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martedì 9 settembre 2014

Fido è vivo e clonato!


«Gli manca solo la parola», «i cani sono migliori degli uomini», «la morte di [inserire nome del cane in genere indistinguibile da quello che potrebbe essere tuo fratello] è il dolore più grande della mia vita, molto più della morte dei miei amici». «Tanto quanto un essere umano e come un figlio». Oppure: «PER NOI QUESTI [chi minaccia, fa male o uccide un cane] SONO ASSASSINI! Assassini di affetti, assassini di esseri viventi, assassini di innocenti indifesi; questa gente per noi sono solo vigliacchi», leggevo ieri cercando tutt’altro.

Al posto del cane può esserci un gatto o un altro animale domestico o addomesticato. Alcuni trattano il proprio animale domestico come il figlio che non hanno avuto o che è ormai cresciuto. Mi ricordo la proprietaria di un levriero afgano che aveva il set di spazzole e asciugamani con il nome del cane ricamato o inciso: Yuma. Le parlava – era una «signorina», non so se anche vergine – e le chiedeva il parere su molti argomenti. Io avrò avuto 8 o 9 anni e mia madre non mi aveva mai ricamato il nome su un asciugamano. Per fortuna. Io avrò avuto 8 o 9 anni e quella signora mi sembrava un po’ suonata e Yuma mi sembrava come quei bambini infilati in un vestito inamidato che vorrebbero rotolarsi nel fango o andare a fare il bagno: «devi aspettare 3 ore dopo aver mangiato!». D’altra parte Madame Adelaide Bonfamille aveva lasciato tutti i suoi beni ai gatti di casa e Scat Cat e la sua banda suonavano il miglior jazz in circolazione. Qualche anno dopo, leggendo E l’uomo incontrò il cane di Konrad Lorenz, mi sono tornate in mente Yuma e la sua padrona leggendo: «Ma colui che, deluso e amareggiato dalle debolezze umane, toglie il suo amore all’umanità per darlo a un cane o a un gatto, commette senza dubbio alcuno un grave peccato, vorrei dire un atto di ripugnante perversione sociale. L’odio per l’uomo e l’amore per le bestie sono una pessima combinazione». Mi è sembrata anche una buona risposta alla gerarchia di dolori per la morte di un animale umano e non umano. Poi, certo, un dispiacere è un dispiacere, e come stato mentale è soggettivo e personale. Tuttavia può essere analizzato, soprattutto una volta che è stato esplicitato e accompagnato da un giudizio: «i cani sono migliori degli uomini». Che poi non si fa un buon servizio a un cane trattandolo come fosse un umano proprio come non gli si farebbe un favore trattandolo come un anfibio.

Fido è vivo e clonato!, Next, 9 settembre 2014.

venerdì 24 luglio 2009

Clonazione senza ovociti grazie alle staminali pluripotenti indotte

La ricetta per la clonazione è semplice. Prelevate una normale cellula differenziata da un organismo adulto, ed estraetene il nucleo. Procuratevi poi un ovocita, togliete anche ad esso il nucleo e sostituitelo con il nucleo della cellula adulta. Applicate una leggera scossa elettrica o uno stimolo chimico ed aspettate: dopo un poco l’ovocita comincerà a dividersi, formando un embrione geneticamente identico all’organismo che aveva fornito la cellula adulta. Da questo embrione potrete estrarre dopo pochi giorni cellule staminali pluripotenti, gettando il resto; oppure, con un po’ più di pazienza, potrete ottenere dopo nove mesi un bebè gemello dell’individuo da cui avevate estratto la cellula adulta.
Questo almeno in teoria; in pratica, purtroppo, le cose sono molto più difficili. La clonazione funziona raramente, richiedendo decine e a volte centinaia o, per alcune specie, migliaia di tentativi, e gli embrioni risultanti – quando ci sono – sono quasi sempre poco vitali. A tutt’oggi non solo nessuno è riuscito a far nascere un clone di un essere umano (impresa peraltro illegale in quasi tutti i paesi del mondo), ma neppure a estrarre staminali da un embrione umano clonato (anche se ci si è andati abbastanza vicino). Con le staminali embrionali, fra l’altro, si potrebbero sostituire i tessuti danneggiati di una persona, curando così malattie come per esempio il morbo di Parkinson o la degenerazione maculare; e invece nulla.

