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sabato 24 aprile 2010

Il femminismo s’è infranto sulla Scaraffia

È nel complesso piuttosto scialbo l’articolo che Lucetta Scaraffia ha dedicato l’altro ieri alla «sconfitta» del femminismo («Il femminismo s’è infranto sulla maternità», Il Riformista, 22 aprile 2010, p. 17); ma verso la fine riaccende improvvisamente l’attenzione del lettore.

Certo, è difficile per donne che hanno fatto dell’aborto un diritto sul quale si fonderebbe la cittadinanza femminile, passare poi a chiedere aiuti per la maternità: dal punto di vista ideologico la contraddizione è evidente, e infatti non è mai avvenuto.
Lasciamo da parte l’impossibile verifica empirica della tesi (come fa la Scaraffia a sapere che nessuna sostenitrice del diritto di abortire ha mai chiesto aiuti alla maternità?); lasciamo stare anche la difformità dei due diritti, per come si sono configurati storicamente nel nostro paese (diritto negativo – l’aborto legalizzato – e al tempo stesso positivo – l’aborto gratuito – il primo; diritto solo positivo il secondo). Quello che colpisce è che per la Scaraffia chi vuole l’aborto non può volere al tempo stesso i bambini; il concetto di maternità responsabile – che pure non sembrerebbe estraneo alle lotte femministe del passato – le sembra sconosciuto. Certo, l’aborto sarà anche uno strumento per chi (del tutto legittimamente) non vuole o non può avere figli; ma com’è possibile ignorare che esso sia anche – e soprattutto – uno strumento per chi di figli ne vuole un certo numero, in un certo tempo, a certe condizioni?
Proseguendo nella lettura la sorpresa aumenta:
Come è difficile per chi ha difeso a oltranza la rivoluzione sessuale – e quindi la possibilità anche per le donne di comportarsi con la libertà degli uomini, facendo anche di questo uno dei fulcri dell’ideologia della liberazione – passare poi a criticare le donne seminude che compaiono a tutte le ore sullo schermo televisivo. E a ben vedere, nonostante i tentativi di farlo, da questo punto di vista è contraddittorio anche criticare le donne-tangente, le veline che finiscono nel letto di Berlusconi: l’unica cosa che fa orrore, sembra, è che si tratti di Berlusconi... è difficile criticare il contesto in cui questo avviene se non c’è il nemico numero uno di mezzo. In fondo, si tratta di libere scelte, di libera disponibilità del proprio corpo, corredata ovviamente dall’uso di moderni anticoncezionali e, nel caso, di ricorso all’aborto...
Davvero le femministe e chi «ha difeso a oltranza la rivoluzione sessuale» si contraddirebbero a criticare veline ed escort? Vendersi al potente di turno è una novità generata dalla liberazione sessuale? È frutto dell’eguaglianza finalmente conquistata? Quanti maschi conosce la Scaraffia che per salire a posizioni di potere sono stati costretti (o si sono costretti) a prostituirsi? Ma soprattutto: come fa l’illustre editorialista a pensare che chi ha rivendicato o rivendica la possibilità di vivere liberamente la propria sessualità debba essere al tempo stesso indifferente a ogni altro valore – per esempio che le posizioni di responsabilità vanno assegnate in base al merito e non alla capacità di seduzione?
C’è in effetti un meccanismo comune alla base delle opinioni che la Scaraffia esprime in questo articolo: chi è per l’aborto, e quindi per la possibilità di non far nascere un figlio, sarebbe per ciò stesso sempre contrario a far nascere un bambino; chi è a favore di una sessualità vissuta senza eccessivi pudori sarebbe per ciò stesso sempre entusiasta per qualsiasi uso del proprio corpo si possa fare. Con la stessa logica si potrebbe dimostrare che i gastronomi sono a favore dell’obesità e che chi chiede il porto d’armi è a favore della rapina a mano armata.
Alla fine viene un atroce sospetto: non sarà che il femminismo in Italia è fallito perché a suo tempo ha imbarcato anche donne come Lucetta Scaraffia?

venerdì 5 febbraio 2010

La libertà d’opinione può far male


La libertà d’opinione è un diritto fondamentale. Cosa si può definire opinione e cosa invece solo pregiudizio o ridicola affermazione? È un diritto fondamentale anche dire idiozie, ma è bene soffermarsi sugli effetti e sugli anticorpi (perlopiù assenti nelle tante persone che le ascoltano come fossero un oracolo).
È una abitudine diffusa chiedere al primo che capita cosa ne pensa del nucleare o del buco nell’ozono. Intervistatore e intervistato sono quasi sempre a digiuno degli argomenti di cui blaterano, ma non è un buon motivo per tirarsi indietro!
Ai diritti GLBTQ va particolarmente male. Lorella Cuccarini, presunta icona gay, si dichiara contraria al matrimonio gay perché lei è cattolica – dimenticando che l’Italia è uno Stato laico e non il corpo della testa vaticana e che esiste il matrimonio civile che non dovrebbe discriminare nessun cittadino. Le proteste non sono abbastanza forti per contrastare l’effetto sui tanti che ne sanno ancor meno o che non se ne curano. Tanto più che il Circolo Mario Mieli la ospita giustificandone le posizioni.
Ma Lorella è in buona compagnia: Sabrina Ferilli è d’accordo nel condannare matrimonio e adozioni se non sei eterosessuale; e Lucetta Scaraffia afferma che è forse meglio nascere in seguito a uno stupro che da una coppia gay. Ovviamente senza alcuna spiegazione o argomentazione. È così perché loro pensano così. Poco importa che sia insensato, crudele e lesivo di diritti già zoppicanti.

(Dnews, 5 febbraio 2010)

Lucetta, di nuovo


Scrive Lucetta Scaraffia sul Riformista di ieri («Il no al matrimonio tra omosessuali non è omofobia», 4 febbraio 2010, p. 17):

Il matrimonio infatti non appartiene al novero dei diritti che devono essere garantiti a tutti, ma è una istituzione che prevede la creazione di una famiglia, e quindi nasce dal legame fra una donna e un uomo che possono procreare. Se proprio lo vogliamo considerare un diritto, si tratta di un diritto che come molti altri – per esempio il diritto di voto, per usufruire del quale bisogna avere compiuto diciotto anni – richiede delle condizioni per accedervi. E non potersi sposare fra persone dello stesso sesso non può certo essere considerata una discriminazione o una mancanza di rispetto: è solo la constatazione che mancano dei requisiti richiesti per il matrimonio. Anche se questo, in una società che nella propria cultura ha ormai separato sessualità e riproduzione, non è sempre facile da capire.
Devo ancora incontrare un omofobo – pardon: una persona contraria al matrimonio tra omosessuali – che mi sappia spiegare in modo semplice e logico perché, in base ad argomenti come quelli offerti qui dalla Scaraffia, non si debba essere anche contrari al matrimonio tra un uomo e una donna che abbia superato i cinquant’anni, e che sia dunque senza alcun dubbio non più capace di procreare. Forse bisognerebbe istituire un premio in denaro: 1000, 2000 euro a chi trova la soluzione... Magari può concorrere anche la professoressa Scaraffia, che nel gennaio del 2009, a 60 anni suonati, confidava a Panorama di voler sposare in chiesa Ernesto Galli della Loggia (e vabbè che questi era già civilmente suo marito). Non risulta che i due abbiano avuto figli assieme.

mercoledì 3 febbraio 2010

Ancora Lucetta

Figli di gay meglio di figli di una violenza? Non so se è meglio. Questa più o meno una delle affermazioni di Lucetta Scaraffia (qui).
Ci si sorprende ancora, nonostante ne abbia già dette tante di perfide idozie. Perfide idiozie in un involucro sciocco. Il paragone con uno stupro è ridicolo, oltre ad essere sbagliate le sue conclusioni.
Sottoscrivo Mark.

