Massimo Adinolfi interviene dalle colonne di Left Wing («Pinker, Ratzinger e la dignità del relativo», 19 maggio 2008) sull’articolo di Steven Pinker, «The Stupidity of Dignity», di cui anch’io mi ero occupato qualche giorno fa. Adinolfi concorda con Pinker nel respingere le pretese – del resto indifendibili – che Leon Kass e gli altri membri del President’s Council on Bioethics avanzano in nome della difesa della dignità umana, ma dedica poi il suo articolo a criticare uno dei punti fondamentali del discorso di Pinker: che anche i casi in cui il concetto di «dignità» appare giocare un ruolo positivo nella difesa di valori che percepiamo come irrinunciabili, sono assai meglio giustificabili nei termini liberali classici del rispetto dell’autonomia personale. Nota a questo proposito Adinolfi:
Proprio per questo, però, qualche dubbio rimane. Anzitutto nel modo in cui vanno trattate le persone che si ritiene non siano in condizione di esercitare in autonomia le scelte circa il trattamento da riservare loro. Per esempio i bambini o certi tipi di malati. È difficile, affidandosi al solo principio di autonomia, rispettare sempre, in costoro, la loro dignità.
Qui, naturalmente, Adinolfi ha ragione: il principio di autonomia è malamente applicabile a minori e ad altre persone incapaci. Ma dobbiamo per questo sostituirlo con la considerazione della «dignità umana»? In realtà,
tertium datur: il principio giuridico che sembra prevalere nel trattamento degli incapaci è quello del rispetto del loro interesse; e questo principio, oltretutto, parla ancora il linguaggio delle preferenze individuali, che non è molto distante da quello dell’autonomia. Così, il buon genitore elimina ogni causa di fastidio per il neonato, perché questi – anche se non è in grado di comunicarlo né di fare alcunché a riguardo –
preferisce l’assenza di dolore al dolore; e non impone al figlio un nome ridicolo, perché sa che una volta divenuto adulto il ragazzo quasi certamente
preferirà averne ricevuto uno normale. Ci sono, è vero, i casi in cui di preferenze non si può parlare, e in cui solo la dignità sembra rimanere in gioco; ma mi pare che qui la violazione della dignità valga sempre e solo in quanto
segno di qualcos’altro. Quando sorprendiamo l’infermiere della casa di cura a insultare il disabile, che pure non lo può capire e non soffre per quello che sente, e anzi neppure può formarsi il concetto di ciò che è un insulto, sappiamo con virtuale certezza che l’incuria e maltrattamenti assai più concreti, o persino omicidi, stanno per verificarsi; e per questo – giustamente – lo cacciamo, non per l’offesa a un principio astratto e maldefinito.
Mi pare quindi che possiamo anche qui evitare di affidarci totalmente al concetto di dignità, con tutte le sue incongruenze e i suoi pericoli. È interessante che anche dal fronte opposto (quello degli estimatori di Kass, per intenderci) si accendano talvolta polemiche contro l’uso del concetto, come nella denuncia tante volte ripetuta di chi reputa le vite di persone affette da patologie gravissime «indegne di essere vissute». Denuncia che certo travisa malignamente le intenzioni (indegne per chi?) e rimane diabolicamente indifferente alle torture di quei malati; ma che segna forse un punto nel cogliere un uso linguistico non del tutto coerente con la difesa pura e semplice dell’interesse del malato.
Quando poi l’incapacità della persona è acquisita (per esempio negli anziani e nei moribondi), ecco che il principio di autonomia si applica di nuovo in pieno: le mie preferenze, la mia volontà si estendono a chiedere rispetto al di là del campo della mia coscienza e della mia stessa vita. Posso imporre così che la mia dignità sia rispettata rifiutando cure invasive che violano la mia integrità corporea, ma posso anche acconsentire, per esempio, a che il mio corpo finisca in un teatro anatomico, esposto per una mattinata alla curiosità, all’indifferenza o alla nausea delle matricole.
Prosegue Adinolfi:
C’è poi almeno un altro caso difficile, quello delle persone la cui autonomia è stata ridotta in forza della legge: un carcerato ha certo diritto a un trattamento umano, rispettoso della sua dignità, ma non può esercitare autonomamente la scelta del trattamento: non, almeno, alla pari di un uomo libero. E ad esempio la tortura non sembra ledere l’autonomia dell’ergastolano tanto quanto lede la sua dignità.
