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giovedì 15 novembre 2012

Sulla diagnosi genetica di preimpianto (legge 40/2004)

TRIBUNALE DI CAGLIARI
Ordinanza 9 novembre 2012 G.I. Giorgio Latti
Ricorrenti
Avv.ti Filomena Gallo e Angelo Calandrini domiciliati
presso Studio legale Avv. Renato Chiesa

Struttura dell’ordinanza

Fatto:
I coniugi di Cagliari risultano rispettivamente lei affetta da talassemia major e lui portatore sano di talassemia major. Nell’agosto del 2011 la coppia, entrambi infertili ma desiderosi di avere un figlio, si rivolgono all’Ospedale Microcitemico di Cagliari - Servizio di Ostetricia e Ginecologia, richiedendo diagnosi genetica pre-impianto (PGD) nell’ambito di procedura di procreazione medicalmente assistita (PMA) al fine di poter conoscere lo stato di salute dell’embrione ai sensi della L. 40/2004.
Il Dott. G. Monni responsabile del centro di PMA, rilevato che “La Struttura Complessa di Ostetricia e Ginecologia è in grado, come nel passato per aver eseguito oltre 40 PGD, di offrire alla coppia la PGD (fertilizzazione in vitro, prelievo dall’embrione di una singola cellula per l’analisi molecolare) ma non l’analisi molecolare di tale cellula.” precisava che “Fino al 2004, la singola cellula prelevata dall’embrione veniva consegnata per l’analisi genetica al Laboratorio di Genetica Molecolare della 2° Clinica Pediatrica del presidio Microcitemico”, dichiara disponibilità ad eseguire la proceduta FIVET e la biopsia della singola cellula prelevata da consegnare successivamente al Laboratorio di Genetica Molecolare. Tuttavia con lettera del 1/12/2011, il responsabile della II Clinica Pediatrica della suddetta struttura sanitaria, Dr. Galanello, attesta che nei laboratori della Clinica non si esegue la PGD.
Il diniego effettuato dal responsabile del laboratorio, che fino al 2004 aveva effettuato numerose indagini genetiche sull’embrione per la Talassemia, risulta del tutto illegittimo oltre che gravemente lesivo dei diritti costituzionalmente garantiti dei nostri assistiti.
Pertanto la coppia si rivolge al Tribunale di Cagliari per chiedere l’esecuzione dell’indagine richiesta e prevista dalla legge 40 art. 14 c. 5, affinché sia ordinato al laboratorio di Citogenetica dell’Ospedale Microcitemico l’esecuzione dell’indagine e/o all’azienda sanitaria la non interruzione del servizio anche tramite idonee convenzioni esterne.

Premessa all’azione:

riconoscimento della vigenza e della fondatezza nell’ordinamento italiano dei diritti asseriti dalla ricorrente:
1) tutela diritto salute della donna; 2) tutela diritto all’informazione nel trattamento sanitario; 3) tutela diritto alla procreazione cosciente e responsabile; 4) tutela del diritto alla salute.

Applicazione di Diagnosi genetica di pre impianto (PDG)
Disciplina applicabile :
art. 13 L. 40/04 c. 2, consente indagini diagnostiche sull’embrione;
art. 14 L. 40/04 c. 5, rapporti tra coppia e embrione in virtù del rispetto del diritto al trattamento sanitario informato, alla procreazione cosciente e responsabile al diritto a conoscere lo stato di salute dell’embrione prodotto;
art. 6 L. 40/04, “prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, il medico informa in maniera dettagliata i soggetti (...) sui metodi sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l'uomo e per il nascituro (.....) nei confronti della donna e dell'uomo devono essere fornite per ciascuna delle tecniche applicate e in modo tale da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa”.
L. 194/78, richiamata ai cc. 1 e 4 dell’art. 14 L. 40/04, afferma il diritto alla procreazione cosciente e responsabile rectius la possibilità di praticare l’IGV entro i primi 3 m o anche dopo ove fosse assunta una informazione attraverso le tecniche dell’amniocentesi e/o della villocentesi;
Convenzione di Oviedo del giugno 1996, ratificata con la l. n. 145 del 2001, all’art. 12 prevede che “Si potrà procedere a dei test volti a prevedere delle malattie genetiche o che permettano l'identificazione del soggetto come portatore di un gene responsabile di una malattia o di rilevare una predisposizione o una suscettibilità genetica ad una malattia solo a fini medici o di ricerca medica e con riserva di un consiglio genetico adeguato”;
- Sentenze Corte Costituzionale varie a partire da Sent. 27/75 e da ultimo sentenza 151/09: tutela della salute fisica e psicologica della madre è preminente rispetto a quella dell’embrione;
Decisioni sulla liceità della Diagnosi reimpianto Tribunali Cagliari 2007 - Firenze 2007 - Tar Lazio 2008 - Firenze 2008 - Bologna 2009 - Salerno gennaio e luglio 2010 - Corte EDU 2012.

