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sabato 14 dicembre 2013

Eutanasia dei minori in Belgio: la proposta di legge

Il 12 dicembre scorso il Senato belga ha approvato il testo della proposta di legge che prevede l’estensione ai minori della legge sull’eutanasia (in vigore in quel paese dal 2002). La proposta di legge passa adesso alla Camera per l’approvazione definitiva; non è certo che l’iter possa concludersi in tempo prima dello scioglimento del Parlamento (le prossime elezioni si terranno il 25 maggio 2014).
In queste materie la tendenza a giudicare su notizie parziali o infondate è ben radicata, tanto più quando si parla di eventi accaduti all’estero; può così capitare di leggere su uno dei blog integralisti più seguiti queste parole (Daniela Bovolenta, «Il seme del futuro», Il blog di Costanza Miriano, 5 dicembre 2013):

La proposta di legge belga per l’estensione dell’eutanasia anche ai bambini piccolissimi, per richiedere la quale la “sofferenza dei genitori” sarà considerato un valido motivo, sembra essere un primo passo per forzare nello stesso senso anche altre legislazioni europee.
Qui la vera proposta di legge è stata sostituita da un’altra, frutto integrale – si direbbe – della fantasia sovreccitata dell’autrice (ma tutto il post reca i segni della stessa febbrile creatività).
Per fare dunque opera di informazione, propongo qui di seguito la mia traduzione del testo della proposta di legge belga. Per comodità del lettore riporto il testo della legge preesistente (Loi relative à l’euthanasie, 28 mai 2002) con le modifiche sostanziali approvate dal Senato in evidenza (limitatamente agli articoli 2 e 3).
In sintesi: l’eutanasia può essere effettuata solo su richiesta del paziente; il paziente minore dovrà dunque essere dotato della necessaria capacità di discernimento, verificata da uno psichiatra dell’infanzia o da uno psicologo. A differenza che per gli adulti, nel caso dei minori l’eutanasia potrà essere richiesta solo da pazienti terminali e soltanto in caso di sofferenze fisiche, e non anche psichiche. Sarà necessario infine il consenso dei tutori legali.


CAPO I. Disposizioni generali.

Art. 2. Ai fini dell’applicazione della presente legge, si intende per «eutanasia» l’atto, eseguito da un terzo, che mette intenzionalmente fine alla vita di una persona su richiesta di quest’ultima.

CAPO II. Dei requisiti e della procedura.

Art. 3.
§ 1. Il medico che pratica un’eutanasia non commette reato se si è assicurato che:
- il paziente è maggiore d’età o è un minore emancipato, capace, o è un minore dotato della capacità di discernimento, ed è cosciente al momento della richiesta;
- la richiesta è espressa in modo volontario, ponderato e ripetuto, e non è frutto di una pressione esterna;
- il paziente maggiore d’età o minore emancipato si trova in una situazione medica senza speranza ed è oggetto di una sofferenza fisica o psichica costante e insopportabile che non può essere mitigata e che è il risultato di un’affezione accidentale o patologica grave e incurabile;
- il paziente minore dotato della capacità di discernimento si trova in una situazione medica senza speranza che comporta il decesso a breve scadenza ed è oggetto di una sofferenza fisica costante e insopportabile che non può essere mitigata e che è il risultato di un’affezione accidentale o patologica grave e incurabile;
e di rispettare i requisiti e le procedure prescritti dalla presente legge.

§ 2. Il medico, senza pregiudizio delle condizioni supplementari che vorrà porre al suo intervento, deve, preliminarmente e in ogni caso:
1º informare il paziente del suo stato di salute e della sua speranza di vita, concertarsi con il paziente sulla sua richiesta di eutanasia e tratteggiargli le possibilità terapeutiche ancora disponibili nonché le possibilità offerte dalle cure palliative e le loro conseguenze. Egli deve giungere, assieme al paziente, alla convinzione che non rimanga nessun’altra soluzione ragionevole nella situazione data e che la richiesta del paziente sia completamente volontaria;
2º assicurarsi della persistenza della sofferenza fisica o psichica del paziente e della sua volontà reiterata. A questo scopo, effettua con il paziente numerosi colloqui, separati da intervalli di tempo ragionevoli in considerazione dell’evoluzione dello stato del paziente;
3º consultare un altro medico sul carattere grave e incurabile dell’affezione, precisando le ragioni del consulto. Il medico consultato prende conoscenza della cartella clinica, esamina il paziente e si assicura del carattere costante, insopportabile e non mitigabile della sua sofferenza fisica o psichica. Egli redige un rapporto sui propri accertamenti.
Il medico consultato deve essere indipendente, sia rispetto al paziente sia rispetto al medico che effettua il trattamento, e deve essere competente per quanto riguarda la patologia in oggetto. Il medico che effettua il trattamento informa il paziente dei risultati del consulto;
4º dialogare, se esiste un’équipe curante in contatto regolare con il paziente, sulla richiesta del paziente con l’équipe o con alcuni dei suoi membri;
5º dialogare, se questa è la volontà del paziente, sulla sua richiesta con i congiunti da lui indicati;
6º assicurarsi che il paziente abbia avuto l’opportunità di dialogare sulla sua richiesta con le persone che desiderava incontrare;
7º consultare inoltre, quando il paziente è un minore non emancipato, uno psichiatra dell’infanzia o uno psicologo, precisando le ragioni del consulto.
Lo specialista consultato prende conoscenza della cartella clinica, esamina il paziente, si assicura della capacità di discernimento del minore e la attesta per iscritto.
Il medico che effettua il trattamento informa il paziente e i suoi tutori legali del risultato di questi consulti.
Il medico che effettua il trattamento dialoga con i tutori legali del minore, fornendo loro tutte le informazioni previste al § 2, 1º, e si assicura che aggiungano per iscritto il loro consenso alla domanda del paziente minore.


§ 3. Se il medico è del parere che il decesso del paziente maggiore d’età o minore emancipato non si verificherà sicuramente a breve scadenza, deve inoltre:
1º consultare un secondo medico, psichiatra o specialista della patologia in oggetto, precisando le ragioni del consulto. Il medico consultato prende conoscenza della cartella clinica, esamina il paziente, si assicura del carattere costante, insopportabile e non mitigabile della sua sofferenza fisica o psichica e del carattere volontario, ponderato e ripetuto della richiesta. Egli redige un rapporto sui propri accertamenti. Il medico consultato deve essere indipendente, sia rispetto al paziente sia rispetto al medico che effettua il trattamento e al primo medico consultato. Il medico che effettua il trattamento informa il paziente dei risultati del consulto;
2° lasciar passare almeno un mese tra la domanda scritta del paziente e l’eutanasia.