martedì 11 novembre 2008

Lucetta sul Corriere della Sera

Baby

Grazie alla selezione dell’ovocita materno, veniamo a sapere dai giornali, è nata una bambina “sana, libera dalla grave malattia che rischiava di ereditare dalla madre”. Si tratta di una bimba “politicamente corretta”, scrive la Stampa, perché “non c’è stata quell’indagine sull’embrione che fa accapponare la pelle al mondo cattolico”. Certo, si può ben comprendere la felicità e il sollievo dei genitori. Tutto bene allora? Non direi. Infatti, se proviamo a guardare la cosa con un occhio meno limitato ai desideri umani, vediamo che si tratta anche in questo caso di una selezione che rischia di aprire le porte ad una mentalità eugenetica. Anche in questo caso, quindi, il progresso tecno-scientifico ci impone di riflettere sul senso delle conseguenze che comporta, cioè di ciò che troveremo davanti a noi. “La risposta ci porrà di fronte a una decisione – scrive il filosofo Romano Guardini – e io non so ciò che in essa prevarrà: se il fatto in se stesso con la sua inevitabilità e coercizione, oppure l’intelligenza e la nostra capacità di dominare le cose”.
Questo è quanto scrive oggi Lucetta Scaraffia sul Corriere della Sera – che se uno non lo sapesse penserebbe che è frutto di un generatore casuale di parole e frasi dal senso solo apparente. Anzi, di nessun senso nemmeno apparente.
Siccome il principio di autorità (persone o quotidiani che siano) non è un argomento solido il giudizio, però, non può che rimanere di insensatezza. Anzi di stupefacente insensatezza.
Verrebbe da chiederle: “Lucetta cara, ma cosa vai blaterando? Hai dormito male? O ti stai prendendo giuoco di noi?”. Ecco, forse questa è la chiave. Lei scherza, e noi la prendiamo sul serio.
Cerchiamo di venirne a capo: è nata una bambina, è sana, i genitori sono felici, e addirittura i cattolici perché non hanno fatto la diagnosi genetica di preimpianto. Cosa diavolo ci sarebbe che non va?
Lucetta si limita a negare che sia tutto a posto, senza portare alcun argomento e considerandoci più intelligenti di quanto non siamo. Perché non si capisce la ragione per cui non va bene. Quale sarebbe “un occhio meno limitato ai desideri umani”? E poi se “rischia di aprire le porte” significa forse che per ora sono ancora chiuse? Non solo non ci dice il perché, ma sembra che soltanto il rischio di aprire alla eugenetica sia sufficiente per condannare e magari per vietare per legge.
Inutile ribadire per l’ennesima volta che dietro alla parola “eugenetica” ci sono una serie di imprecisioni – e stupisce, da parte di una storica, tanta superficialità. Che giochi appositamente su tale terreno insidioso?
Ma vediamo di chiarire almeno qualche pensiero sull’eugenetica, usata come una clava contro le tecniche di procreazione assistita o il “progresso tecno-scientifico” in generale.
Il richiamo è sbagliato storicamente e scorretto concettualmente, perché il sottinteso è che “eugenetica” sia quella politica razziale nazista che eliminava quanti non corrispondevano ad un certo standard. Ma quella eugenetica non ha nulla a che fare con le possibilità che la scienza oggi offre – e che potremmo chiamare manipolazione genetica migliorativa per liberarci del peso dei ricordi.
L’eugenetica della politica nazista di miglioramento della razza, e di quel movimento eugenetico che si sviluppa alla fine dell’ottocento e si diffonde in Paesi insospettabili come Inghilterra e Stati Uniti, è giustamente condannata. Seppure in contesti molto dissimili, lo scopo comune dell’ideologia eugenetica consisteva nel “migliorare” la razza, attraverso l’eliminazione di tutti gli elementi difettosi: mascalzoni, prostitute, criminali, ma anche insufficienti mentali, pazzi, poveri o appartenenti a presunte razze inferiori dovevano essere eliminati, o almeno dovevano essere cancellati dai processi riproduttivi al fine di estirpare i loro geni difettosi. Il fantasma dell’eugenetica nazista è ben conosciuto; forse è meno noto quello che accadde negli Stati Uniti all’inizio del novecento. Tra il 1907 e il 1940 la caccia agli indegni (“the hunt of unfit”) causa la sterilizzazione forzata o la castrazione di migliaia di esseri umani: la maggior parte di essi erano deboli di mente, malviventi oppure considerati moralmente degenerati; 700 furono classificati come “altro”.
La differenza fra questa eugenetica e l’eugenetica attuale, però, è profonda, e l’assoluta condanna della prima non può essere trasferita, totalmente o parzialmente, sulla seconda.
Confonderle, giocare con le ambiguità è disonesto; e pericoloso.
Nel caso di questa bambina, perdipiù, non si può nemmeno tirare in ballo la questione degli embrioni sacri e inviolabili: e allora?
Il filosofo citato a conclusione spero sarà clemente con chi filosofo non è, ma non si capisce bene manco lui. Forse è una rimodernizzazione del “non so” socratico, dimenticando un pezzo, anzi due: la consapevolezza del non sapere e l’ironia.

AgoraVox Italia, 11 novembre 2008

lunedì 8 settembre 2008

Contro i trapianti /2

Dopo aver cercato di individuare nel primo post di questa serie il vero significato delle idee esposte da Lucetta Scaraffia nel tristemente famoso articolo per l’Osservatore Romano, tentiamo adesso di delineare le possibili conseguenze degli atteggiamenti in materia di trapianti che si stanno diffondendo in alcuni ambienti cattolici.

La posta in gioco
Anche se sono in pochi ad averlo notato, non è solo la pratica dei trapianti ad essere messa in pericolo dalle ubbie di cui si è fatta portavoce la Scaraffia. Se si diffondesse l’opinione che una persona in stato di morte cerebrale è comunque ancora ‘viva’, e che sospendere i trattamenti cui è sottoposta significherebbe ‘ucciderla’, assisteremmo a un drammatico intasamento delle corsie dei reparti di rianimazione. Mentre ora infatti si staccano le macchine subito dopo la diagnosi di morte cerebrale (indipendentemente dal fatto che si proceda o meno al prelievo di organi), se il respiratore artificiale non venisse spento basterebbero i pochi giorni o settimane di sopravvivenza media di questi malati a tenere occupati letti e macchinari e a determinare di fatto la fine della medicina di urgenza in questo paese, con le vittime di incidenti d’auto o di infortuni domestici lasciate morire nei pronto soccorsi. Una strage di viventi per non togliere il posto ai morti.
Fortunatamente questo scenario è abbastanza improbabile, non foss’altro che per le ovvie conseguenze di ordine pubblico (e di impopolarità della Chiesa e dei suoi servitori politici). La giustificazione per staccare la spina non manca, persino se si cancella il concetto di morte cerebrale: si tratterebbe comunque di malati terminali, e le invadenti pratiche di rianimazione sarebbero etichettabili come accanimento terapeutico anche secondo gli angusti criteri della dottrina cattolica.