Motivazione e dispositivo

Il Giudice Latti conferma la liceità della diagnosi preimpianto rigettando tutte le eccezioni formulate dall’azienda ospedaliera. Scrive nelle motivazioni: “Considerata l’evoluzione giurisprudenziale sopra richiamata, non vi è dubbio che la diagnosi genetica preimpianto debba considerarsi pienamente ammissibile, al fine di assicurare la compatibilità della legge n. 40 del 2004 con i principi del nostro ordinamento giuridico.”
Continua nelle motivazioni:
Deve essere, ancora una volta, ribadito, anche alla luce dei principi richiamati dalla giurisprudenza della Corte, come, nell'impianto della legge, la salute della donna prevalga sull’interesse alla integrità dell’embrione.
Pertanto, l’ammissibilità del trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani della patologia non è eventualmente funzionale ad un ipotetico “diritto al figlio sano” ovvero a pratiche eugenetiche, le quali sono decisamente differenti rispetto alla fattispecie in esame, in cui sono, invece, rilevanti la sussistenza di un grave pericolo per la salute psico-fisica della donna, anche in relazione ad importanti anomalie del concepito, e la decisione della donna di valutare gli effetti della malattia dell’embrione sulla sua salute, analogamente a quanto avviene per l'aborto, in cui la decisione è rimessa, alle condizioni previste, soltanto alla responsabilità della donna (cfr. Corte cost. ord. num. 76 del 07/03/1996; n. 389 del 23/03/1988).”
Il Giudice Latti inoltre richiamando la recente decisione della Corte EDU in materia di accesso alla diagnosi preimpianto tramite l’accesso a tecniche di PMA, che condanna l’Italia per violazione dell’art. 8 della Carta EDU fa un importante richiamo alla verifica della possibilità di un orientamento conforme, testualmente” secondo quanto ribadito dalla nostra Corte costituzionale nella citata sentenza n. 80/2011, qualora si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, poiché le norme della CEDU integrano, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali”, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione”.

COMMENTO

Per la prima volta dall’entrata in vigore della legge 40/04, un giudice in materia di fecondazione assistita ordina ad una struttura pubblica di eseguire una tecnica diagnostica anche tramite il ricorso ad altre strutture sanitarie, come avviene di fatto per altri tipi di indagini.

In tal modo è sancito che non c’è differenza tra struttura pubblica e privata in affermazione del principio di equità nell’accesso alle cure.

In Italia, attualmente esistono 357 centri di fecondazione medicalmente assistita attivi. Di questi i centri che applicano tecniche in vitro quindi di secondo e terzo livello sono 202 e, nello specifico di questi 76 svolgono servizio pubblico e 22 servizio privato convenzionato, i rimanenti 104 offrono servizio privato ( fonte Registro Nazionale della Procreazione Medicalmente Assistita).
I centri pubblici non eseguono tecniche di PGD.
Il giudice di Cagliari rigetta tutte le eccezioni formulate dall’azienda ospedaliera del Microcitemico di Cagliari, precisando:

- la preminenza dell’interesse alla salute della donna rispetto a quello allo sviluppo dell’embrione;
- la liceità dell’accertamento diagnostico;
- la procreazione medicalmente assistita come trattamento medico,
- il diritto a ricevere una completa informativa funzionale ad una procreazione libera e consapevole;
In uno il G.I. ha così deciso:

per questi motivi

su parere conforme del pubblico ministero,
- in accoglimento del ricorso, accerta il diritto di XXXX e XXXXXX, ad ottenere, nell’ambito dell’intervento di procreazione medicalmente assistita, l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni e il trasferimento in utero della Sig.ra XXXXX solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie da cui gli stessi ricorrenti risultano affetti;
- dispone che la Azienda sanitaria locale di Cagliari e l’Ospedale Regionale per le Microcitemie di Cagliari, in persona del legale rappresentante, esegua, nell’ambito dell’intervento di procreazione medicalmente assistita, l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni e trasferisca in utero della Sig.ra XXXXX, qualora da lei richiesto, solo gli embrioni sani o portatori sani delle patologie da cui gli stessi ricorrenti risultano affetti, mediante le metodologie previste in base alla scienza medica e con crioconservazione degli ulteriori embrioni;
- dispone che, qualora la struttura sanitaria pubblica dovesse trovarsi nell'impossibilità di erogare la prestazione sanitaria tempestivamente in forma diretta, tale prestazione possa essere erogata in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture sanitarie;
- dichiara l’inammissibilità degli interventi in giudizio delle Associazioni Cerco un Bimbo, Amica Cicogna Onlus e Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.

In corso la conferenza stampa dell’Associazione Luca Coscioni.

martedì 28 agosto 2012

La Corte europea sulla legge 40

Ban preventing couple of healthy carriers of genetic disease from screening embryos for in vitro fertilisation violated their right to respect for their private and family life

In today’s Chamber judgment in the case of Costa and Pavan v. Italy (application no. 54270/10), which is not final, the European Court of Human Rights held, unanimously, that there had been: a violation of Article 8 (right to respect for private and family life) of the European Convention on Human Rights.
The case concerned an Italian couple who are healthy carriers of cystic fibrosis and wanted, with the help of medically-assisted procreation and genetic screening, to avoid transmitting the disease to their offspring.
The Court noted the inconsistency in Italian law that denied the couple access to embryo screening but authorised medically-assisted termination of pregnancy if the foetus showed symptoms of the same disease. The Court concluded that the interference with the applicants’ right to respect for their private and family life was disproportionate.

[...]

Decision of the Court

Article 8

The Court considered that the applicants’ desire to resort to medically-assisted procreation and PID in order to have a baby that did not suffer from cystic fibrosis was a form of expression of their private and family life that fell within the scope of Article 8.
The fact that the law did not allow them to proceed in this manner therefore amounted to an interference with their right to respect for their private and family life which was “in accordance with the law” and pursued the legitimate aims of protecting morals and the rights and freedoms of others.
The Italian Government justified this interference by the need to protect the health of the mother and child and the dignity and freedom of conscience of the medical professions, and to avoid the risk of eugenic abuses. The Court observed first of all that the notions of “embryo” and “child” must not be confused. It could not see how, in the event that the foetus proved to have the disease, a medically-assisted abortion could be reconciled with the Government’s justifications, considering, among other things, the consequences of such a procedure for both the foetus and the parents, particularly the
mother.

The Court stressed the difference between this case, which concerned PID and homologous insemination, and that of S.H. v. Austria, which concerned access to donor insemination. Furthermore, although the question of access to PID raised delicate issues of a moral and ethical nature, the legislative choices made by Parliament in the matter did not elude the Court’s supervision. The Court noted that of the 32 Council of Europe member States whose legislation it examined, PID was only prohibited in Italy, Austria and Switzerland (regulated access to PID was currently being examined in Switzerland).
The Court observed that the inconsistency in Italian law – prohibiting the implantation of only those embryos which were healthy, but authorising the abortion of foetuses which showed symptoms of the disease – left the applicants only one choice, which brought anxiety and suffering: starting a pregnancy by natural means and terminating it if prenatal tests showed the foetus to have the disease. The Court accordingly considered that the interference with the applicants’ right to respect for their private and family life was disproportionate, in breach of Article 8.

Article 14
Discrimination, within the meaning of Article 14, meant treating persons in similar situations differently without an objective and reasonable justification. Here the Court noted that, where access to PID was concerned, couples in which the man was infected with a sexually transmissible disease were not treated differently to the applicants, as the prohibition applied to all categories of people. This part of the application was therefore rejected as being manifestly ill-founded.