§ 4. La richiesta del paziente così come il consenso dei tutori legali se il paziente è minore devono essere registrati in forma scritta. Il documento viene redatto, datato e firmato dal paziente stesso. Se egli non è in grado di farlo, la sua richiesta viene registrata in forma scritta da una persona maggiorenne di sua scelta che non deve avere nessun interesse materiale al decesso del paziente.
Questa persona menziona il fatto che il paziente non è in grado di formulare la propria richiesta per iscritto e ne indica i motivi. In questo caso, la richiesta viene registrata in forma scritta in presenza del medico, e la persona in questione indica il nome del medico nel documento. Questo documento deve essere allegato alla cartella clinica.
Il paziente può revocare la sua richiesta in ogni momento, nel qual caso il documento viene prelevato dalla cartella clinica e restituito al paziente.

§ 4/1. Dopo che la richiesta del paziente è stata esaudita dal medico, le persone interessate vengono informate della possibilità di ricevere un sostegno psicologico.

§ 5. L’insieme delle domande espresse dal paziente, così come gli atti del medico che effettua il trattamento e il loro risultato, compreso(/i) i(l) rapporto(/i) del(/i) medico(/i) consultato(/i), sono annotati regolarmente nella cartella clinica del paziente.

martedì 4 marzo 2008

A proposito di cure ai prematuri

È uscito da poco il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) sull’assistenza ai bambini molto prematuri. I membri del Comitato si sono espressi a larga maggioranza a favore dell’assistenza senza limiti o vincoli di nessun tipo; una posizione che ricalca peraltro un’opinione che sembra molto diffusa, e che è venuta fuori molte volte in occasione di eventi recenti: non assistere un prematuro sarebbe omicidio, e i medici devono dunque procedere per così dire d’ufficio, senza ascoltare i genitori del bambino. Anche sostenitori della possibilità di abortire hanno fatto generalmente propria questa tesi, dandola anzi per scontata, e persino alcuni che in un primo momento l’avevano rigettata sdegnati si sono poi subito corretti. Ma quanto è fondata, in realtà? Cerchiamo di scoprirlo.

Va subito detto che nel nostro paese non esiste in generale per i medici un obbligo assoluto di sottoporre un paziente a trattamento medico: condizione necessaria per ogni atto medico è infatti il consenso del paziente, come risulta in primo luogo dall’art. 32 comma 2 della Costituzione:

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
In termini simili si esprimono anche il Codice di deontologia medica, alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia, e numerosissime sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.
Naturalmente, non tutti sono capaci di esprimere il proprio consenso. In questi casi la decisione spetta al tutore; ma è ovvio che questi non può decidere arbitrariamente. Dovrà sottostare a un principio, che la Convenzione di Oviedo (art. 6, comma 1) esprime in questo modo:
Un trattamento può essere eseguito su una persona che non ha la capacità di esprimere il proprio consenso solo per il suo diretto beneficio («an intervention may only be carried out on a person who does not have the capacity to consent, for his or her direct benefit»).
Il Codice di deontologia medica reca una formulazione analoga, ma sembra anche porre una restrizione in più (art. 37):
In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto a informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore e dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili.
Ma il precedente art. 35 sembra offrire una diversa chiave di lettura, che in qualche modo riprende il dettato costituzionale sui «limiti imposti dal rispetto della persona umana»:
Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico […].
Ora, è concepibile che non prolungare con mezzi medici l’esistenza di alcuni pazienti minori o incapaci vada a beneficio di questi stessi pazienti? Che si rispetti così la loro dignità e la qualità della loro vita? Più in particolare, per venire al caso in esame: è concepibile che sospendere o non iniziare le cure a un neonato prematuro, affetto da gravissime patologie che incideranno pesantemente sulla qualità della sua vita futura, sia nel suo interesse? Non mi riferisco a patologie anche gravi, come la sindrome di Down, che però non rendono la vita indegna di essere vissuta; ma a situazioni di sofferenza insopportabile, o comunque di sofferenza grave non bilanciata da nessun aspetto positivo significativo, che la prematurità rende molto frequenti nei neonati. La questione è particolarmente lacerante nel caso di un neonato sopravvissuto a un aborto; è vero che la legge 194 evita in teoria casi simili, proibendo l’interruzione di gravidanza per motivi terapeutici quando esista la possibilità di sopravvivenza extra-uterina; ma anche restringendo i termini in cui l’aborto è oggi ammesso, casi simili si presenterebbero comunque, vista l’incertezza che spesso circonda la durata effettiva della gestazione.

Molti di noi ritengono che nel caso di un paziente adulto questa sia una verità evidente: vi sono destini infinitamente peggiori di una morte senza sofferenze. Altrettanti, se non di più, pensano che questo sia vero anche per i nostri animali, e che sia segno di egoismo prolungarne le sofferenze pur di non separarsene per sempre. Ciò che vale per esseri umani capaci di volontà autonoma e per esseri non umani privi di quella capacità, vale evidentemente anche per esseri umani incapaci.
Altri non la pensano così. La legge tace: non ci dice cosa esattamente si debba intendere per «dignità della persona» – anche se per il senso comune, oserei dire, questa espressione è incompatibile con determinate situazioni. Non si capisce comunque in base a che cosa i valori di alcuni – valori che, a ben guardare, giustificano quella che molti definirebbero come la tortura protratta di esseri umani innocenti – debbano essere imposti a tutti. Non si capisce, in altre parole, perché la decisione sul trattamento dei prematuri non debba essere demandata – all’interno di una classe ben definita di casi gravissimi – ai loro genitori. Se in questo modo si solleva un grave problema etico (che non pretendo qui di risolvere), è perché sarebbe possibile appunto per alcuni condannare i propri figli a un’esistenza di dolore senza speranza. Su questo il CNB avrebbe dovuto esprimere un parere...