Nuove giustificazioni per i trapianti?
Molto più difficile giustificare, nella nuova prospettiva, la pratica dei trapianti. Ci ha provato nei giorni scorsi Lorenzo d’Avack, del Comitato Nazionale per la Bioetica («Il confine della vita e la difesa della donazione di organi», Il Messaggero, 5 settembre 2008, p. 21):

Forse è sbagliato continuare a giustificare la legittimità dei trapianti attraverso una pretesa scientifica della morte. Forse è necessario domandarsi se sia più conforme a dignità concepire l’aggressione al corpo morente come legittima aggressione al corpo di un uomo per suo consenso. Forse si potrebbe e si dovrebbe dire che la consapevole decisione di donare i propri organi dopo la morte cerebrale totale vada ritenuta valida in forza di un grande gesto di solidarietà sociale.
Si tratta però di argomenti abbastanza deboli: dopo tanto ossessivo insistere sul primato della vita sulla libertà, il magistero ecclesiastico potrebbe mai concedere quello che si potrebbe interpretare – nella sua stessa ottica – come un suicidio, sia pure a beneficio di altri?
Ma una soluzione va trovata. Qui la Chiesa ha interessi contrastanti: da un lato l’impopolarità che la colpirebbe nel caso imponesse il proprio veto alla pratica dei trapianti (impopolarità che potrebbe risultare massima soprattutto fra i settori della comunità cattolica in cui hanno ancora corso gli ideali della solidarietà con i deboli, del dono di sé, che i trapianti irresistibilmente richiamano); dall’altro, la coerenza del proprio apparato ideologico, che si pretende conforme alla «ragione», e dalla cui saldezza dipendono non solo il no all’eutanasia e al rifiuto delle cure, ma anche quello – per la Chiesa irrinunciabile e strategico – all’aborto.
Vedremo nei mesi prossimi se la creatività di teologi e filosofi cattolici riuscirà a venire a capo del dilemma; ma certo sarebbe stato meglio se la questione fosse rimasta avvolta in un prudente silenzio, o confinata tutt’al più sulle pagine delle riviste accademiche. In effetti, contro quella che era stata anche la mia prima impressione, c’è da chiedersi se l’articolo della Scaraffia non sia stato un motivo di disagio e una sgradita sorpresa anche per le gerarchie ecclesiastiche. Si noti il tono vagamente stizzito e le giustificazioni balbettanti che Francesco D’Agostino – sicuramente più organico a certi ambienti della Scaraffia – propone nel commentare l’articolo («“Se il cervello è fermo il corpo non è più vivo”», Il Mattino, 4 settembre, p. 4):
«[Q]uelli che contestano il criterio della morte cerebrale non dicono con quali strumenti migliori si potrebbe accertare un decesso».
Eppure, esistono scienziati che la pensano diversamente da lei.
«E io ritengo naturale che nel mondo scientifico si discuta anche perché conosciamo ancora poco della funzionalità del cervello. Ma si tratta di un dibattito che si deve svolgere in ambito scientifico e non riguarda affatto la bioetica. Medici e giuristi sono tenuti dal punto di vista etico a rispettare la posizione che è largamente dominante nel mondo scientifico. E solo dal mondo scientifico ci possono arrivare indicazioni diverse, anche non maggioritarie ma almeno scientificamente fondate: cosa che per ora non è».
Alcuni studiosi citano casi di persone morte cerebralmente con il cuore che batteva ancora e di donne in coma irreversibile che hanno portato a termine una gravidanza...
«Sono casi singoli che non fanno statistica. Potremmo anche pensare che il medico che ha decretato la morte cerebrale si sia sbagliato. E per quanto riguarda quelle gravidanze, sono state possibili grazie alle macchine che hanno sostituito alcuni organi, così come capita quando si mette un neonato in una incubatrice».
Ma allora di quali ambienti si è fatta veramente portavoce la Scaraffia?

Il golem diventa autonomo
Man mano che la Chiesa è andata spostando il punto focale del proprio messaggio sui temi della bioetica, riguadagnando allo stesso tempo il centro dell’attenzione politica e mediatica, ha sentito la necessità di cooptare numeri sempre maggiori di comunicatori, per lo più al di fuori dei ranghi dei teologi e dei sacerdoti, e con un accento privilegiato sulla presenza femminile. Là dove prima bastava un’intervista al vecchio Monsignor Sgreccia, ecco adesso che la scena è dominata dalle Roccella, dalle Morresi, dalla stessa Scaraffia, dalla figlia d’arte Marina Casini, tanto per citare solo alcuni nomi. Ma la moltiplicazione dei volti, unita alla necessità di fornire un messaggio comprensibile ai più, ha determinato un inevitabile abbassamento della qualità. I nuovi campioni dell’integralismo sono spesso incapaci di maneggiare i difficili concetti di sostanza individuale o di essenza razionale (e del resto, bisogna ammetterlo, non è che quei concetti abbiano mai avuto un significato chiaro e preciso); difficile immaginare la Roccella a suo agio con Severino Boezio...
Si è andata così formando col tempo una versione vulgata della complessa filosofia che esaminavamo nel post precedente, versione che si può trovare esposta in mille posti, dalle pagine del Foglio agli articoli di Avvenire, a certi commenti ai post di questo stesso blog; una versione per alcuni versi simile all’originale, ma anche sottilmente differente.
Per chi la sostiene l’uomo non è degno di rispetto in quanto creatura essenzialmente razionale, ma bensì solo in quanto biologicamente uomo. Se logicamente la posizione è indifendibile (perché allora garantirgli statuto morale? E perché solo alla specie umana, e non anche alla famiglia – gli ominidi – o all’ordine – i primati? O al contrario perché non soltanto all’etnia, o alla tribù, o alla famiglia?), essa consente a chi non ha familiarità con le essenze dei filosofi di continuare a sostenere l’illiceità dell’aborto (l’embrione non è razionale ma il suo Dna è umano). Questo crudo riduzionismo biologistico viene giustificato con l’appello a evitare ogni discriminazione, ricorrendo ecletticamente a un argomento che era stato una volta tipicamente progressista. Ma proprio la fobia per ogni richiamo nel discorso morale alle dimensioni della coscienza, dell’autocoscienza e della razionalità porta inevitabilmente a riconsiderare i criteri della morte: i cerebralmente morti sono sicuramente uomini, e sicuramente vivi; con che coerenza, allora, li usiamo per i trapianti? Anche una pseudo-dottrina priva di ogni dignità intellettuale può inseguire l’ideale della coerenza logica; ed è questa dinamica ad aver forse prodotto l’intervento di Lucetta Scaraffia.

L’integralista e il paranoico
Le gerarchie ecclesiastiche hanno naturalmente un certo controllo su questo ambiente; ma non totale. Il timore che le cose sfuggano loro di mano è quindi perlomeno sensato. Se non si giungerà alla fine dei trapianti per decreto legislativo – cosa per cui sarebbe necessario l’impulso della Chiesa – il pericolo è però che si crei un sentire diffuso ostile a questa pratica medica, operando una saldatura con i gruppuscoli paranoici che da tempo denunciano la cosiddetta «predazione di organi». Identico, del resto, è l’humus in cui sono radicati questi complottisti e gli integralisti: una piccola borghesia che si sente compressa sia dall’alto che dal basso (nel linguaggio integralista, rispettivamente dalle «lobby massoniche» e soprattutto dalla «tecnoscienza», e dalle «masse scristianizzate» ed «edoniste»), e che reagisce tipicamente con il ricorso alle teorie del complotto e con il vittimismo aggressivo. Al di là dei facili sociologismi, del resto, il cristianesimo integralista questo è: l’ideologia di una parte della piccola borghesia.
Già i prodromi del linguaggio complottista cominciano ad apparire: Stefano Lorenzetto si vanta sul Giornale di aver dato l’imbeccata alla Scaraffia («Quel dubbio etico censurato da 40 anni», 4 settembre, pp. 6-7), e conclude: «La verità è che una potentissima lobby da 40 anni ha tolto a queste frange minoritarie persino il diritto di parola». E la stessa Scaraffia, in un’intervista al Riformista“Niente dogmi sulla morte cerebrale. In Vaticano molti la pensano come me”», 4 settembre, p. 2), commenta a proposito delle reazioni suscitate dal suo primo articolo:
mi sembra anche che la questione tocchi interessi meno pietosi. La cosa evidentemente dà fastidio a diverse persone che sono interessate a che le cose non cambino. […] Sono troppi gli interessi che stanno dietro ai trapianti. Sembra che debbano essere sempre legittimi, si parla sempre delle vite che salvano, delle storie pietose, ma si è molto meno propensi a fornire dati sul numero dei trapianti riusciti, sulla sopravvivenza, e sulla qualità della vita dei trapiantati...
Del tutto interno alla logica complottista è invece il ripugnante articolo di Ida Magli pubblicato oggi dal GiornaleDue o tre cose che nessuno dice sui trapianti», 8 settembre, p. 1; un assaggio: «esiste un ordine segreto ma inderogabile che vieta qualsiasi informazione sull’argomento». Vedi anche le indignate considerazioni di Inyqua), che significativamente se la prende con la Chiesa stessa.
Questa retorica, nel migliore dei casi sospettosa e meschina (e demente nel peggiore), farà danni limitati finché rimarrà limitata a poche conventicole di fanatici. Ma in tempi di crisi sociale ed economica basta poco perché faccia prendere fuoco agli animi dei creduli e degli ignoranti. Gli aspiranti incendiari, come si vede, non mancano.