Il comunicato è qui.

mercoledì 20 gennaio 2010

I trucchetti della Roccella

Eugenia Roccella torna, per rispondere ad alcuni critici, sulla vicenda della sentenza del Tribunale di Salerno, che ha consentito la diagnosi di preimpianto a una coppia portatrice di una gravissima patologia genetica («I finiani mi accusano senza conoscere la realtà», Il Giornale, 19 gennaio 2010, p. 4); e così facendo ricorre al suo consueto arsenale di trucchi volgari. Vediamo quali.

L’eugenetica è sempre stata introdotta «a fin di bene», motivandola con la pietà e con la necessità di eliminare il dolore. È qui che si inserisce la nuova utopia scientista che, sostituendosi alle grandi utopie sociali del secolo scorso, promette ancora un uomo nuovo, e ci illude che la sofferenza, la malattia, l’imperfezione, l’ingiustizia del caso, si possano sconfiggere e abolire. […] Ha fatto bene Giorgio Israel, sul Giornale di sabato scorso, a sottolineare come sia antiscientifico attribuire alla medicina uno statuto di scienza indiscutibile, in grado di offrire certezze.
È la vecchia tecnica dell’uomo di paglia: attribuire ai propri avversari idee che quelli non hanno mai avuto, al solo scopo di confutarli meglio. La diagnosi genetica di preimpianto – come tutte le tecniche biomediche – non offre certezze ma solo probabilità; non si propone di abolire la sofferenza ma di diminuirla. E nulla vieta di rivendicare un diritto anche se il suo godimento è soltanto probabile: il fatto che potrebbe in teoria morire prima di raggiungere l’età pensionabile non priva affatto un lavoratore del diritto alla pensione. Quanto all’articolo di Giorgio Israel citato dalla Roccella, consiste in un sermone sui massimi sistemi che non cita mai una volta la concreta malattia del caso in esame (l’atrofia muscolare spinale di tipo 1): solo così l’autore può far credere che essa ricada nel novero delle patologie genetiche di cui le cause non sono ben note e la prevenzione risulta aleatoria.
Per avere conferma sul piano pratico delle acute osservazioni di Israel, basta considerare alcuni studi recenti, assai poco rassicuranti: il tasso di disabilità tra i bimbi selezionati geneticamente sembra essere uguale o addirittura maggiore di quello esistente tra i bambini non selezionati.
Qui l’inganno si fa atroce, perché la Roccella – per colpa o per dolo – dà informazioni fuorvianti su un tema attinente alla salute; cosa già grave di per sé, ma doppiamente grave per chi come lei riveste un ruolo istituzionale.
La diagnosi genetica di preimpianto si effettua prelevando e analizzando una delle cellule dell’embrione, quando questo ne conta ancora molto poche (in genere otto o poco più). L’operazione sembra priva di conseguenze: statisticamente, le anomalie congenite sviluppate da embrioni sottoposti a questa diagnosi non eccedono quelle degli altri embrioni concepiti in vitro (che poi questi ultimi abbiano a loro volta più anomalie degli embrioni normali è un argomento dibattuto – ricordiamo comunque che l’alternativa per questi bambini è di non esistere – ma qui ci interessa solo la diagnosi preimpianto). Alcuni studi hanno rivelato un leggero aumento di anomalie, ma è chiaro che in ogni caso il gioco vale la candela: nel caso dell’atrofia muscolare spinale di tipo 1 la probabilità di due portatori sani di avere un bambino affetto da una malattia che lo porterà a una morte certa entro il primo anno di vita è del 25%, ben superiore in media a qualsiasi danno (magari lieve) possa derivare dalla diagnosi genetica, ammesso che ne produca.