Ci si può chiedere quali siano in pratica i casi talmente disperati da richiedere una pietosa omissione delle cure. Ne avevamo visto uno poco tempo fa. Si può obiettare che anche una bambina priva di occhi, sorda e costretta all’alimentazione con una sonda gastrica potrebbe avere una vita degna di essere vissuta; e anche se è difficile vedere come, se ne può discutere. Ma alla fine esistono dei casi dove il dubbio non è più possibile.
Qualche giorno fa è comparsa sul Foglio un’intervista a Eduard Verhagen, l’autore di quel Protocollo di Groningen che regola l’eutanasia dei bambini nei Paesi Bassi (Giulio Meotti, «“Non sono un mostro, io libero i bambini”», 29 febbraio 2008, p. 1). Verhagen parla di una bambina di nome Sanne:
Le era stata diagnosticata la più grave forma di Epidermolysis bullosa, uno stato incurabile e fatale, che progressivamente distrugge la pelle e auto-amputa le estremità. La pelle sarebbe letteralmente venuta via [ogni] volta che fosse stata toccata o abbracciata, lasciando in quel punto penose lacerazioni nel tessuto epiteliale. Gli strati più superficiali delle mucose della bocca e dell’esofago si staccavano ogni volta che veniva nutrita, funzione espletata per intubazione. Nel più ottimistico dei casi, avrebbe vissuto fino al suo nono o decimo compleanno, dopodiché sarebbe certamente morta di cancro della pelle. A giorni alterni si sarebbero dovute cambiare le bende, staccarle agli strati meno superficiali della pelle, strappare i tessuti di pelle appena riformatisi, lasciandola in un dolore estremo malgrado le migliori cure palliative.
Verhagen sta parlando di un caso di eutanasia: alle sofferenze di Sanne è stata posta fine con la somministrazione di farmaci adatti. Ma la stessa conclusione si sarebbe raggiunta (anche se forse meno pietosamente) con la sospensione dei trattamenti medici. Credo che anche un tribunale italiano, in base semplicemente alle norme vigenti, potrebbe (e dovrebbe) autorizzare un passo simile. E credo che la coscienza dica a ognuno di noi che questa sarebbe la cosa giusta da fare – se la coscienza non ci è stata divorata dall’ideologia.

venerdì 8 dicembre 2006

Diritto di vita e di morte

A distanza di due giorni, per due volte, sul Foglio è stata usata l’espressione «diritto/potere di vita e di morte» in articoli che parlavano di eutanasia. Ha iniziato il 6 dicembre Nicoletta Tiliacos, che aggiungendo il proprio commento sul caso Welby ai molti altri presenti in quel numero del giornale (l’editoriale del Pezzo Grosso, in prima pagina, l’ha già regolato a dovere Malvino, e non ne parlerò), sostiene (a p. II dell’inserto):

Come non capire che, alla fine di tutto, a decidere se dar seguito o no alla richiesta di morire avanzata dal paziente sarà il medico, e solo lui? Là dove l’eutanasia è già consentita (in Belgio, per esempio, dove il suicidio assistito è ammesso anche per sofferenze psichiche giudicate “intollerabili”) è chiaro come non è mai sufficiente la semplice volontà del malato a garantirgli la “dolce morte”. È invece al medico che spetta (non potrebbe essere altrimenti) la valutazione della qualità e della famosa “dignità” della vita che si chiede di interrompere. Una volta superato il divieto, una volta riconosciuto “per legge” al medico il potere di vita e di morte, una volta eliminato il senso della trasgressione e della proibizione, il pendio scivoloso porterà alla più tetra e oscena banalizzazione.
Difficile trovare argomenti meno validi di questi: il vetusto pregiudizio romantico per cui senza «trasgressione» e «proibizione» tutto si fa «tetro», «osceno» e «banale», e una morte da cani fra le sofferenze, o la galera per chi te le ha evitate, costituiscano chissà quale artistico exploit; la falsa sicumera (che l’autorassicurante «non potrebbe essere altrimenti» in inciso rivela per quel che è) con cui si proclama che al medico spetta «la valutazione della qualità e della famosa “dignità” della vita che si chiede di interrompere». Nella richiesta di sospensione dei trattamenti (la cosiddetta eutanasia passiva) al medico spetta soltanto il giudizio della capacità di intendere o di volere del paziente: come si trova scritto inequivocabilmente anche nella Costituzione della Repubblica, «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario», senza ulteriori qualificazioni. Diverso sarebbe il caso dell’eutanasia attiva o del suicidio assistito (in cui si somministra un farmaco capace di indurre la morte), in cui per ragioni culturali – e anche, mi pare, perché non sarebbe facilissimo giustificare il diritto positivo a ricevere in ogni caso quel trattamento – al medico spetta una funzione di filtro; ma possiamo chiamare questo un «potere di vita e di morte»? Formalmente sì – il medico potrà dire «a te è concesso morire, tu invece devi continuare a vivere» – ma non è questo che si intende comunemente con «potere di vita e di morte», che designa piuttosto l’attribuzione di chi ha il potere di mettermi a morte contro la mia volontà. Qui qualcuno ha invece solo il potere (che peraltro potrò aggirare facilmente: la via è sempre aperta...) di impedirmi di morire secondo la mia volontà; ma senza eutanasia, avrei concesso questo potere all’intera società, rendendolo inappellabile e assoluto. L’arte dello slittamento semantico, signora Tiliacos, abbisogna di interpreti più discreti...

