domenica 24 ottobre 2010

I molteplici significati del velo

Sono riflessioni risalenti a qualche anno fa, quelle che Ida Dominijanni compie nel saggio «Corpo e laicità: il caso della legge sul velo» (in Le ragioni dei laici, a cura di Geminello Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 172-74), ma particolarmente attuali:

È noto da accurate analisi svolte sul campo che la semantica del velo non è interpretabile in modo univoco, trattandosi di un segno che oggi viene riscritto all’incrocio fra ritorno e reinvenzione della tradizione, fra controllo patriarcale delle donne e movimenti di libertà femminile, fra rifugio nell’identità e rivendicazione della differenza islamica rispetto all’omologazione occidentalista globale. Questa polisemia cambia inoltre da contesto a contesto: l’uso del burka imposto dai talebani afgani non è paragonabile a quello ‘conformista’ del foulard in Iran, o in Algeria o in Turchia. In Francia, esso non è separabile dall’impatto degli immigrati di seconda e terza generazione con la cittadinanza e con l’immagine occidentale della donna: è «una provocazione» che segnala «lo scacco francese» nella promessa non mantenuta di uguaglianza, il rovesciamento in positivo di una identità imposta nella comunità d’origine e discriminata in quella d’adozione. Più precisamente, dell’uso del velo nelle periferie parigine sono stati individuati quattro significati diversi: c’è il velo tradizionale della madre o della nonna, c’è il velo imposto alle giovani dai genitori, c’è il velo rivendicato contro i genitori che si sono lasciati assimilare troppo ai costumi occidentali, c’è il velo negoziato con i genitori pur di potere uscire la sera con gli amici occidentali; e infine c’è il velo indossato come schermo di difesa da aggressioni e discriminazioni maschili, occidentali e islamiche: un uso controparadossale, e a suo modo ‘femminista’, del marchio dell’oppressione. Le società occidentali post-femministe, del resto, ne dovrebbero sapere qualcosa: com’è stato osservato, fu un classico «rovesciamento dello stigma» a caratterizzare l’uso di massa delle gonne a fiori nel femminismo degli anni Settanta, ovvero la risemantizzazione di un segno che nel senso comune evocava una femminilità tradizionale e passiva in un simbolo di femminilità rivendicata, autocosciente, sottratta al metro di misura dell’immaginario sessuale maschile e al diktat emancipazionista.
Con ciò non intendo, sia chiaro, ribaltare il discorso corrente sostenendo che il velo è sempre o prevalentemente segno di libertà femminile: il problema sta proprio nella polivalenza di significati e di temporalità che esso veicola, caso tipico di quella ‘sincronicità dell’asincronico’ che rompe nell’epoca globale il tempo lineare del progetto moderno. Non si tratta dunque tanto di compulsare la casistica dettagliata dei suoi usi, quanto di adottare una prospettiva che ne contempli anche un uso libero, e lo consenta. Il che comporta evidentemente la necessità di lasciare la decisione di portarlo o non portarlo, e con quale significato, alle dirette interessate, invece di affidarla a una legge che pretende di tutelarle paternalisticamente e di controllarle autoritativamente, come invece sceglie di fare il rapporto della Commissione Stasi. Il quale ne uniforma l’uso e il divieto, glissando sul fatto che, come pure scrive, «per quelle che lo portano il velo può rivestire diversi significati: può essere una scelta personale o, al contrario, un obbligo, particolarmente intollerabile per le più giovani» […].
Come appare chiaramente nel seguito del saggio, la riflessione dell’autrice si svolge all’interno del cosiddetto femminismo della differenza, di cui è bene diffidare, a causa delle sue possibili degenerazioni in senso comunitarista e oppressivo – anche se la Dominijanni ne rimane una delle (poche?) interpreti ragionevoli. A mio parere, comunque, un’applicazione appena coerente del paradigma liberale porterebbe, nel caso del velo, a risultati pressoché identici a questi.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Sfortunatamente, la legge sul velo si rende necessaria in una società come quella francese dove di "liberalismo" c'è ben poco.
In una applicazione del liberalismo, le banlieu non esisterebbero, certo non nella forma attuale. Le benlieu esistono perché uno stato centralista ha creato, volutamente (senza pensare alle conseguenze), dei ghetti gli immigrati, di fatto impedendo loro di integrarsi.
L'imposizione del velo islamico con la violenza, in una società liberale sarebbe molto più difficile, dato l'intervento delle forze di polizia e la possibilità dei civili di difendersi adeguatamente (liberalismo nel porto di armi).
Non solo, le persone sarebbero libere di discriminare (in modo non violento, ovviamente) tra chi porta il velo e chi no.

In questo caso, la libertà di non portare il velo sarebbe tutelata quasi quanto la libertà di portarlo.

Resta il problema di cosa fare con chi porta il velo con le stesse idee di chi portava la svastica sul braccio. Perché, per parafrasare un Giudice della Corte Suprema degli USA "Il Principio Liberale non è un Patto Suicida".

Luca Simonetti ha detto...

Il principio liberale è che tutto ciò che non danneggia nessuno dovrebbe essere permesso, e non si capisce proprio cosa ci potrebbe mai essere di "suicida". O il velo danneggia qualcuno, e allora va vietato (e l'unico autore che abbai articolato in maniera sensata quest'idea secondo me è questa: http://www.amazon.fr/Une-femme-col%C3%A8re-Europ%C3%A9ens-d%C3%A9sabus%C3%A9s/dp/2070127273/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1287999739&sr=1-1) oppure no, e allora va permesso. Il problema non è decidere se imporre o no qualcosa (è scontato che le norme occorrano), il problema è non imporre a vanvera.

Anonimo ha detto...

la donna deve essere libera di portare o meno il velo, fatte salve le ragioni ostative, in materia di pubblica sicurezza.

=chi porta il velo con le stesse idee di chi portava la svastica sul braccio=
temo molto le figure dei reati ideologici o di opinione. Per la stessa ragione trovo pericolosissimo, e sono contrario, ad introdurre 'reati di opinione' quali 'l'astratta omofobia'.

francesco sirio

Francesco Cerisoli ha detto...

Mi sembra un'analisi corretta. Forse in Italia non si percepisce a fondo quanto di veli e di ragioni per portarli ce ne siano svariati/e. E in generale la reazione e' lo "snort sgrunt" legaiolo.

Grendel ha detto...

"l’uso del burka imposto dai talebani afgani non è paragonabile a quello ‘conformista’ del foulard in Iran"
Qualcuno dice all'autrice che il "foulard" si chiama "Chador" e a non indossarlo si rischia la galera?
Ma i giornali (almeno quelli) non li legge?