(2 - fine)

giovedì 4 settembre 2008

Contro i trapianti /1

Era nell’aria da tempo. Prima i vaniloqui della bassa forza integralista; poi, improvvisamente, il salto di qualità, con un convegno di ‘studiosi’, segnalato con neutralità già di per sé preoccupante da agenzie di area, e con ancor più allarmante compiacimento da qualche nota ultrà:

in un interessante convegno del CNR sulla morte cerebrale gli scienziati hanno affermato che la morte cerebrale non può essere decisiva per l’espianto degli organi. Non è detto che una persona morta da un punto di vista cerebrale sia veramente morta. Lo dicevo, io...
Infine, come ormai tutti sappiamo, l’attacco al concetto di morte cerebrale e quindi a gran parte della pratica dei trapianti è approdato all’ufficialità dell’Osservatore Romano, con il famigerato articolo di Lucetta Scaraffia («I segni della morte», 3 settembre 2008, p. 1). Di fronte alle reazioni veementi il magistero ecclesiastico ha creduto opportuno di dissociarsi dalle idee espresse su quello che rimane comunque l’organo di stampa (semi-)ufficiale della Santa Sede; ma è chiaro che gli umori di parte del mondo cattolico volgono ormai in una direzione precisa. Cerchiamo di capire allora quali nuove minacce ci prepara il fanatismo integralista; prima ancora, però, dobbiamo comprendere quale sia esattamente il significato dell’articolo.
A causa di una certa confusione concettuale che pervade le parole della Scaraffia, dei suoi limiti espressivi e del fatto palese che riporti concetti non suoi e male assimilati, mi sembra che molti commentatori – anche fra i più autorevoli – abbiano sostanzialmente equivocato il significato del testo, pensando che vi si sostenga che un ritorno alla vita sia possibile per chi è in stato di morte cerebrale. Questa sarebbe un’obiezione fattuale al criterio della morte cerebrale; ma a me sembra che l’attacco della Scaraffia (e degli ambienti che rappresenta) sia piuttosto definitorio, e quindi filosofico: la morte cerebrale può anche essere definitiva, ma non è comunque vera morte. Vediamo perché.

La persona per il senso comune
Che cos’è una persona? Cosa indichiamo, esattamente, quando diciamo «io»? «Io ricordo una mattina di tanto tempo fa», «io sto vedendo una mela rossa», «io conosco bene i miei limiti di cuoco», sono tutte proposizioni perfettamente comprensibili e adeguate. L’Io è dunque qualcosa che ha un’attività mentale autocosciente – qualcosa che ricorda, vede, conosce? Io sono identico, per dirla più sinteticamente, alla mia mente? Un’obiezione che si può sollevare è che ci sembra altrettanto corretto dire «io ho i capelli biondi», «io zoppico», «io ho le orecchie a sventola»; ma a ben vedere qui stiamo usando la parola in senso lato, e queste frasi sono perifrasi meno precise di «il mio corpo ha i capelli biondi», «il mio corpo zoppica», etc. Se perdo tutta la mia mente sono morto, o almeno in una condizione (dal mio punto di vista) indistinguibile dalla morte: non ci sono più. Al contrario, la maggior parte di noi non ha nessuna difficoltà a identificare per esempio il protagonista di un racconto di fantascienza dopo che è stato sottoposto a un trapianto di corpo: è il personaggio nel cui corpo è finito il cervello dell’eroe. Se l’Io comprende almeno una parte di corpo, questa parte è dunque il cervello, e nessun’altra (non esamino qui il problema se anche il cervello sia in realtà fungibile, e la persona sia completamente identica alla propria mente).
Quand’è dunque, in questa prospettiva, che l’io nasce e muore? In prima approssimazione, diremo che questi momenti coincidono rispettivamente con l’inizio del funzionamento del cervello (in particolare delle aree delegate alla coscienza) e con la fine irreversibile della sua attività. Ecco perché possiamo dire che una persona in stato vegetativo persistente è già morta: perché la sua coscienza non c’è più, e non ci sarà verosimilmente mai più. Ed ecco perché la morte cerebrale (cosa distinta dallo stato vegetativo) è un ottimo criterio medico e giuridico per segnare la morte della persona: perché indica con precisione e al di là di ogni dubbio la fine irreversibile del cervello e quindi della mente (nello stato vegetativo non conosciamo invece ancora sicuramente il momento in cui l’irreversibilità si instaura, e inoltre i nostri mezzi diagnostici sono ancora imperfetti – il che non toglie che in casi come quelli di Eluana Englaro siamo in grado di fare delle prognosi sicure).

La persona per il pensiero cattolico
Radicalmente diversa, inutile dirlo, è la prospettiva dominante fra i cattolici. Per essa la persona è individua substantia rationalis naturae, sostanza individuale dalla natura razionale (la definizione risale a Severino Boezio). Cosa vuol dire? Qui persona non è più chi è autocosciente o razionale, ma bensì colui nella cui essenza è inscritta l’autocoscienza o la razionalità. Un esempio chiarirà le cose ulteriormente. Per noi è naturale dire che un essere umano è bipede se ha due gambe; invece in questa prospettiva un essere umano è bipede in quanto tutti gli esseri umani sono per loro natura bipedi; anche un embrione di due giorni – che di gambe non ha nemmeno l’abbozzo – è bipede, perché nel suo Dna (la versione moderna delle essenze) c’è ‘scritto’ che ha due gambe; e una persona che ha perduto una gamba è bipede anch’essa, anzi è bipede pure se ha perduto entrambe le gambe, perché questa è una condizione accidentale, mentre la sua natura profonda di bipede è invariabile. Un embrione è una persona perché se nessuno lo tocca ha la capacità ‘autonoma’ di diventare prima o poi un essere razionale; un individuo in stato vegetativo è una persona perché se non gli fosse capitato l’incidente che lo ha ridotto in quello stato sarebbe stato necessariamente ancora autocosciente.
Qui l’evento dirimente per la nascita e la morte della persona non è più, allora, il sorgere o il definitivo tramontare della coscienza, ma qualcosa d’altro. La definizione di Boezio parla di «sostanza individuale»; quindi la persona nasce quando dai due gameti si forma un solo essere. Meno chiara è la situazione all’altro estremo della vita: come mai la maggior parte dei filosofi e teologi cattolici ha accettato la definizione della morte come morte cerebrale? Non abbiamo anche lì un individuo umano privo di coscienza per un evento accidentale? Lo scoglio è stato superato in maniera ingegnosa. Nessun richiamo alla definitiva interruzione della coscienza, naturalmente; quello che si sostiene è che l’organismo umano conserva la sua unità grazie al tronco cerebrale. Morto questo (come avviene appunto nella morte cerebrale) rimane solo l’apparenza di un organismo; quello che si ha è in realtà una collezione di organi che non formano più un sistema coerente – com’è provato dal fatto che di lì a poco, inesorabilmente, subentra anche la morte classica: il cuore cessa di battere e i polmoni di respirare. Il morto cerebrale non è più vivo di una sacca di pelle in cui siano stati cuciti all’interno degli organi ancora palpitanti.