Questi sono i fatti; ora vediamo che versione ne dà la Roccella. Se leggiamo attentamente le sue parole, scopriamo con stupore che in realtà non sta dicendo niente di diverso: «il tasso di disabilità tra i bimbi selezionati geneticamente sembra essere uguale o addirittura maggiore di quello esistente tra i bambini non selezionati». Ma allora perché mai questi dati dovrebbero essere «assai poco rassicuranti»? Se il tasso di disabilità è uguale a quello dei bambini non «selezionati» vuol dire che la selezione non presenta controindicazioni! L’equivoco in cui la Roccella è caduta – o cerca di farci cadere – consiste con ogni probabilità nel termine di paragone: per lei, i bambini non «selezionati» sono quelli concepiti da genitori portatori della malattia; in questo caso la diagnosi genetica sarebbe effettivamente inutile o dannosa. Come è ovvio, invece, gli studi paragonano i bambini sottoposti alla diagnosi a tutti gli altri bambini, concepiti da genitori mediamente sani. Un fraintendimento davvero colossale.
La Roccella passa poi a prendersela con Sofia Ventura, rea di averla criticata su FfWebMagazine, il periodico online della fondazione finiana FareFuturo («Quanto non ci piace la “destra paternalista”», 18 gennaio):
La Ventura conviene che il diritto al figlio sano non può esistere, ma che deve valere la libertà di ricorrere alle tecniche secondo i propri criteri soggettivi. La libertà, però, va regolata, e se non ci fossero norme e divieti, sarebbe possibile fare un figlio a 70 anni, vendere e comprare ovociti ed embrioni, affittare uteri. Perché no? Se deve valere il mio criterio soggettivo, perché mettere limiti?
Se qualcuno «conviene» in qualcosa con Eugenia Roccella, si può essere ragionevolmente sicuri che stia sbagliando. Dire, come fa la Ventura, che esiste «la “libertà” di fare ricorso alle applicazioni della scienza» è solo un altro modo di affermare un diritto alla maternità e un diritto ad avere figli sani. Che queste cose non possano essere garantite con certezza non esclude affatto, come abbiamo già visto, che esse costituiscano dei diritti, e precisamente dei diritti negativi alla non interferenza: se esiste un medico disposto ad applicare quelle tecniche, nessuno deve interferire senza fondato motivo nel libero rapporto che si instaura fra quello e il paziente. La Roccella ricorre a questo punto all’ennesimo trucco argomentativo, quello della falsa dicotomia: o esiste una libertà sregolata e «soggettiva», o non esistono diritti esigibili. Ma dal punto di vista liberale il limite ai miei diritti esiste, anche se è uno solo, cioè quello del rispetto dei diritti altrui. Nel caso della diagnosi preimpianto questo significherebbe come minimo riconoscere all’embrione diritti pari a quelli degli altri soggetti implicati – ammesso, naturalmente, che risparmiare al concepito una morte per lento soffocamento all’età di sei mesi significhi rispettarne i diritti. Ma l’attribuzione di questi diritti non può essere data per scontata, e di fatto il nostro ordinamento giuridico non la riconosce. La Roccella abolisca la legge sull’aborto e modifichi l’art. 1 del Codice Civile, se ci riesce, e poi ne riparliamo.
E perché, soprattutto, questa distinzione tra diritto e libertà non vale per il fine vita? Ognuno di noi ha la libertà di morire, di mettere a rischio la propria vita e la propria salute. Ma tutto questo non può essere codificato in diritti esigibili. Esistono norme che impongono la cintura di sicurezza e il casco, e che vietano la vendita dei propri organi o il suicidio assistito. Insomma, sono libero di suicidarmi, ma non posso pretendere che il medico, o il Servizio sanitario nazionale, siano obbligati a garantirmi questa possibilità.
Qui emerge la consueta propensione dell’integralista alla neolingua. «Libertà», per la Roccella, non significa libertà giuridica ma mera possibilità fisica di compiere un atto: il malato terminale è libero di suicidarsi solo nel senso di avere la capacità di buttarsi dal terrazzo se nessuno è presente, ma non può chiedere a nessuno di aiutarlo a porre fine in modo più umano alle proprie sofferenze e non può nemmeno impedire che qualcuno lo blocchi e lo faccia ricoverare in manicomio. «Diritti» sono solo quelli che possiamo costringere qualcun altro ad erogarci; il libero accordo fra individui resta fuori dall’orizzonte mentale della Roccella – assieme del resto a molte, molte altre cose.

