Era nell’aria da tempo. Prima i vaniloqui della bassa forza integralista; poi, improvvisamente, il salto di qualità, con un convegno di ‘studiosi’, segnalato con neutralità già di per sé preoccupante da agenzie di area, e con ancor più allarmante compiacimento da qualche nota ultrà:
in un interessante convegno del CNR sulla morte cerebrale gli scienziati hanno affermato che la morte cerebrale non può essere decisiva per l’espianto degli organi. Non è detto che una persona morta da un punto di vista cerebrale sia veramente morta. Lo dicevo, io...
Infine, come ormai tutti sappiamo, l’attacco al concetto di morte cerebrale e quindi a gran parte della pratica dei trapianti è approdato all’ufficialità dell’
Osservatore Romano, con il famigerato articolo di Lucetta Scaraffia («
I segni della morte», 3 settembre 2008, p. 1). Di fronte alle reazioni veementi il magistero ecclesiastico ha creduto opportuno di dissociarsi dalle idee espresse su quello che rimane comunque l’organo di stampa (semi-)ufficiale della Santa Sede; ma è chiaro che gli umori di parte del mondo cattolico volgono ormai in una direzione precisa. Cerchiamo di capire allora quali nuove minacce ci prepara il fanatismo integralista; prima ancora, però, dobbiamo comprendere quale sia esattamente il significato dell’articolo.
A causa di una certa confusione concettuale che pervade le parole della Scaraffia, dei suoi limiti espressivi e del fatto palese che riporti concetti non suoi e male assimilati, mi sembra che molti commentatori – anche fra i più autorevoli – abbiano sostanzialmente equivocato il significato del testo, pensando che vi si sostenga che un
ritorno alla vita sia possibile per chi è in stato di morte cerebrale. Questa sarebbe un’obiezione
fattuale al criterio della morte cerebrale; ma a me sembra che l’attacco della Scaraffia (e degli ambienti che rappresenta) sia piuttosto
definitorio, e quindi filosofico: la morte cerebrale può anche essere definitiva, ma non è comunque
vera morte. Vediamo perché.
La persona per il senso comune
Che cos’è una persona? Cosa indichiamo, esattamente, quando diciamo «io»? «Io ricordo una mattina di tanto tempo fa», «io sto vedendo una mela rossa», «io conosco bene i miei limiti di cuoco», sono tutte proposizioni perfettamente comprensibili e adeguate. L’Io è dunque qualcosa che ha un’attività mentale autocosciente – qualcosa che ricorda, vede, conosce? Io sono identico, per dirla più sinteticamente, alla mia mente? Un’obiezione che si può sollevare è che ci sembra altrettanto corretto dire «io ho i capelli biondi», «io zoppico», «io ho le orecchie a sventola»; ma a ben vedere qui stiamo usando la parola in senso lato, e queste frasi sono perifrasi meno precise di «il mio corpo ha i capelli biondi», «il mio corpo zoppica», etc. Se perdo tutta la mia mente sono morto, o almeno in una condizione (dal mio punto di vista) indistinguibile dalla morte: non ci sono più. Al contrario, la maggior parte di noi non ha nessuna difficoltà a identificare per esempio il protagonista di un racconto di fantascienza dopo che è stato sottoposto a un trapianto di corpo: è il personaggio nel cui corpo è finito il cervello dell’eroe. Se l’Io comprende almeno una parte di corpo, questa parte è dunque il cervello, e nessun’altra (non esamino qui il problema se anche il cervello sia in realtà fungibile, e la persona sia completamente identica alla propria mente).
Quand’è dunque, in questa prospettiva, che l’io nasce e muore? In prima approssimazione, diremo che questi momenti coincidono rispettivamente con l’inizio del funzionamento del cervello (in particolare delle aree delegate alla coscienza) e con la fine irreversibile della sua attività. Ecco perché possiamo dire che una persona in stato vegetativo persistente è già morta: perché la sua coscienza non c’è più, e non ci sarà verosimilmente mai più. Ed ecco perché la morte cerebrale (cosa distinta dallo stato vegetativo) è un ottimo criterio medico e giuridico per segnare la morte della persona: perché indica con precisione e al di là di ogni dubbio la fine irreversibile del cervello e quindi della mente (nello stato vegetativo non conosciamo invece ancora sicuramente il momento in cui l’irreversibilità si instaura, e inoltre i nostri mezzi diagnostici sono ancora imperfetti – il che non toglie che in casi come quelli di Eluana Englaro siamo in grado di fare delle prognosi sicure).