La crisi
È proprio quest’ultima credenza che è entrata in crisi. Col tempo ci si è resi conto che in alcuni casi, se le macchine rimangono attaccate, l’organismo non va affatto incontro a una rapida morte: il cuore continua a battere, i polmoni a sollevarsi, le cellule a suddividersi. Questo normalmente non si vede, perché le macchine che tengono in vita il paziente vengono spente subito dopo la diagnosi di morte cerebrale (del tutto indipendentemente dall’eventuale prelievo di organi per il trapianto: quei letti servono, e urgentemente, per pazienti che hanno una speranza di vita). Un’eccezione è quella di cui parla la Scaraffia: donne gravide, cerebralmente morte. Per salvare il feto si prolunga in questi casi l’agonia; e ci si rende conto allora che il paragone con una sacca di organi palpitanti non regge, perché può capitare che dopo un po’ di tempo nasca un bambino. Diventa allora un po’ difficile sostenere che quello che l’ha generato non era un organismo individuale, sia pure tenuto assieme dalle macchine...
È significativo che questi casi siano stati raccolti e divulgati per la prima volta da un medico cattolico, Alan D. Shewmon («Chronic “brain death”: Meta-analysis and conceptual consequences», Neurology 51, 1998, pp. 1538-45); ma chi li ha fatti conoscere al grande pubblico è – come ricorda la Scaraffia – Peter Singer, in un saggio («Morte cerebrale ed etica della sacralità della vita», Bioetica 8, 2000, pp. 31-49) che aveva proprio lo scopo di mostrare le inconsistenze della visione cristiana. Con quali conseguenze, lo vedremo nella prossima puntata.

(1 - continua)

mercoledì 7 maggio 2008

A Lucetta non piace l’Arcobaleno

Invelenita forse da una pessima giornata, Lucetta Scaraffia si avventa sulla Famiglie Arcobaleno (Il Mulino bianco delle famiglie arcobaleno, Il Riformista di oggi). Che, secondo Scaraffia, sarebbero state dipinte da Il Corriere della Sera come improbabili famigliole felici e perfette. Scrive: “Nelle due pagine che il Corriere della Sera ha dedicato alla cronaca di questo avvenimento non c’è una sola nota stonata: tutti sono felici, i bambini belli, i genitori perfetti, mai nervosi o stufi di accudire la prole, mai innervositi verso il partner”.
Verrebbe da chiedere perché Lucetta se la prenda con le famiglie descritte, dal momento che forse potrebbe essere stato chi le ha raccontate a peccare di melassa (come la stessa definisce poco avanti il clima che emerge). Ma no, Il Corriere non è mica omosessuale; e quindi ad essere sospettate sono queste famiglie, che hanno l’unica colpa di volere il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali (e perché non aggiungere: se per natura non possono riprodursi cosa diavolo pretendono?).

Lucetta si distingue per le sue affermazioni campate in aria anche nelle righe seguenti. Afferma candidamente: “Il fatto che i bambini nati da un rapporto eterosessuale siano gli unici a conoscere entrambi i genitori biologici non viene considerato rilevante”.
Sarebbe stato educato provare a spiegare. A spiegare, intendo, questa ossessione per i legami biologici (la situazione descritta non cambierebbe se i genitori di cui si parla fossero “soltanto” sociali; in altre parole non basta lo spermatozoo a rendere padre un uomo e cominciare a parlare di più di legami affettivi, invece che genetici, sarebbe sensato e augurabile).
Ma veniamo alla melassa:

Ed è proprio tutta questa melassa, questo paesaggio da Mulino Bianco a far capire come sia tutto terribilmente difficile, come in realtà i problemi siano così gravi da non potere neppure essere nominati per poi, magari, venire affrontati e risolti.
Perché non ha provato Lucetta ad elencare i problemi così gravi da essere innominabili? Forse perché in vita sua non ha mai incontrato queste famiglie? Non ci ha mai parlato (ma perché scomodarsi, poi?). Forse perché non si è presa la briga di leggersi nemmeno un articolo (Corriere a parte, che però è cronaca, non certo un articolo da cui imparare chissà che).
Che importa che l’80% delle famiglie gay sia costituito da donne, le uniche in grado di procreare un figlio facendo ricorso a una donazione di sperma? Che importa che, per gli uomini, sia necessario l’affitto di un utero, cioè di una donna che si presta alla gravidanza per denaro, fatto certo non così tranquillo e positivo?
Siamo costretti a ripeterci (vedi domande suddette). Di che parla Lucetta? Di automatismi, di luoghi comuni, di reazioni pavloviane e ormai di una noia mortale che ci attanaglia troppo spesso a sentire queste banalità camuffate da preoccupazioni antropologiche e salvifiche. Interessante la costruzione della frase: “si presta [...] per denaro”. Quando si dice la stupefacente lingua italiana e le sue rivelazioni (magari involontarie)...
Come al solito, il confronto viene fatto con l’estero, con i paesi dove tutto si può fare, e un’Italia arretrata e ferma sulla difesa della famiglia tradizionale. Dimenticando che anche lì i problemi dell’anonimato del donatore di sperma si sono posti drammaticamente, che ci sono psicologi allarmati per gli esiti di questi esperimenti sulla costruzione dell’identità e libri che raccontano l’esperienza dei primi bambini vissuti in famiglie omosessuali che testimoniano realtà molto meno rosee. Non sarebbe molto più sensato individuare i problemi, e poi cercare di capire se sono risolvibili? Se no, se rimaniamo sempre dentro al cerchio magico dell’utopia, il risveglio può essere veramente molto brusco.
Chissà che idea di “estero” ha la nostra Lucetta: un luogo anarchico, privo di regole e razionalità (magari anche privo di discriminazioni che sono ben radicate nel nostro assolato Paese). Sentire per l’ennesima volta il richiamo alla famiglia tradizionale è davvero irritante. Anche qui la conoscenza di Lucetta sembra difettare: basterebbe un bignami di diritto di famiglia per essere, sì, meno stucchevoli di così. Aspettiamo con ansia i riferimenti bibliografici sulla realtà meno rosea.
Ah, per concludere: chi considera le famiglie omosessuali come famiglie (come una delle possibili famiglie) non vuole affermare, stupidamente, che siano più felici a priori. Che siano meglio di quelle eterosessuali. Nessun assetto formale determina automaticamente il contenuto. Ciò che si vuole suggerire è che sono luoghi in cui si può crescere bene proprio come nelle famiglie eterosessuali; niente Mulino Bianco, stiamo parlando di persone, forse Lucetta lo ha dimenticato. Ma inseguire la macchietta “orientamento sessuale X” = “carattere X” (e quindi capacità genitoriale presente o assente in base al sesso della persona che ami) è una tentazione troppo forte.
Il problema più serio (oltre alla stupida superficialità di molte persone ignoranti) è quello della mancanza di alcuni diritti importanti – diritti che sarebbero in primo luogo a tutela del minore (che viene sempre nominato, ma raramente considerato sul serio).
E poi questo modo di ragionare (il rischio del donatore anonimo, per esempio) costringerebbe a condannare anche il matrimonio con la m maiuscola in base al fatto che ne falliscono parecchi. E la famiglia con la f maiuscola visti i dati su violenze e così via. Uno sforzo per proporre qualche argomento sensato sarebbe davvero ben accetto.