Qui, se comprendo bene, l’argomento di Adinolfi è il seguente: siccome l’autonomia di un carcerato è già dimidiata, il rispetto dei suoi diritti può fondarsi allora soltanto su una capacità che nessuno può assottigliare: la sua dignità, appunto. A questo si può rispondere, però, che la considerazione per l’autonomia altrui non è mai questione di «tutto o niente»: un sistema penale coerente può essere costruito attorno all’idea che la diminuzione della libertà del reo dev’essere la minima possibile, compatibilmente col rispetto dei diritti degli altri individui; e la tortura è inutile a promuovere la difesa della libertà altrui – anzi decisamente controproducente – o se si preferisce, viene a infrangere un dominio di autonomia talmente intimo da risultare in ogni circostanza irrinunciabile. Viceversa, esistono sicuramente alcune concezioni della dignità umana che rimarrebbero offese proprio dalla visione di un essere umano in gabbia; addirittura, per la nostra cultura può forse risultare più dignitosa una punizione corporale o comunque dolorosa – l’espiazione attraverso la sofferenza è un tema ancor oggi potente, anche se messo in sordina dal perdonismo tipico di una società per varie ragioni avversa alla responsabilità personale – di una lunga, noiosa detenzione in un carcere modello.
Forse non c’è bisogno neppure di pensare a casi così estremi. Nel nostro attuale ordinamento giuridico, la legge può dichiarare nulli ab initio contratti privati che siano lesivi dei diritti fondamentali dei contraenti, anche qualora siano stati stipulati in piena autonomia […] chi ad esempio anteponesse l’autonomia individuale a ogni altro valore, troverebbe ingiustificata la limitazione del diritto soggettivo di ciascuno di darsi in schiavitù.
Ma dandosi in schiavitù l’individuo negherebbe paradossalmente la propria autonomia: da quel contratto non potrebbe mai recedere, neanche cambiando idea. Il valore in gioco è di nuovo esattamente la libertà, non una dignità in nome della quale fin troppi vorrebbero negare il diritto di stipulare contratti fra adulti consenzienti.
Di nuovo Adinolfi:
Pinker in realtà prevede il caso della volontaria rinuncia alla propria dignità, ma si preoccupa solamente delle “esternalità negative” di simili comportamenti: fare violenza al proprio corpo potrebbe per esempio indurre per imitazione comportamenti analoghi. Ora, posto pure che ci si debba preoccupare soltanto delle conseguenze, Pinker si limita a concedere leggi restrittive solo se fossero empiricamente dimostrati effetti nocivi, ma è chiaro che il suo punto di vista non giustifica una simile concessione. Cosa infatti c’è di male se altri, a causa del cattivo esempio, tengono comportamenti autolesionisti, dal momento che a loro volta agiscono in piena autonomia?
Qui Adinolfi ha male interpretato Pinker: le esternalità negative di cui parla lo studioso americano sono quelle a danno di terzi. Non si tratta di qualcuno che imita un comportamento autolesionista, ma di chi da un comportamento autolesionista trae ispirazione e incitamento a ledere:
Could there be cases in which a voluntary relinquishing of dignity leads to callousness in onlookers and harm to third parties – what economists call negative externalities? In theory, yes. Perhaps if people allowed their corpses to be publicly desecrated, it would encourage violence against the bodies of the living. Perhaps the sport of dwarf-tossing encourages people to mistreat all dwarves. Perhaps violent pornography encourages violence against women.
In conclusione, spero di non aver dato l’impressione di essere dominato da un divorante
esprit de système. Qui non è questione di coerenza teoretica, di «idee platoniche che si compiacciono di mostrarsi incompatibili»: accolgo volentieri l’ammonimento implicito contenuto alla fine di un
post che Malvino ha dedicato alla questione. E sono in fondo d’accordo con quanto dice lo stesso Adinolfi, alla fine del suo articolo: «è stupido credere che dimostrare la relatività di un concetto o di un principio equivalga a dimostrare la sua arbitrarietà». La dignità «è moralmente significativa» (e stavolta le parole sono di Pinker!): non è arbitraria, ha radici profonde nel modo in cui percepiamo il mondo, i nostri simili, noi stessi. L’appello al rispetto della dignità può, per questo, avere un ruolo prezioso nel discorso persuasivo, che spesso ha successo là dove il freddo appello ai diritti astratti non riesce a motivarci. E può senz’altro permanere nei margini dei nostri sistemi giuridici, là dove mancano richieste di nuove libertà, e dove imporre una completa coerenza risulterebbe quindi per il momento troppo costoso, rischiando di alienare le simpatie per gli stessi principi a cui teniamo. Ma nelle questioni fondamentali no: proprio perché
relativo, il senso della dignità si trasforma inevitabilmente in prevaricazione, nell’imposizione violenta di una visione personale del mondo – dal divieto di mangiarsi un cono gelato in santa pace, su su fino alla negazione di ogni speranza di cura a malati gravissimi. Sono certo che Massimo Adinolfi è sensibile quanto me a questa minaccia.