È uno dei migliori articoli finora apparsi sulla pillola abortiva quello che la ginecologa Mirella Parachini ha scritto per il quotidiano Terra («Pillola abortiva, stop alla disinformazione», 1 settembre 2009, p. 11):
Nel dibattito sulla RU486 che si sta svolgendo nel nostro Paese, mi ha colpito come la maggior parte degli interventi provengano da molteplici campi, rimanendo per lo più in secondo piano l’opinione degli “addetti ai lavori”. I giudizi emessi senza alcuna esperienza clinica confondono la discussione e creano infondate partigianerie che non si ritrovano quando il tema venga affrontato con criteri di buona pratica clinica.
Un esempio è l’articolo di Eugenia Roccella, sottosegretario al ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, sul Sole 24 Ore del 9 agosto, in cui ricorda una intervista alla dott.ssa Elisabeth Aubeny, la ginecologa francese che per prima ha applicato il metodo farmacologico (e non creato, come viene detto) nella quale verrebbe «ammesso con serenità» la maggior sofferenza provocata dall’aborto farmacologico rispetto a quello chirurgico. Perché mai si deve parlare di “ammissione” quando si tratta di una banalissima informazione deducibile da qualunque tabella comparativa riportata in letteratura? Non è che l’aborto chirurgico non provochi dolore, tant’è vero che viene praticato in anestesia, locale o generale. È solo che si svolge in poco tempo, mentre le contrazioni nell’aborto medico durano più a lungo. Dato altrettanto deducibile dalle suddette tabelle. Ma anche in questo caso è prevista l’assunzione di antidolorifici. Nelle stesse tabelle tuttavia si leggeranno tutti gli altri vantaggi e svantaggi di ciascun metodo, come è normale nello studio di diverse tecniche, senza che questo debba comportare una opzione contrapposta tra due campi avversari. La maggior parte dei medici che si occupano di Ivg e dispongono di entrambe le metodiche applicano dei criteri di valutazione caso per caso, informano la paziente delle varie possibilità e le chiedono di scegliere. Questo avviene tutti i giorni, in tutti gli ospedali, per qualunque atto medico. Perché non deve avvenire in questo caso? La disinformazione passa innanzitutto dalla distorsione del linguaggio. Nell’articolo della Roccella l’aborto farmacologico viene chiamato “aborto chimico”, con un evidente intento spregiativo: forse che l’effetto di un qualunque altro farmaco non è altrettanto “chimico”? Anche nel caso dell’ulcera gastrica si parla di trattamento “medico” o “chirurgico”, ma non si parla mai di trattamento “chimico” dell’ulcera gastrica. Sempre nell’articolo in questione si assimila la procedura ad un “piccolo parto”, mentre l’esempio andrebbe fatto con l’aborto spontaneo precoce; qualunque donna che abbia partorito e anche abortito spontaneamente una gravidanza iniziale vi saprà dire la differenza. Si dà altrettanto per scontato che il metodo chirurgico sia da preferire perché “controllato” dal medico anziché dalla paziente. E se lo chiedessimo alle pazienti? Se ci sono donne che per innumerevoli e complessi motivi vogliono poter scegliere tra due opzioni che la medicina offre loro, perché pensare che non siano in grado di farlo? È disinformazione anche continuare a dire che il tasso di mortalità per aborto medico è 10 volte maggiore dell’aborto chirurgico: in Europa, dove dal 1988 sono state vendute circa 2,5 milioni di confezioni di Mifegyne, non sono mai stati riportati casi di shock settico. È infine disinformazione tacere del ruolo del mifepristone nell’aborto terapeutico del secondo trimestre, questo sì vero “parto in miniatura” per donne che interrompono una gravidanza desiderata ma con una qualche patologia grave. Con la RU486 somministrata prima delle prostaglandine, i tempi del travaglio sono letteralmente dimezzati; sto parlando di situazioni che a volte si prolungano per giorni e giorni con una intensità di dolore fisico e psichico tale da rappresentare anche per noi operatori un grosso impegno emotivo.
Lo stesso avviene nei drammatici casi di morte intrauterina, in cui questo farmaco viene usato da anni nei Paesi in cui era disponibile. Perché noi medici dovremmo ritenere giusto non disporne nel nostro Paese?
1 commento:
Grande articolo e ancor più perché a firma di un operatore sanitario e non da un politico.
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