Uno dei problemi maggiori della clonazione umana consiste nell’approvvigionamento di ovociti. Visto che la tecnica è così inefficiente, ne sono richiesti centinaia; ma estrarli da una donna comporta una procedura dolorosa e non esente da rischi. Il risultato è una scarsità cronica di ovociti, che – assieme alle resistenze di integralisti e fondamentalisti – ha fortemente frenato questo campo di studi.
È proprio il problema degli ovociti ad aver portato a sviluppare una radicale alternativa alla clonazione. Si tratta delle cosiddette cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), sviluppate principalmente grazie agli studi di Shinya Yamanaka e James Thomson. La ricetta inizia di nuovo con una normale cellula adulta, ma poi prosegue in maniera molto differente. Si introducono nella cellula dei retrovirus che portano con sé alcuni geni, la cui azione, una volta inseriti nel genoma nucleare, causa un de-differenziamento della cellula, che da specializzata che era ritorna simile a una staminale pluripotente embrionale, capace quindi di trasformarsi nella cellula di qualsiasi tessuto (sono adesso disponibili metodi che producono lo stesso effetto senza far uso di virus). Non c’è bisogno di ovociti, e non c’è neppure bisogno di passare per un embrione completo; il metodo è semplice, diretto, e fa anche la gioia dei seguaci del culto dell’embrione, che di conseguenza si astengono dal mettere i bastoni fra le ruote ai ricercatori.
E la clonazione riproduttiva? Se si prende una di queste cellule iPS e la si lascia moltiplicare non si potrebbe ottenere un embrione completo identico geneticamente al donatore della cellula? La risposta è no: le iPSC sono pluripotenti, possono cioè formare tutti i tessuti dell’embrione propriamente detto, quello che si trasformerà nel feto (in termini più tecnici, i tessuti dei tre foglietti embrionali: endoderma, mesoderma ed ectoderma); ma non sono totipotenti: non possono cioè formare anche il trofoblasto, lo strato che trasmette i nutrienti all’embrione propriamente detto e che si trasformerà in una parte della placenta. Da sole delle iPSC non potrebbero mai impiantarsi nell’utero.
Eppure, proprio ieri sono stati pubblicati su Nature e Stem Cell Stem due lavori di ricercatori cinesi che documentano la produzione di copie genetiche di topi per mezzo delle iPSC, senza ovociti; cloni a tutti gli effetti, anche se i ricercatori non li chiamano così (Xiao-yang Zhao et al., «iPS cells produce viable mice through tetraploid complementation», Nature, advance online publication, 23 luglio 2009; Lan Kang et al., «iPS Cells Can Support Full-Term Development of Tetraploid Blastocyst-Complemented Embryos», Cell Stem Cell, immediate early publication, 23 luglio). Come ci sono riusciti?
Tutto parte dal desiderio di dimostrare che le iPSC sono effettivamente pluripotenti. Trasformare queste cellule in ogni possibile tessuto del corpo richiederebbe molto tempo ed energia, e in qualche caso non è neppure noto come riuscire a indurre le cellule in coltura a mutarsi in un dato tessuto; fortunatamente esiste però un metodo molto più diretto. Prendiamo una blastocisti, cioè un embrione di 5 giorni: essa consiste di un involucro sferico, che andrà a formare il trofoblasto, a cui è attaccata internamente una massa di staminali, l’embrioblasto, da cui si formerà il feto. Se sostituiamo l’embrioblasto con le iPSC, avremo modo di provarne la pluripotenza: basterà controllare che dalla blastocisti risultante si produca un feto vitale.
C’è però una complicazione. Nella pratica risulta molto difficile separare il trofoblasto dall’embrioblasto; alcune cellule del secondo rimangono, e alla fine quello che si ottiene è una chimera: un organismo in cui alcune cellule deriveranno dalla blastocisti iniziale e altre saranno geneticamente identiche alle staminali che vi avevamo introdotto. Ma ci soccorre qui la tecnica della cosiddetta complementazione tetraploide. La ricetta stavolta è questa: si prende un embrione formato da due sole cellule, e con una scossa elettrica le si induce a fondersi di nuovo in una cellula unica. Questa, però, a differenza dello zigote originario, avrà un doppio corredo cromosomico – o meglio quadruplo, visto che le cellule normali hanno già ciascuna due copie di ogni cromosoma. La cellula risultante riprende a dividersi e a svilupparsi, fino a formare una blastocisti; a questo punto si sostituisce l’embrioblasto con le iPSC. Le cellule con quattro copie di ciascun cromosoma, però, sono in grado solo di formare la placenta, mentre non riescono a dare origine a tessuti fetali vitali; il risultato è che alla fine il feto risulterà composto esclusivamente dalle discendenti delle iPSC – e quindi geneticamente identico all’organismo dal quale queste ultime derivano.
È proprio questo che le due équipe hanno ottenuto, dimostrando così in modo che sembra conclusivo la pluripotenza delle iPSC. Particolarmente significativi i risultati pubblicati su Nature: la migliore delle linee cellulari ha prodotto 22 nati vivi da 624 blastocisti, con un’efficienza del 3,5% (altri 5 nati si sono avuti con altre linee cellulari, portando l’efficienza totale al 3,2% per cellule derivate al 14º giorno di coltura). Il grande progresso rispetto alla clonazione classica consiste nell’aver saltato il passaggio dal trasferimento del nucleo nell’ovocita alla formazione della blastocisti, che contribuisce ad abbassare l’efficienza totale. Facciamo un paragone con l’esperimento che ha portato alla clonazione del primo topo, Cumulina, nel 1997 (cfr. Wakayama et al., Nature 394, 1998, 369-74): con la tecnica migliore si sono ottenute in quell’occasione 23 nascite vive su 1240 embrioni trasferiti in utero, con un’efficienza dell’1,85%; ma gli ovociti utilizzati erano stati 2207, il che fa quasi dimezzare la produttività complessiva.
Quanto alla salute degli animali prodotti – uno dei punti deboli della clonazione classica – la situazione negli esperimenti odierni è un po’ mista (cfr. David Cyranoski, «Mice made from induced stem cells», NatureNews, 23 luglio): la mortalità dei topi è risultata alta, e si sono verificate alcune anomalie anatomiche. Ma 12 dei nati vivi si sono accoppiati e riprodotti, dando vita a centinaia di topi di seconda generazione, e a 100 di terza. A prima vista nessun topo sembra aver sviluppato tumori.

Prima di pensare a possibili applicazioni di questa tecnica, bisogna considerare due fatti: il primo è che ciò che funziona con i topi non è detto che funzioni con altri mammiferi; il secondo è che in questi esperimenti le iPSC sono state derivate sì da cellule differenziate (fibroblasti, cioè cellule della pelle), ma gli organismi da cui queste sono state tratte erano dei feti, non topi adulti.
Ciò detto, se la tecnica si confermerà essere un giorno semplice ed efficiente, la prima applicazione pratica sarà quasi certamente la clonazione di animali in via di estinzione. Ma anche la clonazione di un certo mammifero niente affatto raro sarà una prospettiva che certamente attirerà molti... Si avvererà così per intero la profetica messa in guardia di Robert Lanza, il biotecnologo che poco più di un anno fa aveva preannunciato la tecnica oggi realizzata. In quell’occasione la stampa integralista, imbarazzata dalle applicazioni «immorali» di una tecnica su cui ha investito moltissimo in termini propagandistici, si era rifugiata in una strampalata negazione delle possibilità profetizzate da Lanza; vedremo nei prossimi giorni cosa si inventeranno stavolta, con i primi risultati non più teorici davanti agli occhi.

giovedì 26 febbraio 2009

Clonare Neandertal?

Il sequenziamento quasi completo del genoma dell’uomo di Neandertal (un buon articolo in proposito è quello di Elizabeth Pennisi su Science; ne comparirà una traduzione sul prossimo numero di Darwin) ha portato quasi inevitabilmente a considerare l’ipotesi di clonarne un esemplare. Ronald Bailey esplora le implicazioni morali dell’impresa su ReasonNeanderthal Rights», 17 febbraio 2009) e si dichiara sostanzialmente favorevole; il mio amico Estropico invece è contrario («I diritti di Homo neanderthalensis», 26 febbraio), in base all’argomento non trascurabile che così si condannerebbe l’individuo clonato a una sostanziale solitudine. Tendenzialmente sarei d’accordo con lui (anche se spesso consideriamo del tutto morale far nascere persone disabili il cui destino non risulta affatto migliore di quello); ma la curiosità scientifica – anche per me, lo ammetto – sarebbe fortissima. Resisterle sarà difficile.

Aggiornamento: sull’argomento sono da leggere anche Nicholas Wade, «Scientists in Germany Draft Neanderthal Genome», The New York Times, 12 febbraio; John Tierney, «Why Not Bring a Neanderthal to Life?», TierneyLab, 13 febbraio; John Hawks, «Neandertal: The Resurrection», John Hawks Weblog, 16 febbraio.

Aggiornamento 1 marzo: come già in passato per analoghe notizie, dopo pochi giorni Il Foglio segue Bioetica e riprende la notizia. A modo suo, ovviamente.

giovedì 29 gennaio 2009

A me sembra una storia di ignoranza...