Sul Foglio di oggi ricorre invece all’espressione «diritto di vita e di morte» – anzi, più elegantemente, di jus necis et vitae – Sua Eminenza il cardinale Carlo Caffarra («Eutanasia sui neonati e tirannia dell’utilitarismo», 8 dicembre, p. III), il quale – in un discorso pronunciato il giorno prima, che il giornale riporta – afferma tra l’altro:
La giustificazione dell’eutanasia neonatale … è la previsione di una vita umana biologicamente handicappata gravemente e quindi di grave sofferenza. Poiché ovviamente trattasi di persone umane assolutamente incapaci di elaborare una qualsiasi concezione di vita buona, sulla base della quale dedurre un giudizio di sensatezza/insensatezza della propria vita, un altro elabora questo giudizio sulla base dell’ipotesi che il neonato – se fosse in grado di pensare – consentirebbe. Si decide di interrompere la vita di un altro presumendo che esso in futuro condividerebbe la concezione di vita buona propria di chi pone fine alla vita dell’altro.
Ciò che sostengo è la seguente tesi: legittimare questa giustificazione … significa obiettivamente inferire un vulnus grave ai due pilastri fondamentali del profilo democratico che abbiamo voluto dare alla nostra convivenza civile: l’autonomia e l’uguaglianza. …
Autonomia significa che ciascuno ha diritto di vivere secondo la propria concezione di vita buona. La sensatezza/insensatezza della vita di ciascuno non può essere decisa da un estraneo secondo parametri o standard propri di felicità/infelicità. Autonomia significa in primo luogo indisponibilità [della vita] di ciascuno nei confronti di ciascuno, e quindi impossibilità di imporre un giudizio proprio – secondo criteri di senso/non senso – a un altro in ordine al suo vivere. …
La legittimazione dell’eutanasia neonatale ha il significato obiettivo di conferire ad alcuni un “jus necis et vitae” su altri in base a un loro giudizio morale sul destino naturale di una nascita.
Che la ferita inferta all’autonomia implichi una ferita inferta all’uguaglianza fra le persone umane, non ha bisogno di dimostrazione. Alcune persone hanno il diritto di pronunciare una sentenza di morte in base alla propria concezione di vita sensata o non sensata. Una persona è giudicata meritevole o non di essere conservata in vita in base a criteri stabiliti da altri, sui quali essa non può pronunciarsi.
L’argomento ha un suo fascino (non per nulla ritorna spesso nelle discussioni sull’eutanasia neonatale); ma è un fascino specioso. I tutori legali di un minore non solo possono, ma debbono prendere decisioni nel suo interesse: per esempio, ne amministrano le proprietà o ne decidono le cure mediche; non possono astenersene in omaggio a un’autonomia che il minore non possiede. Allo stesso modo dovrebbero prendere una decisione quando il bambino soffre senza speranze: anche non decidere, infatti, costituisce una decisione, che condanna il bambino a un destino terribile che rifiuterebbero per sé stessi. È vero che si potrebbe sostenere che la decisione spetti comunque al bambino, quando sarà in grado di prenderla (a meno che non si abbia la certezza morale – molto difficile da raggiungere – che opterebbe per l’eutanasia): una posizione forse crudele, ma del tutto legittima. Solo che in molti casi il bambino non sarebbe mai in grado di raggiungere l’autonomia morale: in aggiunta (sottolineo: in aggiunta) alle sofferenze fisiche, la malattia potrebbe essere tale da condurlo a morte prima di quel termine, oppure da incapacitarlo mentalmente per sempre. La stessa risposta vale in sostanza per l’argomento dell’uguaglianza. Lo stesso cardinale, del resto, afferma verso la fine che
Ciò che mi ha teoreticamente colpito in tutta questa vicenda è … che … i “dogmi fondamentali” della modernità – autonomia ed uguaglianza – non sono in grado, non hanno la forza teoretica e persuasiva di rifiutare ciò che ormai, senza più nessun pudore linguistico, viene chiamato neonaticidio.
L’affermazione è un po’ misteriosamente in contraddizione con il resto del discorso, cosa che non mancherà, penso, di «colpire teoreticamente» i lettori...
Ma c’è anche qualcos’altro che colpisce. Come abbiamo visto, il cardinale afferma: «La sensatezza/insensatezza della vita di ciascuno non può essere decisa da un estraneo secondo parametri o standard propri di felicità/infelicità», «Autonomia significa … impossibilità di imporre un giudizio proprio – secondo criteri di senso/non senso – a un altro in ordine al suo vivere», e più avanti ripete: «nessuna ha il diritto di decidere se un altro deve/non deve vivere». Vi suonano familiari queste frasi? Sono, più o meno, quelle che da mesi vengono ripetute costantemente da chi sostiene il diritto di Piero Welby e degli altri nella sua condizione a decidere da sé del proprio destino, a non farsi imporre da estranei un giudizio di sensatezza in ordine al proprio vivere. Non ho dubbi che il cardinal Caffarra saprebbe spiegare in tutt’altro modo queste sue frasi; ma non posso neppure fare a meno di pensare che certe verità le gridano anche, nolenti, le pietre.

lunedì 13 novembre 2006

Lozano Barragan: (eu)tanasia del buon senso

“La compassione invocata dai vescovi anglicani per i bambini prematuri gravemente ammalati nasconde in realtà il rischio di una grave deriva etica, quella che in diversi paesi sta portando a leggi che autorizzano l’eutanasia dei minori”. A sostenerlo è il dicastero vaticano per la pastorale sanitaria per voce del card. Lozano Barragan.
Questo in risposta alle affermazioni fatte, negli ultimi giorni, dalla Chiesa anglicana, che per la prima volta si aperta in merito alla possibilità dell’eutanasia passiva nel caso si tratti di neonati con gravissimi e irrimediabili handicap. E ha spiegato che è possibile che “ci siano situazioni in cui per un cristiano la compassione debba prevalere sul principio secondo cui la vita va preservata a tutti i costi”.
Immediate sono arrivate le opposizioni da parte del Vaticano che, attraverso il porporato messicano, ha spiegato: “Mettere fine alla vita di una persona innocente, anche nel caso di un bambino prematuro gravemente ammalato, equivale – spiega il porporato messicano – a praticare l’eutanasia, e questo resta un’azione illecita, oltre che un atto di crudeltà”.
Secondo il ministro vaticano della Sanità, “tutto questo è molto diverso dall’accanimento terapeutico”. Il card. Barragan, infatti, è d’accordo con la decisione dei sanitari di astenersi da cure inutili, “quando cioè si tratta di un uso di medicinali inutili e sproporzionati che servono a prolungare la dolorosa agonia di una persona che sarebbe ormai vicina alla morte”.
E ancora: “Nessuno è obbligato ad accettare queste terapie. In questo caso possiamo parlare di compassione. Ma se si tratta di ammazzare, bisogna ricordarsi che il quinto comandamento dice non uccidere. La vita è nelle mani di Dio e noi non possiamo disporne”.
“Il problema – spiega il presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale sanitaria – è che in diversi paesi ora si vuole applicare l’eutanasia ai bimbi, oltre che agli anziani. E questa è una mostruosità. L’eutanasia è un’azione o omissione diretta ad estinguere una vita e questo non lo ammettiamo. Di fronte alle aperture dei vescovi anglicani, dunque, non possiamo – conclude Barragan – che ricordare la posizione che è la stessa che la Chiesa ha di fronte al tema dell’eutanasia”.
Eutanasia, Vaticano contro gli anglicani. “Rischio di una grave deriva etica”, la Repubblica, 13 novembre 2006.

