuta perfettamente morale anche da autori cattolici, e in cui a pazienti terminali viene sospesa l'alimentazione dopo essere stati sottoposti a una profonda sedazione.
E' chiaro che sarebbe meglio somministrare un farmaco che ponga fine alla vita in modo rapido e indolore; ma questo, purtroppo, è assolutamente impossibile nell'attuale quadro legale.
Infine, parlare di pericolo per tutte le persone in stato di debolezza e di handicap significa, scusami, aver capito ben poco della sostanza di questo caso. Qui non si sta affatto dicendo che la vita di tutte le persone in stato vegetativo è indegna di essere vissuta, ma solo che questa persona la riteneva indegna, e che nessuno può e deve giudicare al posto suo. Nel post che stai commentando io stesso delineavo una possibile situazione in cui una persona che la pensa come me potrebbe voler continuare a vivere anche in stato vegetativo.
A me sembra che il vero pericolo non stia in quello che diciamo noi. Chi settanta anni fa proclamava che nessun malato era degno di vivere e chi oggi proclama che nessun malato può chiedere di morire hanno una cosa in comune: il disprezzo per la libertà dell'individuo. Ed è su questo terreno che è da sempre fiorita ogni tirannia.
Il «caso Englaro»: andare oltre il “silenzio” e le accuse di “omicidio”
Molti slogan ad effetto si possono leggere e ascoltare sulla vicenda di Eluana Englaro, che sembra avviarsi verso l’esito che aveva chiesto per sé, nel momento in cui aveva espresso il rifiuto di restare “prigioniera di un corpo” incapace di consentirle ogni forma di vita intellettiva, affettiva e sociale: senza emozioni, ricordi, esperienze, relazioni. Gli slogan più ripetuti sembrano essere: «scenda il silenzio su questa vicenda», «lasciamo che sia il padre a decidere», «invidio chi ha certezze», «impediamo un atto di eutanasia», «non si può uccidere una persona togliendole cibo e acqua». Sia il silenzio sia il ricorso a espressioni fuorvianti come “omicidio” e “eutanasia” per designare l’interruzione dei trattamenti medici a cui è sottoposta Eluana Englaro e, in particolare, dell’idratazione e dell’alimentazione artificiali, sono due diverse modalità del rifiuto di affrontare razionalmente un caso che scuote le coscienze e presenta una notevole complessità sia sotto il profilo scientifico, sia sotto il profilo etico e religioso. Anche i casi complessi vanno affrontati e discussi, sapendo che le soluzioni che vengono prospettate mantengono margini di ambiguità e non possono pienamente corrispondere all’ideale (mai raggiungibile sui casi concreti) dell’accordo sul piano descrittivo e della valutazione morale. Non convince – anche se può essere compresa – la richiesta di restituire il corpo di Eluana al padre, l’unico che sarebbe in grado di interpretare le sue volontà e di fare il suo “bene”. Il corpo continua ad appartenerci fino alla fine della nostra esistenza e, se divenuti “incompetenti”, il rappresentante legale dovrà soltanto svolgere la funzione di chi si rende interprete delle volontà precedentemente espresse dal paziente, senza forzarle nella direzione di ciò che egli ritiene sia preferibile in termini di qualità della vita, di vita degna di essere vissuta. Il complesso iter giudiziario che ha condotto alla sentenza della Corte di Cassazione dell’ottobre 2007 e al decreto della Corte d’appello di Milano del luglio 2008 è servito per acquisire elementi di prova chiari e convincenti – nei limiti di ciò che è umanamente possibile fare – della volontà espressa da Eluana Englaro, prima di cadere in stato di incoscienza, di rifiutare ogni forma di sostegno vitale nel caso in cui si fosse presentato un quadro clinico con i caratteri dello stato vegetativo. Se il nostro corpo, si è detto, ci appartiene sino alla fine dell’esistenza e non appartiene ai nostri genitori, per quanto amore possano avere nei nostri confronti, esso non appartiene neppure allo Stato o a una Chiesa – neppure a una Chiesa con molti secoli di storia come la Chiesa di Roma – e neppure a chi esercita la professione medica, che non può arrogarsi il diritto di stabilire se una cura o un trattamento medico possono o debbono essere imposti o negati a un paziente senza acquisire il suo consenso informato. Se gli slogan che invitano al silenzio e a «lasciar fare» al padre Beppino Englaro vanno