Didascalia:

Una storia d'amore e di scienza che costa 155mila dollari. Ma la cifra ha permesso a Ed e Nina Otto di rivivere la gioia di ritrovare a casa Sir Lancelot, il loro labrador morto all'età di 17 anni. Il cucciolo di questa galleria è una copia esatta dell'originale. Infatti la coppia che vive in Florida si è rivolta ad un laboratorio sudcoreano che ha provveduto alla clonazione.
Il dubbio di chi sia più scemo tra Ed, Nina e il giornalista rimane. Ma la scemità paga, in questo caso 155mila dollari. Beata ignoranza!

venerdì 8 agosto 2008

Il diritto di essere idioti

Ovvero: come spendere migliaia di euro (o dollari) per un fake di Booger (o altro).

venerdì 18 aprile 2008

Assuntina, attenta al clone!

Come si sa, le cosiddette staminali pluripotenti indotte (iPS) sono cellule pressoché identiche alle staminali embrionali (in particolare per il carattere della pluripotenza, cioè la capacità di trasformarsi in tutti i tipi cellulari che compongono un organismo umano), ma a differenza di queste derivano da normali cellule adulte. Sviluppate dai giapponesi Kazutoshi Takahashi e Shinya Yamanaka, le iPS sono riuscite nell’impresa di destare contemporaneamente l’entusiasmo del mondo della ricerca (seppur ancora venato di sana prudenza) e quello degli integralisti cattolici: per questi ultimi ecco finalmente una tecnica che non solo non manipola gli idolatrati embrioni, ma che ha anche delle prospettive concrete – a differenza delle povere staminali adulte, che fino all’altro ieri la propaganda dipingeva come capaci di curare di tutto e di più, e che adesso stanno rapidamente cadendo nell’oblio. Questo cambiamento di prospettiva, è vero, ha richiesto alla propaganda integralista alcune manipolazioni mediatiche; ma la posta in gioco è troppo alta per farsi distrarre dalla deontologia professionale...
Ma ecco che una notizia giunge a mettere a repentaglio il nuovo equilibrio conquistato. All’inizio di questa settimana il quotidiano The Independent ha pubblicato le dichiarazioni di Robert Lanza, direttore scientifico dell’Advanced Cell Technology, un’azienda che si occupa in particolare di staminali (Steve Connor, «“Now we have the technology that can make a cloned child”», 14 aprile 2008). Lanza mette in guardia sul fatto che la tecnica delle iPS può rendere molto più semplice la creazione non solo di chimere – individui composti da cellule derivate da due o più zigoti, e quindi geneticamente diverse – ma anche di veri e propri cloni: gemelli genetici di un individuo adulto esistente (non è chiaro se la Advanced Cell Technology abbia già clonato in questo modo dei topi).
Va detto che qui Robert Lanza si sta probabilmente prendendo una piccola rivincita personale. Tempo fa era stato lui a proporre una tecnica per la produzione di staminali embrionali che veniva incontro alle ubbie degli integralisti; ma questi non gliene erano stati affatto grati (la tecnica si basava pur sempre su «manipolazioni» contrarie alla loro sensibilità), e avevano ucciso sul nascere la proposta con un linciaggio mediatico ben orchestrato, a colpi di critiche totalmente pretestuose. Ho il sospetto, insomma, che gli entusiasmi per la tecnica di Yamanaka abbiano riaperto questa vecchia ferita...
In ogni caso, gli integralisti dovevano rispondere anche a questa nuova sfida di Lanza: troppo hanno investito sulle iPS per lasciare dubbi sulla loro correttezza ‘etica’. Ecco allora, per esempio, che sul numero di giovedì del famigerato inserto «È Vita» di Avvenire ben tre articoli cercano di rassicurare l’opinione pubblica cattolica. Il ruolo di punta spetta, come accade spesso, ad Assuntina Morresi («Giornale che leggi, “chimere” che trovi», p. III); ma la performance è più scadente del solito. Vediamo perché.

«Dichiarazioni maneggiate e tradotte in modo confuso sulla stampa nostrana», attacca la Morresi, e cerca poi di spiegarci perché:

l’esperimento ipotizzato nell’articolo è tutt’altro che nuovo, e non è una clonazione. Vengono usate cellule Ips per creare topi chimera, cioè topi il cui organismo possiede cellule con due diversi Dna […]. Nessun clone, quindi, ma solo chimere […] per essere un clone tutte le sue cellule dovrebbero avere il medesimo Dna, identico a quello di un’altra persona.
Un abbaglio giornalistico, dunque? La Morresi non spiega di chi sarebbe la colpa – se di Lanza o di chi ne ha raccolto le dichiarazioni – ma certo non lascia spazio per i dubbi: di «dichiarazioni maneggiate e tradotte in modo confuso» si tratterebbe, appunto, e nulla più.
Ma andiamo a vedere cosa dice l’articolo originale (i corsivi sono miei):
the same technique has already been used in another way to reproduce offspring of laboratory mice that are either full clones or genetic “chimeras” of the adult mouse whose skin cells were reprogrammed. […] Furthermore, studies on mice have shown that it is possible to produce fully cloned offspring that are 100 per cent genetically identical to the adult.
Non c’è bisogno di padroneggiare la lingua di Shakespeare alla perfezione per capire che qui si sta parlando proprio di cloni; traduco comunque (in modo spero non «confuso»...):
la stessa tecnica [delle iPS] è stata già usata in altro modo per riprodurre prole di topi da laboratorio composta da cloni veri e propri o da chimere genetiche dei topi adulti le cui cellule della pelle erano state riprogrammate […] Inoltre, studi sul topo hanno mostrato che è possibile produrre prole clonata geneticamente identica al 100% all’adulto.
Dopo questa cristallina dichiarazione, come se non bastasse, l’articolo prosegue spiegando in che cosa differisce la tecnica usata per produrre cloni da quella per produrre chimere. Non si tratta di una nuova scoperta, anche se l’Independent non lo dice: sono riuscito a risalire a uno studio del 1990, che per primo ha descritto la procedura (A. Nagy et al., «Embryonic stem cells alone are able to support fetal development in the mouse», Development 110, 1990, pp. 815-21); nuova è, ovviamente, la combinazione con le iPS.
La ricetta è questa: si prende un embrione formato da due sole cellule, e con una scossa elettrica le si induce a fondersi di nuovo in una cellula unica. Questa, però, a differenza dello zigote originario, avrà un doppio corredo cromosomico – o meglio quadruplo, visto che le cellule normali hanno già ciascuna due copie di ogni cromosoma. Comunque la cellula risultante riprende a dividersi e a svilupparsi; a questo punto si combina questo embrione con cellule staminali (embrionali nell’esperimento originale di Nagy e compagni, pluripotenti indotte in quello proposto da Lanza). Le cellule con quattro cromosomi sono buone soprattutto a formare la placenta; per il resto, vengono presto sopraffatte dalle staminali, e alla fine il feto risulta composto esclusivamente da queste ultime – e quindi geneticamente identico al loro proprietario. Recentemente un gruppo di Pechino è riuscito a produrre con la tecnica originale più di quaranta topi vivi alla nascita, metà dei quali è cresciuta e si è riprodotta normalmente.
Sono consapevole del pericolo di esagerare, costante in questo campo; ma se le cose funzioneranno, direi che ci troviamo di fronte al progresso più significativo nel campo della clonazione dalla nascita di Dolly in poi. Sull’Independent un secondo articolo, pubblicato oggi (Steve Connor, «The cloning revolution (part 2)», 18 aprile), mette in risalto le potenziali, rivoluzionarie conseguenze nel campo della preservazione di specie animali in pericolo di estinzione. Ovviamente, persone prive di scrupoli potrebbero far nascere il primo bambino clonato già l’anno prossimo...