È stupidità o malafede? Astenersi da cure inutili va bene – per Barragan e la sua cricca. Ma nel caso di bambini gravemente malati ogni cura è inutile (= prolunga soltanto una agonia), e astenersi dalla cura provoca (seppure attraverso una omissione) la morte del bambino. Dunque?
E poi: mai nessun dubbio che il quinto comandamento possa essere discusso? Tanto come comandamento che come contenuto. Peraltro, i compari cattolici hanno atteggiamenti molto diversi quando il “non uccidere” si pronuncia su un campo di battaglia. L’ipocrisia di questa gente è pari soltanto alla loro presunzione di possedere la Verità.
Peccato che la perplessità e il dubbio emergano soltanto, e per sbaglio, in una espressione rubata da una fotografia.

martedì 7 novembre 2006

Eugenia Roccella su eutanasia pediatrica

Da Mostruoso ma vero «Uccidiamo i bimbi disabili», Eugenia Roccella, Avvenire, 7 novembre 2006.

Già il titolo dell’articolo è un colpo allo stomaco: «Lasciateci uccidere i bambini disabili».
Eugenia Roccella si riferisce all’articolo pubblicato sul Sunday Times di domenica scorsa, Doctors: let us kill disabled babies. Leggendo le prime righe del citato articolo il colpo inferto allo stomaco (delicato) di Roccella dovrebbe perdere un po’ di accelerazione e mutare in contatto indolore (forse non basterebbe, a pensarci bene): to consider permitting the euthanasia of seriously disabled newborn babies.
Insomma, non si parla di eutanasia per i bambini nati con un viso poco simpatico, no; ma di bambini gravemente handicappati, destinati a una sopravvivenza di sofferenza e priva di speranza, seppure sottile e flebile.
Come commenta Joy Delhanty, professore di genetica umana all’University College London: “I would support these views. I think it is morally wrong to strive to keep alive babies that are then going to suffer many months or years of very ill health.” Per questo si parla di mercy killing e riguarderebbe soltanto bambini, lo ripeto, gravemente malati (gravi forme di spina bifida o di epidermolisi bollosa). Conoscere i sintomi e le condizioni di vita determinate da tali gravi patologie potrebbe essere utile al dibattito.
Poi Roccella se la prende con John Harris:
L’argomentazione più agghiacciante a sostegno del la adopera John Harris, docente di bioetica (ma possiamo ancora chiamarla così?) alla Manchester University. Poiché in Inghilterra l’eutanasia non è legale, ma l’aborto negli ultimi mesi di gravidanza sì, il professore si chiede cosa mai accada di straordinario nel momento del passaggio dall’interno all’esterno del grembo materno: il bimbo è sempre quello, perfettamente formato, dunque se lo si può uccidere prima, lo si può fare anche dopo. Su quanto tempo dopo, Harris non si pronuncia. Ma è evidente che con simili criteri la barriera potrebbe essere spostata in modo illimitato.
All’interno di un quadro etico così concepito, la vita non è che un valore incerto, totalmente affidato alle opinioni, e basta estendere il parametro adottato per concludere che un essere umano, in particolare se disabile, possa essere eliminato in qualunque momento. Perché no? Come afferma il professor Harris, perché un momento prima si può e il momento successivo non più?
Il fatto è che la nascita o il luogo (dentro all’utero – fuori dell’utero) non costituiscono passaggi moralmente rilevanti. Sappiamo bene che fino a qualche decennio fa i neonati prematuri morivano a x settimane, e che oggi questo tempo si è spostato. Oppure, che un neonato che nasce con qualche difficoltà ha possibilità diverse di sopravvivenza o guarigione se nasce in un Paese piuttosto che in un altro, o in ospedale piuttosto che in un altro.
Non è l’essere fuori dal grembo a rendere il neonato diverso da qual era un minuto prima del parto. E così su una linea continua devono essere tracciate le differenze in base ad altri criteri. Roccella ironizza sul criterio del risolvere equazioni algebriche (qualche incertezza con la matematica?). Ma potrebbe, invece, provare a rispondere alla domanda: “perché un momento prima si può e il momento successivo non più?”. Senza barare, senza cavarsela dicendo: non si può mai, amen.
Coraggio: stiamo entrando nel terrorizzante universo descritto in un vecchio racconto fantascientifico di Philip Dick, Le pre-persone, in cui l’autore immaginava una società in cui i bambini erano considerati pienamente persone solo quando in grado di risolvere un’equazione algebrica. Solo allora entravano nel cerchio privilegiato di coloro la cui esistenza ha valore sociale.

lunedì 6 novembre 2006

Eutanasia pediatrica

Obstetricians call for debate on ethics of euthanasia for very sick babies, Sarah Boseley, The Guardian, november 6, 2006.

Doctors involved in childbirth are calling for an open discussion about the ethics of euthanasia for the sickest of newborn babies. The option to end the suffering of a severely damaged newborn baby – who might have been aborted if the parents had known earlier the extent of its disabilities and potential suffering – should be discussed, says the Royal College of Obstetricians and Gynaecologists in its evidence to an inquiry by the Nuffield Council on Bioethics, which examines ethical issues raised by new developments.
The college says the Nuffield’s working group should “think more radically about non-resuscitation, withdrawal of treatment decisions, the best-interests test and active euthanasia as they are means of widening the management options available to the sickest of newborns”.
The inquiry is looking into “the ethics of prolonging life in foetuses and the newborn”. Euthanasia was not originally on the agenda, because of its illegality. But the RCOG submission has persuaded the inquiry to broaden its investigation, although any recommendation favouring euthanasia for newborns is highly unlikely before a change in the law.

The college ethics committee tells the inquiry it feels euthanasia “has to be covered and debated for completion and consistency’s sake … if life-shortening and deliberate interventions to kill infants were available, they might have an impact on obstetric decision making, even preventing some late abortions, as some parents would be more confident about continuing a pregnancy and taking a risk on outcome.” It points out that a pregnant woman who discovers at 28 weeks that her baby has a serious abnormality can have an abortion. Parents of a baby born at 24 weeks with the same abnormality have no such option.