lunedì 23 luglio 2007

La morte è un fatto e non un diritto

Oggi Lucetta Scaraffia commenta il nuovo libro di Adriano Pessina (Perché non esiste il “diritto di morire”, Corriere della Sera, 23 luglio 2007). Quale giorno più propizio di oggi!
Si comincia così:

Per capire le ragioni dei cattolici nei confronti del testamento biologico e dell’eutanasia — e fare giustizia delle generiche accuse di «paternalismo» o di nostalgia per uno «Stato etico» avanzate da chi sostiene a tutti i costi la necessità di una legge sul testamento biologico — è utile leggere il breve saggio Eutanasia di Adriano Pessina (Cantagalli, pagine 116, euro 12,50), che con lucidità e chiarezza ne spiega le ragioni morali e filosofiche: che non sono, quindi, solo religiose.
L’avvio mi suggerisce un leit motiv della campagna referendaria sulla legge 40: avere un figlio a tutti i costi. E il fatto che venga piegato fino a diventare, il fare qualcosa a tutti i costi, ostinazione o peggio cocciutaggine infantile su una esigenza inutile e dannosa (avere un figlio o una legge sul TB). Ciò che è buffo è che se sostituiamo “avere un figlio” o “fare una legge sul TB” con laurearsi o conquistare un obiettivo non è poi tanto evidente il motivo di condanna. Insomma, fare qualcosa “a tutti i costi” non è di per sé negativo, dunque bisognerebbe spiegare le ragioni del disprezzo che trasuda dall’espressioni in oggetto. Vediamo se Lucetta riesce, con l’aiuto di Pessina, a offrirne qualcuna.
Innanzitutto l’autore distingue nettamente fra eutanasia e sospensione dei trattamenti valutata come accanimento terapeutico, e ricorda che invece alcuni sostenitori dell’eutanasia tendono a equiparare queste situazioni, negando che esista una reale differenza, come si è visto nel caso Welby. Con una mossa teorica che radicalizza la centralità dell’autonomia essi pongono infatti le premesse per questa confusione — e oggi molti dei più strenui sostenitori del testamento biologico sono anche a favore dell’eutanasia — mentre, ricorda Pessina, «la legittimità o no di un rifiuto non dipende solo ed esclusivamente dal fatto che sia frutto di una scelta libera, ma dalle ragioni che la sostengono».
Le ragioni che sostengono una libera scelta? Allora vediamo. Se io sono libero di andare a passeggio, posso andare a passeggio per le ragioni più strambe. Oppure no? Devo forse dimostrare che vado a passeggio per ragioni legittime? Giudicate legittime da chi? O sono libero, oppure non lo sono. È questa libertà (di andare a passeggio o di rifiutare un trattamento) che deve essere sostenuta da ragioni valide, ma una volta affermata non può essere perennemente sottoposta a un tribunale non meglio identificato che ne valuti le declinazioni. Vai a passeggio per incontrare lo zio? Va bene. Vai a passeggio per fumare una sigaretta? Mica tanto. Vai a passeggio per comprare una rivista porno? Assolutamente no, permesso negato. Non funziona. Se io sono libero di rifiutare un trattamento, sono in grado di capirne le conseguenze e decido di avvalermi di questa possibilità, nessuno può venirmi a dire che le mie ragioni a sostegno del mio rifiuto sono inconsistenti.
Ponendo la scelta come fondamento del valore di ciò che viene scelto si arriva infatti a giustificare il discutibilissimo «diritto di morire». E proprio «la scorciatoia formalistica e proceduristica» proposta su questa base sembra allora più facilmente percorribile, perché evita «il confronto tematico, il giudizio morale». Anche se la nostra epoca è affascinata dal primato della volontà, bisogna rendersi conto che «la possibilità di decidere di sé fino al punto di non essere più è, e resta soltanto un fatto, non costituisce né un diritto né un bene».
Se la parola “diritto” anteposta a “di morire” crea tanto fastidio possiamo parlare di libertà. Non è questione di evitare il giudizio morale ma di non trasformarlo in una imposizione moralistica o in una legge, per il bene di qualcun altro o perché “io non lo farei”. Lo slogan che la morte è un fatto e non un diritto è davvero esilarante. Anche la vita è un fatto, anche la libertà o il rispetto. La nostra stessa esistenza. Ciò non significa che non possa esserci un aspetto da preservare, da garantire, da proteggere.
Possiamo sostituire “diritto di morire” con “diritto di scelta”, se la scelta non è imbavagliata e delimitata. E allora nella scelta rientra anche il morire, il come morire e il quando morire. Va bene così?
Quanto al fatto che la possibilità di scegliere di morire non sia (non possa mai essere) un bene c’è da discutere molto. E la discussione verterebbe su principi quali l’indisponibilità della vita o la sua sacralità. E gli antagonisti come la qualità di quella vita e la proprietà, quindi la possibilità di disporne. Qualche volta morire può essere un bene, quando l’esistenza è torturata da una malattia, ad esempio. Chi decide? Il diretto interessato. È soltanto lui che può stabilire se la sua esistenza sia ancora un bene. E come imporgli qualcosa di diverso?
Parole che fanno riflettere sulla necessità di un testamento biologico, di recente negato in Italia anche dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri che ha invece proposto di valorizzare l’importanza di un’alleanza terapeutica fra medico e paziente e l’uso delle cure palliative.
Negato? In che senso negato? Suggerirei, poi, di analizzare le ragioni di questa “negazione” e di non usarla come principio di autorità. Inoltre è ipocrita e scorretto insinuare che chi è a favore delle direttive anticipate sia contrario alle cure palliative o alla alleanza terapeutica. Basta con questi luoghi comuni ingenui e sciocchi.
Il funzionamento problematico di questo strumento giuridico è già stato rilevato nei Paesi dove è da tempo in vigore: qui — in assenza di chiare volontà del paziente, del resto molto difficili da specificare in situazioni in cui le scoperte scientifiche ampliano in modo continuo le possibilità della medicina — si è esteso il ruolo del «fiduciario». Anche se numerosi studi, condotti su pazienti terminali che non hanno ancora perso coscienza, hanno dimostrato che le scelte dei fiduciari, di fronte alle decisioni sulla fine della vita, sono molto discordanti da quelle del paziente.
Le scoperte ampliano le possibilità della medicina senza miracoli, purtroppo. Anche questo argomento, se ci si riflette invece di ripeterlo come una cantilena, è barcollante. Quali studi? Sarebbe interessante leggerli, e non avendo la fonte non posso pronunciarmi. Ricordo solo che finché il paziente è lucido può decidere lui, quando dovesse perdere conoscenza ascoltare il fiduciario è un modo (seppure imperfetto) di eseguire le sue volontà. L’assenza di indicazioni del paziente e di un fiduciario in che modo migliorerebbe la situazione? Abbandonando al caso le decisioni?
Particolarmente grave è stata poi l’estensione di questa «autodeterminazione» ai bambini di meno di un anno — chiaramente privi della possibilità di scegliere — in assenza di reali speranze di sopravvivenza o affetti da gravi anomalie, che nella metà dei casi si traduce nella decisione di sospendere o annullare trattamenti per accelerare la morte del bambino.
Bisogna quindi essere molto prudenti nel legiferare su un tema così pericoloso e delicato, soprattutto quando si propongono leggi non necessarie. Ricordando, come scrive Pessina, che il rifiuto del «diritto di morire» non deriva «da nessuna sacralizzazione della vita astrattamente intesa, ma dal rispetto del senso storico dell’esistere».
Leggi non necessarie. Non mi sembra di avere letto una sola motivazione del fatto che una legge sulle direttive anticipate sarebbe superflua. Confesso la mia confusione rispetto al “senso storico dell’esistere”. Proprio non capisco di cosa si tratti. Forse è roba di filosofi continentali…

venerdì 13 luglio 2007

Venire al mondo 1 (ovvero, più che Lucetta, Buietta)