Di tutto questo, come abbiamo visto, Assuntina Morresi sembra non essersi accorta: «Dichiarazioni maneggiate e tradotte in modo confuso»... Eppure l’articolo l’ha letto (ne descrive persino l’illustrazione), e l’inglese – immagino – lo capisce anche lei. Ma noi di Bioetica non siamo maliziosi, e addebiteremo senz’altro la cosa a una distrazione: a volte la fretta gioca brutti scherzi. In fondo, non dimostra una certa fretta questo magnifico lapsus, che troviamo nello stesso articolo per Avvenire?
Sarà mancanza di immaginazione, ma fatichiamo a immaginare un genitore contento di avere un figlio che in percentuale è un’altra persona, fosse pure Einstein!
Parole che starebbero bene nel manifesto di un clonatore: le persone normali sono ben contente di avere figli che in percentuale appartengono a un’altra persona, anche se non è Einstein...

giovedì 17 gennaio 2008

Il primo embrione umano clonato

Uno studio apparso oggi (Andrew J. French et al., «Development of Human cloned Blastocysts Following Somatic Cell Nuclear Transfer (SCNT) with Adult Fibroblasts», Stem Cells, published online January 17, 2008) documenta per la prima volta la creazione di un embrione umano capace di giungere allo stadio di blastocisti (cioè con più di un centinaio di cellule), usando la tecnica del trasferimento nucleare di cellula somatica: in altre parole, la clonazione. I nuclei delle cellule della pelle di due volontari sono stati introdotti in ovociti avanzati da procedure di fertilizzazione in vitro, che erano stati privati dei loro nuclei; le cellule risultanti sono state opportunamente stimolate, e hanno cominciato a suddividersi, formando embrioni geneticamente identici ai donatori.
Non si tratta del primo clone umano che arriva a questo stadio di maturazione: già nel 2005 l’impresa era riuscita a un team dell’Università di Newcastle, che aveva però utilizzato non il nucleo di una cellula adulta, ma di una cellula staminale embrionale. Altri successi, ottenuti dal sudcoreano Woo Suk Hwang, si erano dimostrati in realtà una frode scientifica; non a caso, buona parte dell’articolo odierno è dedicata a documentare minuziosamente l’autenticità del risultato. Da oggi si può dire che la tecnica della clonazione umana esce dal cono d’ombra in cui era stata cacciata dall’episodio di Hwang.

Gli studiosi, che fanno parte di una compagnia privata, la Stemagen di La Jolla (California), non hanno ancora tentato di derivare cellule staminali dagli embrioni clonati. Il significato più importante dell’impresa consiste, penso, nell’alto tasso di riuscita: dai 29 ovociti iniziali sono stati ottenuti ben tre cloni, avvicinando di molto la prospettiva concreta della cosiddetta clonazione terapeutica.

Correzione 18/01/08: il titolo del post avrebbe dovuto essere, più esattamente, «Il primo embrione umano maturo clonato». Il primo embrione umano clonato, infatti, era stato ottenuto già nel 2001 da Robert Lanza della Advanced Cell Technology, ma era arrivato solo allo stadio di sei cellule. Inoltre la cellula adulta usata in quell’occasione era un tipo peculiare di cellula che si trova solo nelle ovaie femminili, non una normale cellula della pelle.

venerdì 4 gennaio 2008

Clonato è buono

Cloned Livestock Poised. To Receive FDA Clearance, The Wall Street Journal, January 4, 2008:

After more than six years of wrestling with the question of whether meat and milk from them are safe to eat, the Food and Drug Administration is expected to declare as early as next week that they are.
[...]
While many consumer groups still oppose it, the FDA declaration that cloned animal products are safe would be a milestone for a small cadre of biotech companies that want to make a business out of producing copies of prize dairy cows and other farm animals -- effectively taking the selective breeding practiced on farms for centuries to the cutting edge.
Aspettiamo commenti isterici.

martedì 27 novembre 2007

A very large ostacle called God


Are Scientists Playing God? It Depends on Your Religion, New York Times, 11/20/2007:

American and European researchers have made most of the progress so far in biotechnology. Yet they still face one very large obstacle — God, as defined by some Western religions.
[...]
Asia offers researchers new labs, fewer restrictions and a different view of divinity and the afterlife. In South Korea, when Hwang Woo Suk reported creating human embryonic stem cells through cloning, he did not apologize for offending religious taboos. He justified cloning by citing his Buddhist belief in recycling life through reincarnation.

When Dr. Hwang’s claim was exposed as a fraud, his research was supported by the head of South Korea’s largest Buddhist order, the Rev. Ji Kwan. The monk said research with embryos was in accord with Buddha’s precepts and urged Korean scientists not to be guided by Western ethics.
[...]
Most of southern and eastern Asia displays relatively little opposition to either cloned embryonic stem-cell research or genetically modified crops. China, India, Singapore and other countries have enacted laws supporting embryo cloning for medical research (sometimes called therapeutic cloning, as opposed to reproductive cloning intended to recreate an entire human being). Genetically modified crops are grown in China, India and elsewhere.

In Europe, though, genetically modified crops are taboo. Cloning human embryos for research has been legally supported in England and several other countries, but it is banned in more than a dozen others, including France and Germany.

In North and South America, genetically altered crops are widely used. But embryo cloning for research has been banned in most countries, including Brazil, Canada and Mexico. It has not been banned nationally in the United States, but the research is ineligible for federal financing, and some states have outlawed it.
I corsivi sono miei. Chissà se la strada giusta potrebbe essere quella di convertire gli italiani al buddismo...
La mappa (Laws on Cloning) è stata realizzta da Lee M. Silver, professore di biologia molecolare a Princeton.

lunedì 10 settembre 2007

Agli antipodi

Il 7 settembre la Camera Bassa dello Stato della Western Australia ha approvato per 26 voti a 16 una legge che rende legale la clonazione terapeutica (la tecnica con cui potrebbe essere possibile produrre cellule staminali su misura per ogni singolo paziente), nonché la sperimentazione scientifica sui cosiddetti embrioni orfani. Si attende adesso il voto della Camera Alta per l’approvazione definitiva; la legge promulgherà a livello statale (l’Australia, com’è noto, è una federazione) le norme già approvate dal parlamento federale l’anno scorso.