considerati come incongrui e sono un segno di debolezza da parte di chi non vuole esprimere una valutazione e pertanto fa ricadere unicamente la responsabilità della sospensione di alimentazione e idratazione artificiale sul padre (vorremmo dire, forzando un po’ le cose, «se ne lava le mani»), più gravi ancora ci sembrano le accuse di autorevoli esponenti della gerarchia cattolica (ad esempio quelle formulate dal cardinale Lozano Barragan, presidente del Consiglio degli operatori sanitari), che equiparano la sospensione dei trattamenti medici a un atto di omicidio. Le scelte omicide sono scelte nelle quali, scientemente e con l’intento di danneggiarlo, si sopprime un essere umano; qualora invece da un atto – ad esempio da un atto medico – consegue in un determinato arco temporale la morte per altre motivazioni, ad esempio per contenere il dolore con la somministrazione di antidolorifici, non è sensato parlare di omicidio. Si tratta in questo caso di azioni – di cui va certamente vagliata la liceità sotto il profilo etico e giuridico – che hanno indubbiamente come conseguenza la morte, ma che non muovono da una motivazione ostile nei confronti di chi cerchiamo invece di aiutare a far fronte a una situazione che risulta sia oggettivamente sia soggettivamente in-tollerabile. Si dirà: questi non sono casi controversi sotto il profilo etico. Altri sono i casi controversi: il caso Welby, il caso Englaro. Sono partito dai casi non controversi solo per sottolineare che non tutte le azioni che comportano la morte di una persona sono “omicidi”. Veniamo ai casi controversi. Tutti ricorderanno che la scelta responsabilmente assunta da Piergiorgio Welby, che venisse sospesa ogni misura di sostegno vitale nei suoi confronti – lasciando che il suo corpo scivolasse in tal modo verso la morte – venne fortemente contrastata e ritenuta come una scelta di carattere “eutanasico” da parte di autorevoli esponenti della gerarchia cattolica. Ma è opportuno – almeno per chi sui temi etici ritiene che sia indispensabile argomentare razionalmente le scelte anche nei casi più difficili – porre alcuni quesiti: a) costituisce davvero un attentato alla vita umana (e per i credenti un attentato alla vita donataci da Dio) rifiutare i trattamenti di sostegno vitale in situazioni nelle quali il mantenimento in vita appaia in contrasto con la valutazione da parte del soggetto che l’esistenza è divenuta in sommo grado in-sopportabile?; b) è ammissibile che lo Stato, la legislazione, coloro che esercitano la professione medica conculchino il fondamentale diritto dell’individuo all’autonomia e all’autodeterminazione, autonomia e autodeterminazione che costituiscono il tratto distintivo dello sviluppo morale individuale? Non solo chi fa propri i presupposti del pensiero morale della modernità (ad esempio quelli della morale kantiana) ritiene che si debba valorizzare il principio di autonomia. Lo si può fare anche a partire da motivazioni religiose. Intervenendo nel dibattito sollevato dal caso Welby la pastora Maria Bonafede, moderatora della Tavola valdese, dichiarò: «Noi valdesi, in quanto cristiani evangelici, crediamo fermamente che la vita sia un dono prezioso di Dio. Ma […] l’accanimento terapeutico, ancor di più quando in contrasto con la volontà del malato, viola la sua dignità e aggrava le sofferenze fisiche e psicologiche. Esaltando la capacità tecnica, celebra l’onnipotenza umana che nulla ha a che fare con l’amore e la compassione di Dio per le sue creature. E l’amore non impone sofferenza, né costringe ad una artificiosa sopravvivenza» (Agenzia Stampa NEV, Comunicato stampa del 21.12. 2006). Lo stesso card. C. M. Martini, intervenendo nel dibattito, affermò che non vanno prolungati «i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona». Il cardinale sottolineò che «non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Mostrò inoltre interesse per la legge francese sui diritti del malato e la fine della vita, approvata nel 2005, che consente al paziente che si trova nella fase terminale di una patologia grave e incurabile di richiedere la sospensione o la limitazione di qualsiasi trattamento e che inoltre prevede la possibilità di redigere direttive anticipate di trattamento, di cui il medico deve tener conto per ogni decisione di indagine, intervento