È uscito il terzo quaderno di Scienza&Vita (qui ci eravamo barcamenati sul primo, Né accanimento né eutanasia, con tanto di accenti sbagliati: Nè accanimento, nè eutanasia, ma insomma è il contenuto che conta no?)
Anche stavolta è una pregevole antologia di scritti. E anche stavolta saranno affrontati i singoli interventi (forse non tutti, forse nemmeno un altro dopo questo), se e quando le forze ci sosterranno.
Si comincia proprio dall’inizio, dall’introduzione di Lucetta Scaraffia che in cotanto modo avvia (introduce, letteralmente) il quaderno:

Venire al mondo oggi non è un evento scontato, il cui buon esito dipende solo dalla salute della madre e del bambino. Il mondo in cui il piccolo nato deve entrare, oggi, lo può infatti rifiutare: perché è stato concepito nel momento “sbagliato”, o in una situazione “sbagliata”, oppure perché non “è venuto bene” ed è un “prodotto difettoso”.
Colpisce questa nostalgica rievocazione di una età dell’oro (anche qui, se non sbaglio era usata anche in materia di morte), magari mai esistita, questa ingenua idea che un tempo i bambini fossero accolti in un modo e in un mondo migliori, dimenticando che fino a pochi decenni or sono l’infanzia non aveva poi molta importanza, almeno nei suoi singoli costituenti. E invece per Scaraffia il male si concentra nei giorni attuali, ove la maternità è sottratta alla società per diventare esperienza personale (lo dice poche righe più giù: “un fatto squisitamente privato” – e che cosa ci sarebbe di male in questo?). Dove la scelta di interrompere una gravidanza di un feto malato è interpretata solo come egoismo, rifiuto della invisibile e sciocca imperfezione estetica. Non ci si sofferma nemmeno per due parole a pensare dal punto di vista del nascituro e della sua esistenza. Liquidando il discorso sul migliore interesse del nascituro come un pretesto per liberarsi di un sasso nella scarpa.
Quindi è la madre che, su informazione e consiglio dei medici, decide se accogliere il nuovo nato o rifiutarlo.
E che cosa bisognerebbe fare, una votazione nella pubblica piazza?
In altri tempi chi decideva (sebbene con minore o quasi nessuna consapevolezza)? Viene da rispondere: sempre la madre. Perché è lei a portare avanti una gravidanza, e da lei ne dipende l’esito.
Colpisce poi la connessione logica. La decisione della madre (premessa), la medicalizzazione della gravidanza (conclusione). Qui non si sta difendendo la medicalizzazione, ma contestando il fatto che sia un risultato del protagonismo decisionale della madre. Anche perché se fosse la donna a decidere consapevolmente di medicalizzare la propria gravidanza, non potremmo che rispettare la sua scelta. Il guaio è che spesso ciò avvenga non per sua scelta, e spesso per ragioni economiche. E questa è un’altra storia.
Proprio per questo la gravidanza e il parto hanno assunto una dimensione di medicalizzazione esasperata, in cui l’attesa non è rivolta a un figlio, ma al “figlio desiderato”, che quindi non solo deve nascere al momento voluto, ma anche corrispondere alle aspettative di chi l’ha voluto.
Da qui si avvia un ragionamento squassato dai non sequitur e dalle affermazioni quantomeno bizzarre. Per far esistere il “figlio desiderato” bisogna creare il “figlio rifiutato” (la citazione di Marcel Gauchet è usata come una clava, come principio di autorità; per questo la ignoro).
L’aborto, più ancora della contraccezione, garantisce la possibilità che nascano solo “figli desiderati” nel momento desiderato, mentre la diagnosi prenatale serve anche a eliminare i bambini malati, imperfetti, quelli che non corrispondono al desiderio.
Ancora nemmeno una parola sulle esistenze di questi figli imperfetti, che hanno malattie gravissime di cui forse Scaraffia non conosce nemmeno il nome. Altrimenti non parlerebbe di bambini imperfetti, ma di bambini disgraziati. E poi, soprattutto, non parlerebbe di bambini: la diagnosi prenatale si compie sugli embrioni e sui feti (quella di preimpianto su organismi di poche cellule, ma è roba da nazisti!). I bambini si portano dal pediatra, non si sottopongono a diagnosi prenatali.
il nostro venire al mondo e il nostro essere riconosciuti come esseri umani sono diventati dubbi e la nostra stessa appartenenza al genere umano è discussa.
Non capisce o fa finta? La nostra appartenenza al genere umano non è messa in dubbio. No. La nostra titolarità di diritti fondamentali viene discussa. La distinzione tra essere umano e persona, che è quella che permette l’espianto di organi (chi direbbe che colui da cui si espiantano gli organi non sia più un essere umano? Solo uno scriteriato. Forse Luca Volontè).
il diritto per ogni essere umano di venire al mondo.
Se tale diritto fosse sancito, le conseguenze sarebbero molto gravi. E si chiamerebbero criminalizzazione della gravidanza (ogni gesto, ogni comportamento di una donna incinta è potenzialmente lesivo del “diritto di ogni essere umano di venire al mondo”). Non parliamo della possibilità legale di interrompere una gravidanza. Ma poi anche di ricorrere alla contraccezione o di non passare tutto il giorno a praticare attività riproduttive. Se ogni essere umano ha il diritto di venire al mondo, ce l’ha anche l’essere umano non ancora concepito. Quello potenziale. Quello omesso da un mancato rapporto sessuale o da una pillola contraccettiva.
E ci pongono di fronte a un problema morale cruciale: è giusto impedire la venuta al mondo di neonati malati, di esseri umani dei quali si può fondatamente ipotizzare una cattiva “qualità della vita” futura? Naturalmente, noi rispondiamo che non esiste vita “indegna di essere vissuta”, e che a questo si dovrebbero ispirare i medici che devono intervenire nelle situazioni controverse. Ma senza cadere nell’errore opposto, quello che possiamo chiamare “accanimento terapeutico”.
La diagnosi prenatale, da strumento prezioso per prevenire e guarire malattie, si può trasformare in elemento disumanizzante della gravidanza (Duden) o in strumento di selezione (Romano, Di Pietro e Serebovska, Noia).
Naturalmente. Se non esistesse una vita indegna di essere vissuta, l’accanimento terapeutico non esisterebbe. Forse bisognerebbe prendere una decisione, e poi cercare di essere coerenti. Aspettiamo con ansia le trattazioni specifiche così come preannunciato da Scaraffia.

mercoledì 31 gennaio 2007

Il Quaderno di Scienza e Vita: “Né accanimento, né eutanasia” 1

Scienza e Vita ha pubblicato nel novembre 2006 il primo quaderno (ce ne aspettiamo altri dal momento che la sezione di intitola “Quaderni”) sull’eutanasia dal titolo Né accanimento, né eutanasia (hanno sbagliato l’accento sul web, ma pazienza; sul pdf è corretto). È scaricabile il Pdf per chi volesse approfondire.
Io ne riporterò qualche passaggio, quando mi andrà e quando mi ricorderò. Per bilanciare il contenuto sceglierò foto non pertinenti, ma mi auguro in grado di offrire sostegno a quanti si inoltreranno nella lettura.
Dall’introduzione di Lucetta Scaraffia (pp. 7-9) si capisce che aria tira (già lo si sarebbe potuto intuire dalla provenienza del Quaderno, ma che l’analisi dei testi costituisca l’ultima parola!).
Scaraffia gonfia il petto e si abbandona a dichiarazioni d’effetto, ma spesso vacillanti. Come quando ammonisce:

sta facendosi largo una ideologia tesa sottrarre la morte alla sua “naturalità”
dimenticando di soffermarsi sulla difficoltà di definire “naturalità” (ma nemmeno ci prova) e sulla altrettanto sbavata distinzione tra naturalità e innaturalità (o artificialità). Il solito e solido argomento che identifica “naturale” con “moralmente buono” oppone molta resistenza alla resa. “Questo è naturale” – tuonano in molti intendendo dire che “questo” sia moralmente ineccepibile, ma non disdegnano di circondarsi degli aggeggi più innaturali, dal frullatore al televisore, trangugiano felici medicine innaturali e si spostano su veicoli innaturali. Quando si tratta di morte, però, la natura diventa la chiave per distinguere le scelte o le azioni immorali da quelle morali. Peccato che a prenderli sul serio molte delle persone che sollevano oggi il dilemma sull’eutanasia sarebbero morte anni fa, senza l’intervento del diabolico artificio.
Scaraffia poi se la prende con la tracotanza umana e ammonisce:
Il riconoscimento del diritto di eutanasia fa parte infatti di quella corrente ideologica che si sta affermando nella modernità secolarizzata e che vuole trasformar l’essere umano da creatura a creatore, e controllare sia il momento e le modalità della nascita sia quelli della morte.
Creatura di chi?
E in sottofondo: l’inviolabilità e la sacralità della vita umana, anche contro la volontà del diretto interessato. “Tu sei creatura – direbbe Scaraffia – non puoi pretendere di prendere decisioni autonome, chiedi al creatore”. Un po’ come un robot creato dall’uomo a sua immagine e somiglianza (mi ricorda qualcosa...). Mai sentito parlare delle 3 leggi della robotica?
E infine si conclude con l’argomento più in voga, perché fa pure storico attento e informato, e ovviamente testimonia di essere dalla parte giusta, quella contro il nazismo. Che è senza dubbio la parte giusta, ma non somiglia per niente alla parte che rifiuta la possibilità di ricorrere all’eutanasia esercitando alla propria volontà. Non somiglia alla parte che confonde la libertà con un elenco di indegni da eliminare compilato dallo Stato o da chissà chi.
Decidere che è meglio, per un essere umano, morire invece di continuare a vivere, sottende una questione – quella della “vita indegna di essere vissuta” – che si sperava chiusa per sempre con la caduta del nazismo.
Decidere che è meglio morire: può deciderlo soltanto la creatura sulla propria vita. Questo dovrebbe bastare a tracciare una differenza profonda con il nazismo. O no?

sabato 2 settembre 2006

Trentamila embrioni orfani (anche i numeri sono importanti)

Una mia dimenticanza: Lucetta Scaraffia (e molti altri nei dibattiti su Embrioni orfani: che fare?) parla di 30.000 embrioni crioconservati e abbandonati.
Ma il censimento dell’Istituto Superiore di Sanità del giugno scorso parla di numeri molto diversi: Italia. Finora censiti 2.527 embrioni “orfani”, Cellule Staminali, 23 giugno 2006.

(1-2-3-4.gif dal sito di Laura Properzi)

giovedì 31 agosto 2006

Le parole sono importanti, diceva qualcuno…

E a proposito di parole, di difesa ad oltranza dell’embrione e di cattivi argomenti, un articolo di oggi di Lucetta Scaraffia (Embrioni orfani, che fare? I cattolici si dividono, “Il Corriere della Sera”, 31 agosto 2006, p. 39) ripropone alcune delle disattenzioni lessicali e concettuali che infestano il dibattito bioetico. Prima tra tutte la sovrapposizione tra essere umano e persona (o tra vita personale e vita umana). Termine descrittivo, il primo, che chiarisce l’appartenenza di un individuo a una determinata specie; termine morale, il secondo, che attribuisce ad un individuo alcuni diritti in base a determinate proprietà.
Scaraffia definisce come poco felice l’aggettivo residuale per denotare quegli embrioni crioconservati che tanto scandalo hanno suscitato in questi mesi. E preferisce chiamarli ‘abbandonati’ dai genitori che hanno intrapreso la fecondazione artificiale (abbandonati, si badi, così come adottabili sono termini che nel senso pieno si riferiscono alle persone. Come sostiene George Lakoff le scelte lessicali nascondono scelte concettuali precise). Riportando il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sull’adottabilità di questi embrioni, Scaraffia ne mutua le imprecisioni: l’adozione per la nascita (così il CNB) “non solo salverebbe delle vite umane, ma sottolineerebbe, dal punto di vista giuridico e simbolico, lo statuto di vita umana degli embrioni, rendendo più difficile, se non impossibile, il loro utilizzo a fini di ricerca”. E prosegue: “Come ha sottolineato D’Agostino nella presentazione del documento «il diritto alla nascita non può che prevalere su ogni considerazione etica e giuridica in senso contrario»”.
Naturalmente, Scaraffia non si prende il disturbo di giustificare simili affermazioni, dando per scontata una serie di premesse che invece dovrebbero essere discusse: l’equivalenza di essere umano e persona, appunto, l’attribuzione dei diritti fondamentali e le ragioni di tale attribuzione.
“Confermare l’identità di esseri umani” agli embrioni è superfluo: chi negherebbe loro l’appartenenza alla nostra specie? Come è possibile convincere Scaraffia e compagni che la questione centrale non è assolutamente questa? È malafede o ignoranza? Oppure distrazione?
Ah, D’Agostino, cara Scaraffia, è ex presidente del CNB, scaduto il 12 giungo scorso e non ancora rinnovato. Mi si perdoni la pedanteria, ma è importante essere precisi, soprattutto se il parere di D’Agostino è usato come una spada per tagliare i dilemmi. Non che l’argomento di autorità funzionerebbe meglio se il presidente fosse ancora in carica…
La difesa dell’essere umano, pertanto, è espressione vaga e imprecisa. Chissà che non faccia comodo non diradare l’approssimazione, perché a parlare di ‘persona’ ci si complica la vita (umana?).
Il secondo autorevole parere riportato da Scaraffia è quello di Adriano Pessina, che partendo dalla coincidenza di madre con gestante e partoriente (davvero, Pessina, la maternità si riduce ai dati biologici e materiali quali la gestazione e il parto? Bistrattato amore materno...), giunge a una conclusione molto diversa dall’adozione. Gli embrioni prima del trasferimento in utero “non si capisce di chi siano figli (verrebbe da chierere: e allora?). Egli [Pessina] va alla radice del problema, che sta nel «significato proprio, antropologico e, quindi, simbolico e non solo funzionale, della procreazione umana e dell’identità femminile» che consiste in un processo unitario: «La procreazione umana, infatti, non è soltanto l’atto sessuale, o la fecondazione, oppure la gestazione o il parto (…) la procreazione è quel processo unitario che lega in una relazione esistenziale, morale e corporea, un padre, una madre e un figlio»”.
In base a questo l’adozione degli embrioni ‘abbandonati’ sarebbe insoddisfacente, perché spezzetterebbe questo processo. Viene da domandare: che male c’è? O meglio, è necessariamente un male? Adottare quegli embrioni sarebbe una legittimazione della frantumazione del processo di maternità, secondo Pessina. Non va bene, meglio la loro morte (!!). Meglio considerare “la loro esistenza nel ghiaccio come una sorta di accanimento terapeutico, che si può interrompere staccando la spina”. Si può, o si deve? E perché si può staccare la spina agli embrioni, e non agli adulti (dobbiamo ricordare per tutti il caso di Eluana Englaro?)? Ma soprattutto, non dovevano essere salvaguardati e difesi gli embrioni-persone? La frantumazione del processo di maternità legittima un omicidio, secondo Pessina? Attenzione: se è legittimo staccare la spina per gli embrioni-persona, perché non sarebbe legittimo staccare la spina per quei figli (quelli già nati e cresciuti, per intendersi) le cui figure parentali sono frantumate? L’esistenza finisce per avere meno valore della compattezza della procreazione umana. Ben grottesco esito!