L’Australia, evidentemente, è piuttosto diversa dall’Italia; ma la Chiesa cattolica è la stessa dappertutto. È successo quindi che, qualche tempo prima del voto, l’arcivescovo di Perth, Barry Hickey, abbia minacciato i membri cattolici del parlamento della Western Australia di voler «riconsiderare la natura del loro rapporto con la Chiesa», se avessero votato a favore della legge; in altre parole, di scomunicarli. Qual è stata la reazione delle istituzioni?
Fred Riebeling, il presidente della Camera, è intervenuto ammonendo l’arcivescovo che avrebbe potuto essere accusato di «disprezzo del parlamento» per i suoi commenti. Ve lo immaginate Bertinotti nelle medesime circostanze?
L’Australia è decisamente molto diversa dall’Italia...

venerdì 24 agosto 2007

Francesco Agnoli e la clonazione

Francesco Agnoli esercita questa settimana i suoi talenti sulla clonazione («Il trono vacante», Il Foglio, 23 agosto 2007, p. 2), con i risultati che si possono facilmente immaginare:

Dal punto di vista teologico la clonazione è un urlo contro Dio, una bestemmia senza precedenti, dal momento che tenta di negare la creazione dell’uomo da parte di Dio, cioè la dipendenza dell’uomo, e la Trinità, e cioè la relazione come aspetto costitutivo dell’essere... tutto in perfetta sintonia col pensiero panteista e deista.
Bisogna riconoscere che ad Agnoli non difetta l’originalità: che la clonazione tenti di negare la Trinità – e per giunta in «sintonia col pensiero panteista e deista», mica banalmente ateo e materialista! – è un’idea che non mi era mai capitato di incontrare prima, e che qualcosa mi dice non incontrerò mai più in futuro. Ma ho una perplessità: anche la creazione di Eva a partire da una costola di Adamo nega «la relazione come aspetto costitutivo dell’essere»? Scommetto che Agnoli risponderebbe di no, ma il dubbio rimane...
Si tratta però, di un tentativo destinato a fallire. Il fallimento è insito nella speranza, infondata teologicamente, di poter creare, di poter infrangere la morte attraverso un [sic] tecnica di duplicazione di se stessi, che però non è in grado di riprodurre altro che l’aspetto fisico, l’involucro esterno dell’uomo. Come due gemelli sono geneticamente identici, ma rimangono due persone diverse, così accadrebbe qualora arrivassimo veramente a realizzare processi di clonazione. C’è un quid, l’anima, su cui la tecnica non ha alcun potere. È così evidente! Ma non a tutti: i riduzionisti credono che tutto stia nel Dna, e si affannano a ritenere di aver esaurito il mistero della vita tramite la sua decifrazione. Interessante a questo proposito il fatto che il primo manifesto a favore della clonazione, pubblicato nel 1977 e firmato da biologi come Crick e Dawkins e umanisti come Isaiah Berlin, affonda le sue radici nell’evoluzionismo darwiniano, e in particolare nella affermazione riduzionista di Darwin secondo cui non esisterebbe differenza di qualità ma solo di quantità tra l’uomo e l’animale. Recita il manifesto: “Per quel che la scienza può stabilire le capacità umane sembrano diverse per grado, non per tipo, da quelle riscontrabili negli animali superiori. Il ricco repertorio umano di pensieri, sentimenti, aspirazioni sembra derivare da processi elettrochimici del cervello e non da un’anima immateriale …”.
Temo che qui Agnoli stia facendo un po’ di confusione – e non solo sulla data del manifesto a favore della clonazione, che è del 1997, non del 1977 («Declaration in Defense of Cloning and the Integrity of Scientific Research», Free Inquiry 17, n. 3). Che la clonazione possa servire a «infrangere la morte» non è mai stata una pretesa di chi difende questa tecnica ma, semmai, uno spauracchio agitato dai suoi detrattori. Né serve invocare l’anima e le sue proprietà per rendersene conto: basta l’ovvia considerazione che le memorie di una persona, che ne costituiscono l’individualità, sono il prodotto dell’esperienza (e del resto si dimostra facilmente che la stragrande maggioranza delle connessioni cerebrali non possono essere determinate dai geni).
Quanto al riduzionismo del Dna, perché Agnoli non si occupa di quello che succede in casa propria, invece di cercare di attaccare pretestuosamente gli altri? Chi è oggi che decanta in continuazione l’umanità del concepito, solo perché possiede un set completo di certi geni? Qual è l’agenzia che ci martella continuamente con l’appello a considerare un embrione privo di coscienza esattamente uguale a una persona capace di pensiero – in altre parole, uguale a una persona dotata di qualcosa che possiamo metaforicamente chiamare benissimo «anima»? Chi propaganda questo repellente riduzionismo, da cui trae i più orrendi e infami corollari, come l’obbligo per una donna di dare vita alla progenie del suo stupratore? Il vero pericolo per la nostra umanità è qui, non in una tecnica – la clonazione – che se anche fosse un giorno abbastanza sicura per essere applicata agli esseri umani rimarrebbe circoscritta a pochi casi particolari, e che comunque consiste in nient’altro che nella creazione di un gemello quasi identico e più giovane di una persona esistente. Si potrebbe persino clonare Francesco Agnoli e, facendo adottare il bambino da una coppia con i giusti requisiti, si avrebbe la certezza quasi matematica di non ottenere come risultato un altro reazionario poco informato...

mercoledì 15 agosto 2007

Se rallentiamo ancora, andiamo a marcia indietro

È solo il finale di un discorsetto che fa sorridere per l’ingenuità, ma forse è perché si mirava alla divulgazione ampia e la semplificazione ha preso la mano a Gianni Vattimo (Il progresso scientifico? Facciamolo rallentare, la Stampa, 14 agosto 2007, sottotitolo: L’etica della responsabilità strumento contro i fanatici della “verità a tutti i costi”). Oppure gli atroci dubbi sul pensiero debole non erano solo critiche maligne.