There are enormous social, emotional and financial costs involved in caring for a profoundly disabled baby, the submission adds. If a mother really understood the “real, life-long costs” of caring for such a child and understood the slim chance of being fully recompensed by the state, “perhaps she might feel differently about aggressive resuscitation and treatment of her premature baby. Perhaps her doctors might as well,” says the submission.

Euthanasia for very severely disabled newborn babies suffering from specified conditions is permitted in the Netherlands. Some suspect that “mercy killing” probably occurs in the UK. But medical advances which have enabled very premature babies to be kept alive at only 24 weeks gestation – little more than half the expected time in the womb – have led to a presumption that every technological intervention will be used to keep the baby going at all costs. In the case of Charlotte Wyatt, the parents vigorously opposed the doctors’ wish to be allowed not to revive her through the courts. The child, now three, survived, although severely disabled and now in care.

The UK Disabled People’s Council yesterday rejected discussion of euthanasia for newborn babies. “It is not for medical professionals or indeed anyone else like families to determine whether someone else’s quality of life will be good simply on the grounds of impairment or health condition,” said its parliamentary worker, Simone Aspis.

FAQ Disability risks

What is the Nuffield Council on Bioethics investigating?

It is considering the implications of advances which enable babies to be born little more than halfway through pregnancy and kept alive.

Why is this a problem?

Very premature babies run a higher risk of brain damage and disability. Most die – 98% – at 22 weeks, though by 26 weeks 80% survive.

Is euthanasia allowed elsewhere?

Babies born before 25 weeks are not given medical treatment in the Netherlands and euthanasia is permitted in certain conditions.

lunedì 27 marzo 2006

Il Protocollo di Groningen e la bêtise

Dopo la performance ad Otto e Mezzo del 22 marzo, i giornalisti e i collaboratori del Foglio sono tornati l’altro ieri a parlare del Protocollo di Groningen e dell’eutanasia pediatrica in Olanda dalle colonne della casa madre.
Cominciamo da un editoriale non firmato a p. 3, «Non è eutanasia, è eutanazia», che attribuirei a Giulio Meotti: i lettori lo ricorderanno con la sua faccia da pretino superbo mentre snocciolava cifre a Otto e Mezzo, sotto lo sguardo paternamente orgoglioso del suo direttore. Ritorna qui la cifra di 600 bambini la cui morte nel primo anno di vita «è preceduta da decisioni dei medici sull’interruzione della vita»: così a sentire l’articolista confesserebbe l’articolo di Eduard Verhagen e Pieter J.J. Sauer sul New England Journal of MedicineThe Groningen Protocol — Euthanasia in Severely Ill Newborns», NEJM 352, 2005, pp. 959-62). La cifra è girata ossessivamente anche in Tv, sbattuta in faccia ad europarlamentari olandesi e a segretari di partito italiani come dato oggettivo e testimonianza irrefutabile dell’olocausto infantile in corso nei Paesi Bassi: 600 bambini sono molti, e questo vorrebbe dire che l’eutanasia olandese non si applica solo ai casi più disperati. Già nel Foglio del 9 marzo, in un articolo sempre non firmato (ma attribuito durante la trasmissione al Pretino Superbo), si proclamava («L’Olanda ora vuole anche il primato dell’eutanasia infantile», p. 3):

Nell’articolo Verhagen spiega che «dei 200 mila bambini nati ogni anno in Olanda, circa mille muoiono nel primo anno di vita. Per 600 di loro, la morte è preceduta da una decisione medica sulla fine della vita». Tradotto: il 60 per cento della mortalità infantile in Olanda ha un’origine intenzionale. Ritradotto: è in corso un olocausto medico sul quale l’Unione europea fa finta di niente.
A proposito di traduzioni, cominciamo col notare che in questo primo articolo si usava un più neutro «fine della vita», mentre ieri si era già passati a parlare di «interruzione della vita». Noi di Bioetica siamo andati a leggerci l’articolo dei due medici olandesi (ringrazio Fabrizio F. per la collaborazione): ci sono questi 600 bambini eutanasizzati all’anno? Ovviamente, no. Ecco cosa dice l’originale inglese:
Of the 200,000 children born in the Netherlands every year, about 1000 die during the first year of life. For approximately 600 of these infants, death is preceded by a medical decision regarding the end of life. Discussions about the initiation and continuation of treatment in newborns with serious medical conditions are one of the most difficult aspects of pediatric practice. Although technological developments have provided tools for dealing with many consequences of congenital anomalies and premature birth, decisions regarding when to start and when to withhold treatment in individual cases remain very difficult to make. Even more difficult are the decisions regarding newborns who have serious disorders or deformities associated with suffering that cannot be alleviated and for whom there is no hope of improvement.
La parola chiave qui è «preceded»: la morte di questi 600 è preceduta, non (necessariamente) causata da una decisione medica sulla fine (eh sì, è «fine», non «interruzione») della vita. Tradotto: nella cifra di 600 sono compresi anche i casi in cui si decide di sospendere o non intraprendere un trattamento medico ritenuto ormai inutile, in vista della fine imminente. Ritradotto: sono compresi cioè anche i casi in cui si decide di non praticare l’accanimento terapeutico, secondo quelli che sono i dettami anche della Chiesa (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278); è quello che si fa correntemente anche in Italia, per esempio con i prematuri minori di 21 settimane. La frase di Verhagen e Sauer è ambigua? Lo possiamo concedere; ma quel che segue lo è molto di meno: «Discussions about the initiation and continuation of treatment», «decisions regarding when to start and when to withhold treatment». Ancora non soddisfatti? Andiamo un po’ più avanti:
Infants and newborns for whom such end-of-life decisions might be made can be divided into three categories. First, there are infants with no chance of survival. This group consists of infants who will die soon after birth, despite optimal care with the most current methods available locally. These infants have severe underlying disease, such as lung and kidney hypoplasia. … Deciding not to initiate or to withdraw life-prolonging treatment in newborns with no chance of survival is considered good practice for physicians in Europe and is acceptable for physicians in the United States. Most such infants die immediately after treatment has been discontinued.
Chiaro, no? Ma allora che cosa hanno letto il Pretino Superbo e gli altri della sua parrocchia?
Quanti sono, dunque, su quei 600 i casi di vera e propria eutanasia, cioè di attiva terminazione della vita di un infante? Diamo di nuovo la parola ai due dottori olandesi:
there are infants with a hopeless prognosis who experience what parents and medical experts deem to be unbearable suffering. Although it is difficult to define in the abstract, this group includes patients who are not dependent on intensive medical treatment but for whom a very poor quality of life, associated with sustained suffering, is predicted. … A national survey of neonatologists in the Netherlands has shown that each year there are 15 to 20 cases of euthanasia in newborn infants who would be categorized in the third group.
Tra i 15 e i 20 casi, dunque. Non 600. Esiste però una categoria intermedia, che rimane non quantificata:
Infants in the second group have a very poor prognosis and are dependent on intensive care. These patients may survive after a period of intensive treatment, but expectations regarding their future condition are very grim. They are infants with severe brain abnormalities or extensive organ damage caused by extreme hypoxemia. When these infants can survive beyond the period of intensive care, they have an extremely poor prognosis and a poor quality of life. … Neonatologists in the Netherlands and the majority of neonatologists in Europe are convinced that intensive care treatment is not a goal in itself. Its aim is not only survival of the infant, but also an acceptable quality of life. Forgoing or not initiating life-sustaining treatment in children in the second group is acceptable to these neonatologists if both the medical team and the parents are convinced that treatment is not in the best interest of the child because the outlook is extremely poor.
Si tratta in altre parole di bambini con una prospettiva di sofferenza non mitigabile, alla cui esistenza non viene posta fine in maniera attiva, ma piuttosto sospendendo o non iniziando cure intensive, e lasciando fare alla natura il suo corso; anche se – a differenza del primo gruppo – la morte non sarebbe una prospettiva ineludibile. Il nome di questa pratica varia, a riprova del suo carattere di caso di confine: rifiuto dell’accanimento terapeutico, eutanasia passiva, etc. Non si tratta affatto di un’esclusiva olandese, come dimostrano le parole dell’articolo (cfr. anche Marina Cuttini et al., «The European Union Collaborative Project on Ethical Decision Making in Neonatal Intensive Care (EURONIC): findings from 11 countries», Journal of Clinical Ethics 12, 2001, 290-96).
Tanto per far capire fino in fondo lo scrupolo documentario dell’autore dell’editoriale, esaminiamo quest’altra sua affermazione:
Se passasse il Protocollo, citando Verhagen, la medicina non dovrebbe più solo tenere in vita il bambino, «ma anche assicurare una qualità di vita accettabile». Per 22 nuovi nati con spina bifida questa frase ogni anno si traduce in morfina inoculata nelle vene.
A parte la citazione vagamente tendenziosa (già sentita a Otto e Mezzo dalla bocca del Pretino Superbo; nell’originale sono le cure intensive, non la medicina, a dover assicurare una qualità della vita accettabile), la cifra di 22 nuovi nati all’anno con spina bifida eutanasizzati contraddirebbe quella fornita nello stesso articolo di 15-20 casi totali di eutanasia infantile. E infatti:
Twenty-two cases of euthanasia in newborns have been reported to district attorneys’ offices in the Netherlands during the past seven years. … They all involved infants with very severe forms of spina bifida [corsivo mio].
Eppure l’inglese non è una lingua così difficile...