venerdì 15 gennaio 2010

Amanti della vita immaginari

Il commento migliore alla sentenza del giudice Antonio Scarpa del Tribunale di Salerno, che ha autorizzato per la prima volta in Italia la diagnosi genetica di preimpianto per una coppia fertile portatrice di una gravissima malattia ereditaria, è forse quello di Giordano Bruno Guerri, apparso ieri sul GiornaleDico no a una norma feroce che finge d’amare la natura e non ama l’essere umano», 14 gennaio 2010, p. 15). Ne riporto la parte finale:

Il caso della famiglia lombarda di cui parliamo sembra fatto apposta non per aprire una discussione – come accadrà – ma per chiuderla. La povera madre (che abbraccio), ha avuto cinque gravidanze per ottenere un solo figlio sano. Un’altra figlia è nata, e morta a sette mesi, perché la coppia è portatrice di una tremenda malattia ereditaria. L’Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1 causa la paralisi di tutta la muscolatura e porta a una dolorosissima morte per asfissia dopo una vitanonvita di agonia. È, secondo le statistiche, la più comune causa genetica di morte dei bambini nel primo anno di vita. Mia madre, che ha novant’anni, piange ancora (e non per modo di dire) una bambina che le morì a sette mesi – per polmonite – più di sessant’anni fa. Alzi la mano chi di voi è pronto a condannare quella donna e quell’uomo per avere deciso tre aborti che avrebbero portato bambini malati di quella crudeltà della natura. Se qualcuno l’ha alzata, si tratta di mani che non sono disposto a stringere, neanche appartenessero all’uomo più pio della terra. Il più buono non può esserlo di certo. Si alzeranno molte mani, piuttosto, per dire che allora quella coppia doveva rinunciare a fare altri figli, piuttosto che ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto, ovvero a selezionare gli embrioni sani. Sono mani di amanti della vita immaginari, ai quali chiedo: è meglio nascere sani o malati? Chiedo: è meglio nascere o non nascere? Chiedo: quanti feti già sviluppati, di molte settimane, subiscono un aborto – chirurgico e legalissimo – dopo un’amniocentesi? Quel bambino «selezionato geneticamente» non è un esperimento hitleriano per produrre una razza di superuomini. Gli viene garantito soltanto che sarà in grado di vivere. Che altro si vuole da lui e per lui? Che altro dolore si vuole imporre a quei due genitori che desiderano soltanto averlo e amarlo senza sofferenza? Sia data lode – la mia ammirazione senz’altro – al giudice Antonio Scarpa, che ha autorizzato la diagnosi preimpianto, smentendo una legge assurda e feroce che – fingendo di amare la natura – non ama l’essere umano.
Da leggere, sempre sul Giornale, anche l’intervento del deputato del PdL Melania Rizzoli, «Caro sottosegretario Roccella, non è reato volere dei figli sani» (15 gennaio, p. 11).

Il disegno della scienza

Marina Corradi commenta la sentenza sulla legge 40 con le solite presunte argomentazioni.
Un passaggio è particolarmente gustoso (Gli embrioni «sbagliati» sono morte data, sono lutti, Avvenire, 15 gennaio 2010):

Non è ancora figlio quel grappolo di cellule, ci diciamo per tollerare l’aborto. Ma lo sappiamo invece, e lo conferma la scienza, che a poche ore dal concepimento il disegno è già vergato, unico, non ripetibile: il disegno di quell’ uomo.
Poveretta: è evidente che non riesca proprio a comprendere quanto scienza e disegno stonino messi insieme così. Ma il dubbio è sempre lo stesso: malafede o ignoranza?

giovedì 2 aprile 2009

Ritorna la diagnosi preimpianto?