Clonare o non clonare esseri umani? Per adesso la domanda non è così urgente, ma potrebbe diventarlo in un futuro non tanto remoto. Sarebbe bello che in questioni come queste si potesse decidere solo in riferimento alla natura, come vorrebbe soprattutto la Chiesa. Ma la natura non ha una voce così univoca, e del resto l'uomo è naturalmente sopravvissuto fino ad oggi perché non l’ha rispettata nella sua mitica intoccabilità. Il «principio di precauzione» che giustamente si invoca è solo un esempio di etica della responsabilità che anche e soprattutto gli scienziati non ignorano, e che vale anzitutto contro ogni fanatismo della «verità a tutti i costi». Ma, di nuovo, il problema diventa allora di riconoscere dei limiti che sono bensì nella cosa stessa - per esempio nel caso degli OGM - e però anche sempre nella «compatibilità» sociale di quel che si fa. Così, nel caso della clonazione, oggi la coscienza collettiva è forse preparata ad accettarla in termini parziali (clonare fegati e budella varie, se possibile) ma non se si tratta di individui interi come noi. Oltre tutto non ce n’è bisogno, dunque sarebbe una cosa da pazzi. Ma il «progresso della scienza»? Può rallentare un po’. Tutti preferiamo vivere in una società più umana, e dunque anche più consueta e familiare, piuttosto che in un mondo magari «migliore», ma in cui non ci riconosceremmo più.
Menomale che almeno Vattimo abbia sollevato qualche dubbio sull’efficacia e la sensatezza del criterio “riferimento alla natura”. Tuttavia l’inutilità e l’ambiguità del riferimento alla natura permane in tutta la sua violenza e in tutta la sua sciocchezza (tralascio il rinforzo “come vorrebbe soprattutto la Chiesa”, immancabile presenza). Ne è una prova il richiamo al principio di precauzione e alla sua presunta efficacia, oltre che al suo indubitabile profilo morale (il principio di precauzione è uno strumento fallace e illusorio, spesso dannoso).
Sul significato dei “limiti che sono bensì nella cosa stessa” non saprei bene come orientarmi. Sembra essere una specie di limitazione intrinseca parmenidea dell’essere che autolimita se stesso (sono andata bene?), ma non saprei come usare questo principio di autolimitazione. Cosa farmene, insomma, e come riconoscerlo: è la cosa stessa che mi informa dei propri autolimiti? La verifica della compatibilità sociale non aiuta a chiarire di molto come e perché limitare una “cosa”. Come si giudica se un prodotto o una ricerca sono socialmente compatibili?

Sulla clonazione c’è il gran finale.
1. È prematuro domandare perché ancora tecnicamente azzardato (concordo solo sulla seconda metà dell’affermazione; sulla prima ho molte perplessità: discutere “in anticipo” offre molti vantaggi, per esempio avere il tempo di conoscere gli estremi di quanto si sta discutendo senza attaccarsi alle scuse dell’emergenza. La mia perplessità coinvolge anche l’inferenza).
2. Non c’è bisogno della clonazione quindi è una cosa da pazzi (discutibile che non ce ne sia bisogno e ambiguo l’uso del termine “bisogno”; in alcuni scenari potrebbe essere l’unico modo per procreare e in assenza di danni non sembra legittimo vietarlo o scandalizzarsi – o meglio, chi vuole si scandalizzi pure ma non rompa a chi avesse bisogno di fare ricorso a questa tecnica. L’inferenza è del tutto strampalata: sia perché la premessa è discutibile, sia perché il fatto che di qualcosa non ci sia bisogno non significa che quel qualcosa sia “da pazzi”. Del pensiero debole c’è forse bisogno? Difficile sostenerlo qualora si intenda “bisogno” nel senso che non ci sono alternative, tuttavia non è questa la ragione per cui il pensiero debole potrebbe essere giudicato “una cosa da pazzi”).
3. Clonare fegati e budella varie (non un solo tipo di budella, ma varie. Non siamo andati troppo nel trash?).

Infine, l’implicita identificazione tra un mondo ove la scienza sia tenuta a freno e un mondo consueto, familiare, più umano (una versione filosofica della famigliola Barilla) è davvero patetica, erronea, pericolosa e ridicola. E sarebbe consigliabile che Vattimo non parlasse a nome di tutti: se lui non si riconoscerebbe in un mondo scientifico, non è detto che tutti gli altri proverebbero la stessa tenera attrazione per una allucinazione di Arcadia.

sabato 11 agosto 2007

Già, perché no?

«Perché no?», Capemaster, 11 agosto 2007:

Sono una donna di trentadue anni e come tutte le altre, più o meno, comincio a sentire l’orologio biologico ticchettare prepotentemente.
Non ho un fidanzato, un marito, un compagno. In realtà sono delusa, sia dagli uomini che dalle donne. Non ho cuore di intraprendere un rapporto, anche se solo per procreare, con la feccia che mi circonda.
Ma un figlio lo voglio, lo desidero.
Da leggere tutto.

mercoledì 8 agosto 2007

Maialetto clonato

Siamo alla quarta generazione di maiali clonati creati dal team di Hiroshi Nagashima, Meiji University, Tokyo. I maiali godono di ottima salute e rappresentano un notevole risultato della ricerca scientifica nonché un incoraggiamento anche per la ricerca medica (Fourth-Generation Pig Cloned in Japan, Physorg.com, 8 agosto 2007).
Che cosa fa la Coldiretti? Lancia un allarme e avverte con toni apocalittici (d’altra parte è un allarme):

occorre introdurre immediatamente un sistema di etichettatura di provenienza per consentire la rintracciabilità ed impedire che carne proveniente da animali clonati finisca inconsapevolmente nel piatto.
(SALUTE: COLDIRETTI, ALLARME PER MAIALI GIAPPONESI CLONATI, Agi, 8 agosto 2007) e aggiunge:
Si tratta di una preoccupante novità che, oltre alle evidenti perplessità di natura etica, pone un problema di scelta consapevole da parte dei consumatori. Per evitare che prodotti derivanti da animali clonati importati arrivino sulle tavole degli ignari cittadini europei occorre introdurre immediatamente l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza di tutti gli alimenti come è già stato fatto per la carne bovina e per quella di pollo, ma non ancora per quella di maiale o per i formaggi.
Passi per l’etichettatura (ammesso che non sia un modo subdolo per vietare piuttosto che etichettare o per affermare implicitamente, senza alcuna prova, che l’osso buco di maiale clonato sia dannoso per la salute), ma le evidenti perplessità di natura etica quali sarebbero?
Violazione dell’identità porcina? Del diritto del maialetto ad avere due genitori? Eterodeterminazione suina? Aspettiamo lumi.

Ripensamenti: in effetti è troppo ridicolo, troppo. Condivido il “Fate pena” di Capemaster (e anche le sue altre affermazioni).

mercoledì 20 giugno 2007

Clonazione terapeutica delle scimmie: finalmente!