Nello stesso numero del Foglio, a p. 4, troviamo una lettera di Loris Brunetta, segretario dell’Associazione Ligure Thalassemici, che comincia così:
Solidarietà a Carlo Giovanardi per quanto ha avuto coraggio di affermare riguardo alla crudezza e brutalità della legge olandese sull’eutanasia. Spesso nelle valutazioni che si fanno riguardo a questo delicatissimo argomento si tiene poco conto delle sensibilità che vanno a toccare, soprattutto quella delle persone malate, che rientrerebbero in molti di quei parametri che sono indicativi per il giudizio di «essere non meritevole di continuare a vivere». Certe cose fanno veramente rabbrividire.
«Essere non meritevole di continuare a vivere» è virgolettato, ma ovviamente non c’è traccia di questa espressione nell’articolo di Verhagen e Sauer né in qualsiasi altro documento legato alla questione; essa appartiene – sia detto con tutto il rispetto – ai fantasmi personali di Brunetta. Ma com’è possibile un simile travisamento della realtà?
Il fatto è che i sostenitori dell’eutanasia infantile usano talvolta parlare di «vita non degna di essere vissuta»; e questa espressione viene spesso tradotta – soprattutto dal pubblico prevenuto – in un’altra simile, ma niente affatto equivalente: «persona non degna di vivere». Una persona non degna di vivere è qualcuno non conforme a un canone morale e/o estetico, presunto oggettivo: una persona che con la sua stessa esistenza macchierebbe un’astratta ‘perfezione’. Una vita non degna di essere vissuta, al contrario, è una vita soggettivamente intollerabile, in cui la quantità di sofferenza di chi la vive soverchia e anzi rende impossibile ogni residua esperienza positiva, tanto da far ritenere preferibile la non esistenza all’esistenza.