(Adnkronos/Adnkronos Salute) Roma, 2 apr. - […] la diagnosi preimpianto non è vietata nel nostro Paese, «perché il Tar del Lazio ha annullato le vecchie linee guida sulla legge 40 – ha puntualizzato Sebastiano Papandrea, avvocato del foro di Catania – fino a oggi, dopo aver conosciuto il risultato, bisognava comunque impiantare tutti e tre gli embrioni. Con la sentenza della Consulta la diagnosi potrà essere eseguita. E laddove il trasferimento degli embrioni, non per forza tre, comporti un rischio per la salute della donna, è consentita la crioconservazione, in attesa magari di terapie geniche che possano curare l’embrione o il bambino stesso una volta nato». […]

mercoledì 24 dicembre 2008

Al Foglio sono già cominciate le libagioni di Natale

Giudicate voi stessi (Giuliano Ferrara, «Indecente futuro natalizio, dalla provetta alla fiala», 22 dicembre 2008, p. 1):

Siete sicuri di quello che state facendo? Lo domando ai genitori e ai medici della bambina fabbricata senza il gene Brca1 del cancro al seno, che sta per nascere a Londra, fecondata in provetta con scarto di tre embrioni […]
Il caso singolo è quello di una famiglia esposta seriamente al rischio del cancro al seno. Decide di provarci, di assicurarsi una discendenza che quel rischio lo eviti. Invece di fare un figlio, lo concepisce in provetta e lo medica, togliendogli il gene: insomma, compie un esperimento di eugenetica. Qui l’eugenetica offre il suo volto positivo, di cura e non di selezione, di “eliminazione della diversità biologica” (per esprimermi nello stupido linguaggio della diversità politicamente corretta). Qui non si fa fuori nessuno, a parte gli embrioni scartati, non si estingue un parto a rischio buttando via il bambino (letteralmente) con l’acqua sporca, no, qui si interviene sul codice genetico e si mutano certe caratteristiche. Gli stessi medici e biologi ti dicono che facendo così non hai risolto il problema, perché quel gene, il Brca1, non è affatto l’esclusivo responsabile del cancro al seno, anzi, la maggioranza di quei tumori dipende da altri fattori tra i quali il mancato allattamento materno e la mancata gravidanza. […]
Io dico solo che quella bambina senza quel gene non è l’inveramento mitico del figlio sano, che è purtroppo soltanto una illusione; e che una società alla fine fondata su quel tipo di selezione, destinata a programmare e produrre i figli a quel modo, condensando l’amore nel probabilismo genetico di una provetta, è una società palesemente malata.
Bambina «fabbricata senza il gene Brca1»? Un figlio medicato «togliendogli il gene»? «Si interviene sul codice genetico e si mutano certe caratteristiche»? Di che sta parlando quest’uomo? Come sa chiunque sia appena appena informato in materia, le tecniche esistenti sono ben lontane dal consentire un intervento di ingegneria genetica di questo tipo (che, a essere un pochino pedanti, non consisterebbe nel «togliere il gene» – così otterresti solo un embrione morto – ma nel correggere una mutazione di quello stesso gene). L’intervento è stato di pura e semplice selezione di embrioni – quella tanto aborrita da Ferrara. Basta un’occhiata alla stampa seria, come il Telegraph (Kate Devlin, «Baby selected to be free from breast cancer gene», 19 dicembre). L’equivoco, come documentava Ivo Silvestro qualche giorno fa («Geneticamente modificato?», L’Estinto, 20 dicembre), sembra essere nato in Italia. Da notare comunque che Ferrara, contraddittoriamente, dopo aver opposto il fantomatico intervento di ingegneria genetica alla selezione embrionaria torni a parlare qualche riga dopo di «una società alla fine fondata su quel tipo di selezione».
Paradossale anche il considerare l’espressione «eliminazione della diversità biologica» come un esempio dello «stupido linguaggio della diversità politicamente corretta»: il politically correct, a quanto ne so, consiste nell’esaltazione della diversità, non in quella dell’eliminazione della diversità...
I problemi diventano più seri quando Ferrara attacca a sostenere che «quel gene, il Brca1, non è affatto l’esclusivo responsabile del cancro al seno, anzi, la maggioranza di quei tumori dipende da altri fattori». Come già abbiamo avuto modo di notare su Bioetica (il lettore riesce a indovinare a quale altro quotidiano ci riferivamo in quell’occasione?), c’è qui un’incresciosa confusione fra il rischio calcolato sulla popolazione in generale – a cui in effetti il gene BRCA1 contribuisce in maniera abbastanza limitata – e il rischio per il singolo affetto dalla mutazione, oscillante fra il 46% e l’87%: che non è affatto poco. Chi non si fida dei calcoli è invitato a chiedersi se gli sembra normale quello che è successo nella famiglia del padre del bambino di cui stiamo parlando (il portatore della mutazione): tre generazioni di donne che hanno sviluppato il cancro al seno prima dei vent’anni di età, fra cui la madre, la sorella, una nonna e una cugina. Non basta non avere figli o non allattarli per raggiungere questi livelli di rischio, credetemi.
Infine, possiamo essere d’accordo su una cosa con Ferrara: «che quella bambina senza quel gene non è l’inveramento mitico del figlio sano, che è purtroppo soltanto una illusione». Naturalmente, l’unico a farsi quell’illusione è lo stesso Ferrara, dato che non risulta che quei genitori e quei medici abbiano mai voluto ottenere «inveramenti mitici»: si sono limitati a cercare un figlio più sano, non un figlio assolutamente sano. C’è una certa differenza fra le due cose.