Dall’ultimo numero di Nature l’annuncio di un passo potenzialmente molto importante verso il traguardo sospiratissimo della clonazione terapeutica degli esseri umani (Monya Baker, «Monkey stem cells cloned», Nature 447, 2007, p. 891):

Un gruppo di ricerca americano ha rivelato questa settimana che cellule staminali embrionali clonate a partire da scimmie sarebbero state finalmente create. La scoperta è stata annunciata il 18 giugno per mezzo di una presentazione dell’ultimo momento all’incontro annuale della International Society for Stem Cell Research, a Cairns in Australia. Questo risultato rianimerà senza dubbio le speranze che cellule analoghe possano essere prodotte per gli esseri umani.
«Aspettavamo questo momento da un bel po’», ha dichiarato Alan Trounson della Monash University di Victoria, Australia, che ha introdotto la presentazione.
Il lavoro è stato portato a termine da Shoukhrat Mitalipov dello Oregon National Primate Research Center di Portland, e dai suoi colleghi. Dopo aver rimosso i cromosomi da ovociti di scimmia non fertilizzati, gli scienziati li hanno sostituiti con nuclei di cellule epiteliali di una scimmia rhesus adulta (Macaca mulatta). Da un totale di 278 ovociti sono state ottenute 21 blastocisti (embrioni cavi a uno stadio precoce di sviluppo), dalle quali il gruppo di ricercatori ha derivato alla fine due linee di cellule staminali. I risultati devono ancora essere pubblicati.
Il fallimento di tentativi precedenti di clonare cellule staminali embrionali a partire da scimmie aveva portato molti esperti del campo a suggerire che caratteristiche specifiche dei primati rendevano forse l’impresa impossibile (C. Simerly et al., Science 300, 2003, p. 297). «Ora sappiamo che è possibile con i primati, come con altre specie di mammiferi», ha dichiarato Norio Nakatsuji dell’Università di Kyoto, che in passato aveva ottenuto linee di staminali di primati a partire da embrioni non clonati.
Un aspetto forse cruciale della nuova ricerca è costituito da un procedimento meno traumatico per rimuovere i cromosomi dall’ovocita, usando un software per imaging per guidare il processo, al posto della colorazione e della luce ultravioletta.
José Cibelli, un esperto di clonazione della University of Michigan di Ann Arbor, ha dichiarato che non sembrano esserci al momento evidenti motivi per cui le tecniche da impiegare nella produzione di cellule staminali embrionali umane tramite trasferimento nucleare debbano essere molto diverse da quelle usate con i primati non umani. Ma avverte anche che «quello che funziona nelle scimmie rhesus non funziona con i babbuini».
Il lavoro del grupppo dell’Oregon deve ancora essere replicato nelle scimmie, ma Renee Reijo Pera della Stanford University, California, progetta di applicare le stesse tecniche ad altre specie di primati, e sostiene che il successo con le scimmie dovrebbe portare nuova linfa all’impegno di trovare tecniche analoghe per gli esseri umani.

Aggiornamento: un commento su NewScientist.comHuman therapeutic cloning moves closer to reality», 30 giugno).

giovedì 7 giugno 2007

Il buco delle cellule staminali embrionali

Dalle News di Darwin una notizia molto interessante che è stata pressoché ignorata dai media. Ancora più interessante è l’ipotesi esplicativa di tale assenza (Un lavoro da copertina ignorato dai media).

A volte la lettura dei giornali il mattino genera qualche sconcerto. Stavolta gli argomenti sono le tecniche di clonazione e la riprogrammazione di cellule adulte, salvo il fatto che i principali quotidiani di oggi riportano la seconda notizia ma ignorano la prima. La notizia “bucata” riguarda un lavoro del gruppo di Kevin Eggan, della Harvard University, a cui Nature ha addirittura dedicato la copertina del numero di oggi (vedi la foto a fianco) e guarda caso non è una novità di poco conto. Sinora l’unico metodo disponibile per ottenere linee di cellule staminali embrionali con un determinato patrimonio genetico era di estrarre il nucleo di un ovocita e sostituirlo con quello prelevato da una cellula adulta del donatore. La tecnica si prestava a due scopi, il primo era di clonare individui, risultato sinora ottenuto su 16 specie animali. Il secondo era di ricavare staminali embrionali nella speranza di avere un giorno o l’altro tessuti da trapianto compatibili con un eventuale paziente affetto da malattie degenerative per cui oggi non esistono cure (la cosiddetta medicina rigenerativa). La frontiera delle staminali embrionali si è però sempre scontrata con una considerazione molto concreta: infatti la bassa efficienza dimostrata dalla tecnica di trasferimento nucleare richiedeva la disponibilità di un numero elevato di ovociti che a loro volta erano prelevati da “donatrici” a cui si chiedeva il prezzo di sottoporsi a stimolazioni ormonali. Ovviamente l’utilizzo terapeutico di cellule staminali – embrionali o adulte che siano – comportano la soluzione di non pochi altri problemi, ma per restare all’oggi si può dire che il futuro delle embrionali sembrava molto precario proprio per la difficoltà di reperire gli ovociti necessari. Il lavoro di Kevin Eggan, a cui Nature dedica la copertina, sembrerebbe aver superato questo scoglio perché piuttosto che usare ovociti il trasferimento nucleare lo si effettua su uno zigote, o se si preferisce su un ovocita già fecondato e nella primissima fase di sviluppo. Significa aver risolto un problema non indifferente perché in tutte le cliniche dove si fa fecondazione in vitro c’è abbondanza di embrioni sovrannumerari destinati alla distruzione. Stranamente la notizia è passata sotto silenzio mentre è stato dedicato ampio spazio a una seconda linea di ricerca che stavolta riguarda le cellule adulte. Vari gruppi hanno infatti pubblicato su Nature (Yamanaka e Jaenisch) e Cell Stem Cell (Hochedingler) tre lavori che riferiscono dello stesso risultato: ovvero la “riprogrammazione” di cellule adulte allo stadio di pluripotenza utilizzando quattro fattori di trascrizione. Su questo risultato fosse una eclatante novità non ci sarebbe stato niente da eccepire, ma si tratta invece della conferma di un risultato già annunciato su Cell il 25 agosto dello scorso anno e peraltro firmato dal gruppo di Shinya Yamanaka, autore di uno dei lavori pubblicati oggi su Nature. Lo stesso Yamanaka firma oggi su Cell Stem Cell una rassegna molto istruttiva che esamina tutte le vie possibili di approccio alle staminali citando espressamente la contemporanea uscita su Nature del lavoro del gruppo di Kevin Eggan. D’altro canto la rivista londinese aveva inviato a tutti i giornalisti registrati una press release dove segnalava i lavori in uscita e ne ha sintetizzato sempre oggi i risultati sul portale Nature News. Questo per dire che gli elementi di valutazione non mancavano, sempre che non si pensi che una rivista scientifica a forte fattore di impatto dedichi una copertina a un lavoro preso a caso. La ragione del “buco” è presto detta: si è infatti preferito riferire della conferma di un risultato, e ignorare la novità del lavoro di Eggan, perché l’argomento è ormai talmente viziato dalla politica da far passare in seconda linea anche la sintassi giornalistica.
Tra le poche eccezioni all’indifferenza Anna Meldolesi Da uno zigote può nascere un embrione. La clonazione terapeutica è al dopo-Dolly, Il Riformista, 6 giugno 2007 e Fertilized eggs yield stem cells, The Scientist, 6 giugno 2007.

lunedì 29 gennaio 2007

Non esistono domande stupide (ma risposte forse sì...)

