Come ha dimostrato ieri Chiara Lalli, il disegno di legge da poco presentato in Commissione Sanità dal senatore Raffaele Calabrò fa obiettivamente strame del testamento biologico (o direttive anticipate di trattamento, DAT, che dir si voglia); ma un ulteriore pericolo sembra profilarsi dall’articolato – un pericolo che va oltre il tema del testamento biologico e che rischia di segnare una regressione inaudita e drammatica nel rapporto medico-paziente.
Uno dei cardini della sanità moderna è il consenso informato: nessun trattamento sanitario è consentito se non è preceduto dal consenso del paziente. L’art. 32 della Costituzione, la Convenzione di Oviedo, la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, il Codice di deontologia medica, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, concordano tutti nel riconoscere questo fondamentale diritto. Attenzione: il rifiuto dei trattamenti sanitari non è limitato ai casi di cosiddetto «accanimento terapeutico» (concetto che d’altronde viene definito in modi spesso molto differenti), ma è valido sempre: io posso rifiutare, senza rendere conto a nessuno, anche la più banale operazione salvavita. In questo senso il consenso informato non è nient’altro che un’applicazione del fondamentale principio liberale della sovranità dell’individuo sul proprio corpo. Non sono mancate e non mancano, è vero, incertezze in alcuni casi limite; ma l’orientamento pressoché unanime della giurisprudenza italiana – nell’assenza di una normativa specifica – è di riconoscere il consenso informato nella forma più ampia (tutti ricordano il caso della donna che aveva potuto rifiutare l’amputazione di un piede). Ed in questa forma esso è oggi accettato quasi da tutti, anche perché negarlo equivarrebbe, letteralmente, a mettere le mani addosso al paziente, a costringerlo con un atto violento; cosa che ripugna ormai alla coscienza dei più. Ma non ancora alla coscienza di tutti...
Già dal titolo («Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento») il ddl Calabrò sembra porsi l’obiettivo di regolare anche la materia più generale del consenso informato, di cui le dichiarazioni anticipate di trattamento costituiscono in fondo solo un’applicazione particolare.
Lo fa, in maniera apparentemente anodina, all’art. 4, il cui primo comma recita: «Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso esplicito ed attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole». Un recepimento pieno, sembrerebbe, del principio del consenso informato. Ma prima dell’art. 4 viene l’art. 2 («Divieto di eutanasia e di suicidio assistito»), che – si badi bene – riguarda non soltanto la disciplina del testamento biologico ma tutta la materia trattata nel ddl, e a cui può ben riferirsi la condizione posta all’inizio dell’art. 4, «Salvo i casi previsti dalla legge». Leggiamolo con attenzione (i corsivi sono miei):
Ogni forma di eutanasia, anche attraverso condotte omissive, e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio sono vietate ai sensi degli articoli 575, 579, 580 del codice penale.Ebbene, se prendiamo alla lettera queste parole, il consenso informato, e con esso la libertà di ogni persona di rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico, riceve un colpo devastante. La dialisi, per fare un esempio, è certamente un trattamento ordinario e proporzionato alla salvaguardia della vita; se i medici fossero obbligati a non consentire la morte del paziente, cosa potrebbe accadere? La caccia ai dializzati che non ce la fanno più e che hanno pertanto sospeso il trattamento? Si tratta di un’evenienza inconcepibile in uno Stato liberale, ma questo è quanto risulta dal testo.
L’attività medica, in quanto esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute, nonché all’alleviamento della sofferenza non può in nessun caso essere orientata al prodursi o consentirsi della morte del paziente, attraverso la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente.
La proibizione dell’accanimento terapeutico contenuta nell’art. 3 non risolve il problema, visto che non fa altro che ribadire che
Soprattutto in condizioni di morte prevista come imminente, il medico deve astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura e/o di sostegno vitale del medesimo.Questo implica, alla luce dell’art. 2, che trattamenti sanitari ordinari, proporzionati, efficaci e tecnicamente adeguati sarebbero invece obbligatori per il paziente.
Il divieto di accanimento terapeutico non può legittimare attività che direttamente o indirettamente, per loro natura o nelle intenzioni di chi li richiede o li pone in essere, configurino pratiche di carattere eutanasico o di abbandono terapeutico.
Uno strettissimo spiraglio potrebbe essere aperto dall’art. 5, c. 4:
Nella DAT può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato, futili, sperimentali, altamente invasive e invalidanti.Si parla di DAT, ma il discorso dovrebbe valere a maggior ragione anche per il consenso di persona capace; ci si potrebbe attaccare allora a quell’«altamente invasive» (sempreché non si tratti di condizione da soddisfare unitamente al carattere invalidante del trattamento stesso), sotto cui far rientrare almeno in parte trattamenti percepiti come lesivi della dignità della persona. Ma si tratta quasi certamente di un’illusione, dovuta solo all’imperizia di chi ha scritto il ddl, e comunque soggetta all’incertezza delle interpretazioni contrastanti.
Difficile pronosticare cosa potrebbe accadere nell’eventualità che questo obbrobrio divenisse legge dello Stato. Il giudizio di incostituzionalità della Consulta, già probabilissimo per qualsiasi legge che come questa renda inefficace l’istituto del testamento biologico, diventerebbe a quel punto scontato; ma nelle more del rigetto cosa accadrebbe? La legge sarebbe di fatto inapplicabile, è vero (si immagini solo cosa significherebbe promuovere l’intervento della forza pubblica contro malati inermi); assisteremmo presto, come già è avvenuto per la legge 40, all’emissione di un regolamento amministrativo volto a negare la lettera criminale della legge. Ma almeno nei casi estremi l’incertezza permarrebbe, con il prevedibile strazio dei pazienti e l’incertezza dei medici; e con una ferita gravissima al diritto e allo Stato liberale.