o trattamento (C. M. Martini, Io, Welby e la morte, in “il Sole 24 Ore”, Supplemento Domenicale del 21 gennaio 2007). Il caso Englaro è indubbiamente più complesso rispetto al caso Welby, in quanto si tratta di una paziente “incompetente”, ossia di una paziente che non è in grado di esprimere le sue volontà, che vanno pertanto ricostruite sulla base delle sue precedenti dichiarazioni, del suo stile di vita, della sua personalità, dei suoi convincimenti relativamente al modo di salvaguardare la dignità della persona umana. La complessità del caso deriva inoltre dal fatto che Eluana non è una malata terminale e potrebbe, se alimentata e nutrita artificialmente, continuare a sopravvivere - in assenza di qualsivoglia attività cognitiva - per un tempo non definibile. Tale complessità non va occultata; al tempo stesso vanno evitate espressioni fuorvianti (“crimine”, “decisione criminale”) per la sospensione della nutrizione e dell’idratazione artificiali nel caso di Eluana Englaro, il cui stato vegetativo si protrae da 17 anni e per il quale non è ragionevole attendersi evoluzioni tali da consentire la manifestazione di attività cognitive e di vita di relazione. Se la questione centrale, dal punto di vista etico, è quella relativa alla liceità di tale sospensione e inoltre nutrizione e idratazione artificiali sono trattamenti medici – tali sono considerati dalle società scientifiche – al paziente deve essere consentito di rifiutarli. Sotto il profilo etico tale decisione non può essere censurata se la condizione in cui versa il paziente è tale da condurlo a valutarla come in-sopportabile e priva di ragionevoli prospettive di modificazione (stadio terminale di una malattia, necessità costante di misure di sostegno vitale eccessivamente invasive, ecc.). Tali valutazioni non possono che essere soggettive e non si vede la ragione per cui altri debbano sostituirsi a noi nel decidere ciò che è più conforme al rispetto della dignità della nostra esistenza. Non si vede infine perché tali valutazioni debbano essere considerate come un attacco al valore della vita, quando - indipendentemente dalla nostra volontà – la vita di per sé sta svanendo o – negli stati vegetativi - sono cessate le funzioni cognitive e tutte le forme di relazione, che sole possono dare spessore e significato all’esistenza umana. Non credo che neppure dal punto di vista religioso, ovvero da parte di chi ritiene che la vita è un dono, sia inammissibile l’idea di accettare i limiti della condizione umana, non forzarli, non assolutizzare la dimensione biologica dell’esistenza, sia inammissibile anche prospettare in specifici casi l’abbandono dei trattamenti che mantengono in vita corpi che autonomamente non sarebbero in grado di farlo. Ma, posto anche che sotto il profilo religioso – di un determinato credo religioso – tale sospensione sia giudicata inammissibile, per quale motivo essa dovrebbe coartare le coscienze che non si riconoscono in una determinate accezione del principio della “sacralità della vita”? Chi ritiene che tale coercizione sia indispensabile non può che giungere – come fanno i cattolici ipertradizionalisti di “Instaurare omnia in Cristo” - alla negazione del principio della “libertà di coscienza”, considerata «un’assurdità non solamente sul piano cristiano ma prima ancora su quello umano» e una espressione della concezione «luciferina» della libertà. Le tesi esposte – che ritengo giustificate razionalmente - non possono cancellare la tragicità della situazione in cui si trovano Eluana Englaro e i suoi familiari e non possono compiutamente sollevare chi si accinge a dare esecuzione alle sue volontà dal «timore e tremore» che inevitabilmente ci assale quando su di noi ricade la responsabilità di una scelta, che non è la scelta tra rispetto della vita e libertà scellerata di dare la morte, bensì la scelta di assecondare o non assecondare la volontà del paziente di lasciare che il proprio corpo, non più sostenuto da trattamenti di sostegno vitale, scivoli verso la morte. Noi vorremmo, quando amiamo una persona, impedire tale scivolamento, ma al tempo stesso, per rispettare la sua volontà e la sua idea della dignità della persona umana, con sofferenza accettiamo e ci pieghiamo a tale volontà.
Tiziano Sguazzero
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