La premessa è molto rassicurante:

Esquire’s Answer Fella believes that there are no stupid questions, just stupid people who don’t ask questions, fearing they’ll look stupid. So ask Answer Fella anything. If he doesn’t know the answer, he’ll find out who does or who has a guess that sounds right.
Esquire, Answer Fella, February 2007, Volume 147, Issue 2.

Passiamo alla prima domanda:
Would a cloned human being have a soul? It wasn’t widely reported, but when Dolly the sheep—the first mammal cloned from an adult cell—died in 2003, she was listening to Barry White’s 1974 smash album Can’t Get Enough and pregnant by a Bolivian alpaca doing a long stretch at Edinburgh’s Royal Zoo for running cocaine. Sure, the vets gave her the lethal injection, but the real cause of death was a broken heart. Now if a freaking cloned sheep had such a vast spirit, you can bet that a cloned human would be imbued with the same immaterial presence that binds us all, even Antonin Scalia, to the Godhead. But don’t just take AF’s word for it. C. Ben Mitchell, director of the Center for Bioethics and Human Dignity, says, “The answer is in the question itself. A cloned human being would in fact be a person and would therefore be ensouled. To be human is to be a person is to be a soul.” This is neither an argument in favor of human cloning nor the final answer to various theological questions about the existence or nature of a human soul, topics best left to mouthbreathing Pentecostals, infallible men in funny hats, and Mitch Albom. It is simply to say, as Arthur Caplan*, chairman of the Department of Medical Ethics at the University of Pennsylvania does, “If humans have souls, then clones will have them, too.”
* Il 17 gennaio in Will Human Clones Have Souls: Esquire asks the question, “would a cloned human being have a soul?” […] which I mention as though I’ve ever heard of it, which I haven’t. The question comes right before another about what it means to call “the badlands” badlands, and in both cases the correct answer is, “shut up.”

Anche la seconda domanda non è male (così la risposta, naturalmente):
Why are South Dakota’s badlands called badlands? Not long ago, I read about a fossil discovery in Ethiopia’s “badlands”—so is it a generic term? Yes and no. South Dakota’s White River Badlands area— including what is now the Badlands National Park—was called mako sica by the Lakota Sioux natives (“land bad” in English; more specifically “land bad to travel across”). To the French fur trappers of the 1800s, it was known as les mauvaises terres à traverser (“no place for frog girlie-men”). Homesteaders have called it the badlands for at least 150 years, basically because of the harsh, barren terrain, lack of water, and generally pissed-off attitude. There are areas called badlands in other states and countries, Ethiopia among them, but according to Scott Southworth, a U.S. Geological Survey research scientist, the term is often misused. “The true definition,” he says, “is an intricately stream dissected topography. It has a very fine density drainage network with a very high density of streams, steep slopes, narrow fluves, little to no vegetation, and nothing really covering up the rock. There’s not much you can do with it other than sit back and go, ‘Wow.’” Wow.
Wow!

E per concludere:
What happens to the bodies of very large animals—you know, elephants and such—when they die at the zoo? According to Brandie Smith, director of conservation and science for the Association of Zoos and Aquariums, a necropsy—an animal autopsy—is performed first, to determine the cause of death and for research. “We can check all kinds of things, like cholesterol levels or measure the size of the heart,” she tells AF. “We use it as an opportunity to learn more about them as a species.” After the necropsy, Smith says, the goal is to use the remains to advance science and education. When an elephant dies, for example, the ivory may go to a classroom, the skull to a museum, and the penis to Tijuana (The penis-to-Tijuana thing is a joke. They actually ship it to Keith Olbermann for his collection). “We try to use any parts of the animal that can help further the species as a whole. The remaining parts are either buried or cremated. A lot of zoos have an onsite facility where they’ll bury the remains, but it usually isn’t marked; you’re not going to go to a zoo and see an elephant-and-rhino graveyard. We don’t humanize them in their death. We bury them and they return back to the earth.” (Wow).
Se avete una domanda su qualsiasi argomento, non temete di sembrare stupidi, tanto sarete surclassati. Mandate i vostri dubbi a: Answer Fella via esquire.com/talk.

(Sembrano le domande e le risposte dei deliranti concorsi di Jay Leno...)

sabato 6 gennaio 2007

Cloni da mangiare

William Saletan si occupa oggi della reazione montante contro la decisione della Food and Drug Administration di dare il via libera al consumo della carne di animali clonati («The bum rap on cloned food», Slate, 6 gennaio 2007):

The left-wingers want the FDA, Congress, and President Bush to keep clones off the market. Their case, laid out in a petition to the FDA, is a mess of anecdotes, obsolete data, speculation, and ideology. … But their strongest argument is that cloned food is unsafe, since cloning, unlike fertilization, often fails to reprogram genes for normal embryonic development.
It’s a sensible worry, but the facts don’t bear it out. The FDA’s review, based on exhaustive and fully disclosed analysis of scientific journal articles, health records, blood samples, and meat and milk composition, found no “food consumption risks or subtle hazards in healthy clones of cattle, swine, or goats.” The agency concluded that “food from the sexually reproduced offspring of clones is as safe as food that we eat every day.”
Why don’t reprogramming errors taint your food? Because if they’re serious, they kill the animal before it’s old enough to be milked or eaten, or they cause defects that make the animal flunk federal food safety inspections. They don’t carry over to a clone’s offspring, since fertilization, like rebooting, cleans up programming errors. And the offspring are where the milk and meat will come from. ViaGen charges $15,000 to clone a steer. You don’t butcher a $15,000 clone. You use it for breeding.
Critics say cloning often causes health problems for cloned animals and their surrogate mothers. That’s true, but less so in some species, and the rate of complications is falling as the technology improves. Opponents of cloning also suggest we should ban it because it’s unethical “to alter the essential nature of animals.” Essential nature? We’ve been breeding animals for 15,000 years. We’ve been artificially inseminating them for nearly 700 years. Most apples, bananas, grapes, peaches, and potatoes are clones, and a lot of meat sold today was produced through in vitro fertilization, embryo transfer, or embryo splitting.
E conclude, appropriatamente:
Don’t be cowed. Question your fears. That’s the difference between us and the animals.