La persona per il pensiero cattolico
Radicalmente diversa, inutile dirlo, è la prospettiva dominante fra i cattolici. Per essa la persona è
individua substantia rationalis naturae, sostanza individuale dalla natura razionale (la definizione risale a Severino Boezio). Cosa vuol dire? Qui persona non è più chi è autocosciente o razionale, ma bensì colui nella cui
essenza è inscritta l’autocoscienza o la razionalità. Un esempio chiarirà le cose ulteriormente. Per noi è naturale dire che un essere umano è bipede se ha due gambe; invece in questa prospettiva un essere umano è bipede in quanto tutti gli esseri umani sono per loro natura bipedi; anche un embrione di due giorni – che di gambe non ha nemmeno l’abbozzo – è bipede, perché nel suo Dna (la versione moderna delle essenze) c’è ‘scritto’ che ha due gambe; e una persona che ha perduto una gamba è bipede anch’essa, anzi è bipede pure se ha perduto entrambe le gambe, perché questa è una condizione
accidentale, mentre la sua natura profonda di bipede è invariabile. Un embrione è una persona perché se nessuno lo tocca ha la capacità ‘autonoma’ di diventare prima o poi un essere razionale; un individuo in stato vegetativo è una persona perché se non gli fosse capitato l’incidente che lo ha ridotto in quello stato sarebbe stato necessariamente ancora autocosciente.
Qui l’evento dirimente per la nascita e la morte della persona non è più, allora, il sorgere o il definitivo tramontare della coscienza, ma qualcosa d’altro. La definizione di Boezio parla di «sostanza individuale»; quindi la persona nasce quando dai due gameti si forma un solo essere. Meno chiara è la situazione all’altro estremo della vita: come mai la maggior parte dei filosofi e teologi cattolici ha accettato la definizione della morte come morte cerebrale? Non abbiamo anche lì un individuo umano privo di coscienza per un evento accidentale? Lo scoglio è stato superato in maniera ingegnosa. Nessun richiamo alla definitiva interruzione della coscienza, naturalmente; quello che si sostiene è che l’organismo umano conserva la sua
unità grazie al tronco cerebrale. Morto questo (come avviene appunto nella morte cerebrale) rimane solo l’
apparenza di un organismo; quello che si ha è in realtà una collezione di organi che non formano più un sistema coerente – com’è provato dal fatto che di lì a poco, inesorabilmente, subentra anche la morte classica: il cuore cessa di battere e i polmoni di respirare. Il morto cerebrale non è più vivo di una sacca di pelle in cui siano stati cuciti all’interno degli organi ancora palpitanti.
La crisi
È proprio quest’ultima credenza che è entrata in crisi. Col tempo ci si è resi conto che in alcuni casi, se le macchine rimangono attaccate, l’organismo non va affatto incontro a una rapida morte: il cuore continua a battere, i polmoni a sollevarsi, le cellule a suddividersi. Questo normalmente non si vede, perché le macchine che tengono in vita il paziente vengono spente subito dopo la diagnosi di morte cerebrale (del tutto indipendentemente dall’eventuale prelievo di organi per il trapianto: quei letti servono, e urgentemente, per pazienti che hanno una speranza di vita). Un’eccezione è quella di cui parla la Scaraffia: donne gravide, cerebralmente morte. Per salvare il feto si prolunga in questi casi l’agonia; e ci si rende conto allora che il paragone con una sacca di organi palpitanti non regge, perché può capitare che dopo un po’ di tempo nasca un bambino. Diventa allora un po’ difficile sostenere che quello che l’ha generato non era un organismo individuale, sia pure tenuto assieme dalle macchine...
È significativo che questi casi siano stati raccolti e divulgati per la prima volta da un medico cattolico, Alan D. Shewmon («Chronic “brain death”: Meta-analysis and conceptual consequences»,
Neurology 51, 1998, pp. 1538-45); ma chi li ha fatti conoscere al grande pubblico è – come ricorda la Scaraffia –
Peter Singer, in un saggio («
Morte cerebrale ed etica della sacralità della vita»,
Bioetica 8, 2000, pp. 31-49) che aveva proprio lo scopo di mostrare le inconsistenze della visione cristiana. Con quali conseguenze, lo vedremo nella prossima puntata.
(1 - continua)