Ritroviamo un equivoco molto simile sotto la lettera di Brunetta, in un articolo scritto da Christian Rocca, un blogger che collabora col Foglio («Da radicale dico: la linea radicale sull’eutanasia olandese è cialtrona»). Dopo un’interminabile introduzione, in cui Rocca enumera le proprie credenziali di progressista, liberale, radicale e laico (che curiosamente non gli impediscono di manifestare una certa propensione a votare Forza Italia alle prossime elezioni), e nella quale si trova comunque una battuta degna di essere riportata («Considero Antonio Socci il più brillante intellettuale italiano del XIII secolo»), eccoci finalmente al punto:
La questione, al di là di come la si pensi sull’eutanasia e al netto delle stupidaggini di Giovanardi, è questa: è vero, come dicono i radicali, che in Olanda sperimentano e discutono una legge sull’eutanasia come forma compassionevole per non far soffrire i neonati sofferenti destinati comunque a morire? … Ma, al contrario, se fosse vero ciò che dicono Meotti, Giovanardi e Ferrara, la questione sarebbe ben diversa e negarlo un trucchetto da treccartari. Cosa dicono Meotti, Giovanardi e Ferrara? Dicono che il caso olandese non riguarda soltanto i neonati sofferenti destinati a morte certa, ma anche handicappati gravi. Fosse vero ciò che dicono si tratterebbe di legalizzazione di pratiche di soppressione della razza impura. I radicali negano. Allora sono andato a leggere il protocollo di Groningen, sulla base del quale in Olanda si sperimenta l’eutanasia nei confronti dei neonati. Bene. Parla di bimbi che non hanno chance di sopravvivenza, come dicono i radicali, ma anche di neonati con gravi lesioni cerebrali o danni agli organi vitali che però «possono sopravvivere», malgrado le «aspettative circa le condizioni future» non siano invitanti. C’è anche un terzo caso, «più astratto» e «più difficile da definire», di neonati incurabili la cui esistenza non dipenderà da trattamenti intensivi, ma che a giudizio di genitori e medici avranno «una pessima qualità della vita». Mi dispiace, ma questa volta i propagandisti sono i miei amici radicali.
La lettura compiuta da Rocca è stata, evidentemente, molto selettiva: come abbiamo già visto l’articolo originale aggiunge una specificazione importante: «this group includes patients who are not dependent on intensive medical treatment but for whom a very poor quality of life, associated with sustained suffering, is predicted». E ancora, a p. 959: «must infants with disorders associated with severe and sustained suffering be kept alive when their suffering cannot be adequately reduced?». E ancora, nella tabella n. 2: «Requirements that must be fulfilled: Hopeless and unbearable suffering must be present» (i corsivi sono tutti miei). La parola «suffering» ricorre 20 volte nel testo; e anche là dove si parla solo di «pessima qualità della vita», il riferimento è sempre palesemente alla presenza di sofferenze insopportabili, come è reso esplicito dalla tabella n. 1, in cui compare la dicitura «Extremely poor quality of life (suffering)». Cosa abbia a che fare questa considerazione pietosa per le sofferenze intollerabili di pochi bambini (tra i quali non si trovano né down, né sordomuti, né ciechi, checché ne farnetichi Giovanardi) con le «pratiche di soppressione della razza impura», è un mistero che neppure lo stesso Christian Rocca saprebbe risolvere.
Fortunatamente, a risollevare l’onore della blogosfera ci pensa Federico Punzi, che in un post ben meditato («Risveglio dagli incubi su Groningen. Gli olandesi non sono nazisti», stamattina su JimMomo) fa un po’ di necessaria chiarezza sulla questione.

Rimane infine un quesito a cui rispondere: ci fanno, o ci sono? Abbiamo di fronte una banda di treccartari – il Pretino Superbo, il blogger ‘liberale’, il loro oh-così-intelligente direttore – che sta mentendo spudoratamente per ragioni di cinica propaganda elettorale, contando sul fatto che l’articolo originale è difficilmente reperibile? Oppure si tratta solo di poveracci, letteralmente incapaci di leggere due parole di fila, che riescono a trovare in un testo solo quello che si aspettano già di trovarci? La verità, forse, sta nel classico mezzo: questa è gente che – paradossalmente – si serve della propria incapacità, del proprio gusto per l’approssimazione come arma; è gente che sa bene che a una lettura appena meno affrettata le cose apparirebbero differentemente, ma che decide consapevolmente di non farla, di accontentarsi della prima, superficialissima impressione, quella che conferma i loro pregiudizi. E tanto peggio per chi tenta di trovare soluzioni il più possibile umane a problemi tragici: è un criminale, a cui non si deve neppure il favore elementare di leggerlo con un po’ di attenzione.

martedì 7 marzo 2006

A proposito di eutanasia pediatrica

Chiudi gli occhi e smetti di provare dolore
di Chiara Lalli
(da Il Giornale di Sardegna, 7 marzo 2006)

Nelle prossime settimane in Olanda una commissione sarà incaricata di regolare l’eutanasia pediatrica. L’Olanda sarà il primo paese al mondo a permettere di porre fine alla sofferenza di bambini affetti da terribili malattie.
La piccola Chanou nasce nel 2000 con una grave anomalia metabolica; piange continuamente, soffre e prova intenso dolore non appena la si sfiora. Nutrita artificialmente, ha una prospettiva di vita (dolorosa) inferiore ai tre anni. I genitori implorano i medici di farla smettere di soffrire. Quando Chanou ha sette mesi le è sospesa l’alimentazione e somministrata della morfina. Secondo i genitori la bimba ha sofferto anche troppo, più di quanto avrebbe dovuto. I medici aiutano a morire i bambini tanto gravemente ammalati, con il consenso dei genitori, ma con il timore di essere perseguiti per omicidio. In un futuro prossimo non accadrà più. Ci sarà la possibilità di farlo alla luce del sole. Seguendo le linee guida di Eduard Verhagen, direttore di una Clinica Pediatrica a Groningen, che ha indotto il governo olandese ad affrontare una questione tanto delicata e discussa.
Le argomentazioni di Verhagen a favore dell’eutanasia infantile sono convincenti e ragionevoli: se un bambino è condannato a morire senza possibilità di guarigione, non sarebbe giusto evitargli tutta quella sofferenza che intercorre tra ‘adesso’ e l’inevitabile morte (spesso imminente)? E ancora, se si ammette, in simili circostanze, di lasciare morire il bimbo sospendendo i trattamenti e l’alimentazione, perché non si dovrebbe ammettere la somministrazione di una sostanza letale? L’ammissibilità dell’eutanasia passiva è abbastanza condivisa di fronte ad una grave malattia incurabile; ma quando dal lasciar morire si passa al provocare la morte direttamente, l’accettazione muta in condanna. Basta immaginare uno scenario diverso per capire che dal punto di vista morale, in verità, non esiste una simile differenza. Come domanda Verhagen: c’è forse una differenza tra il guardare un uomo annegare senza alzare un dito e spingerlo in acqua? La risposta giusta è: no.
È terribile per un medico rinunciare a guarire, ma accanirsi a prolungare una sofferenza che nemmeno potenti antidolorifici alleviano è altrettanto terribile. L’Olanda ha il coraggio di non essere ipocrita. Fondamentale ricordare che permettere l’eutanasia (sia nel caso dei bambini che degli adulti) in nessun caso implicherebbe una imposizione, ma costituirebbe soltanto una possibilità, in circostanze tragiche e in caso di accordo dei genitori e di diversi medici. I criteri sono piuttosto severi, dunque.
I genitori di Chanou sono riconoscenti a Verhagen e sono assolutamente convinti che la scelta, drammatica e amara, di darle la morte sia quella giusta, come unica ed estrema possibilità di interrompere un dolore irrimediabile e insensato.