Ora, dobbiamo forse pensare che il direttore del Foglio possa dedicare un lungo commento a un evento che non si è mai verificato nei termini riportati, solo perché non è stato in grado di controllare un giornale in inglese e si è fidato invece di qualche sgangherata agenzia nostrana? Che in tutta la redazione del Foglio – i mitici Foglianti! – non ci sia uno straccio di redattore scientifico che possa allertare il Direttore su uno sfondone come questo? Che l’intelligentissimo Ferrara, oltre a dissertare di cose che non conosce e sulle quali non ha sentito il bisogno di informarsi, riesca pure a scrivere enunciati contraddittori nell’arco di poche righe e a proporre bizzarre notazioni linguistiche? Che fornisca con disarmante irresponsabilità informazioni fuorvianti su patologie gravissime, sminuendo implicitamente le tragedie di molte famiglie? E che alla fine di tutto ciò proponga anche un bel sermoncino grondante odio contro nemici fabbricati da lui stesso?
Io non posso credere a tutto questo. Mi rifiuto. Beh, magari facciamo un’eccezione per l’ultima accusa. Per il resto, credo più banalmente che al Foglio abbiano cominciato i festeggiamenti natalizi con un po’ in anticipo; qualcuno deve aver ecceduto con le libagioni – si sa come vanno queste cose, specie quando si festeggia la ricorrenza dell’evento fondante dell’Occidente giudaico-cristiano-sanamente-laico-ateo-clericale (uhm, forse giudaico è di troppo, in questo caso?). Un po’ di comprensione, insomma: sono incidenti che capitano. E tanti sinceri auguri di buon Natale al Foglio, al suo Direttore e ai Foglianti tutti quanti da parte di Bioetica!

martedì 11 novembre 2008

Lucetta sul Corriere della Sera

Baby

Grazie alla selezione dell’ovocita materno, veniamo a sapere dai giornali, è nata una bambina “sana, libera dalla grave malattia che rischiava di ereditare dalla madre”. Si tratta di una bimba “politicamente corretta”, scrive la Stampa, perché “non c’è stata quell’indagine sull’embrione che fa accapponare la pelle al mondo cattolico”. Certo, si può ben comprendere la felicità e il sollievo dei genitori. Tutto bene allora? Non direi. Infatti, se proviamo a guardare la cosa con un occhio meno limitato ai desideri umani, vediamo che si tratta anche in questo caso di una selezione che rischia di aprire le porte ad una mentalità eugenetica. Anche in questo caso, quindi, il progresso tecno-scientifico ci impone di riflettere sul senso delle conseguenze che comporta, cioè di ciò che troveremo davanti a noi. “La risposta ci porrà di fronte a una decisione – scrive il filosofo Romano Guardini – e io non so ciò che in essa prevarrà: se il fatto in se stesso con la sua inevitabilità e coercizione, oppure l’intelligenza e la nostra capacità di dominare le cose”.
Questo è quanto scrive oggi Lucetta Scaraffia sul Corriere della Sera – che se uno non lo sapesse penserebbe che è frutto di un generatore casuale di parole e frasi dal senso solo apparente. Anzi, di nessun senso nemmeno apparente.
Siccome il principio di autorità (persone o quotidiani che siano) non è un argomento solido il giudizio, però, non può che rimanere di insensatezza. Anzi di stupefacente insensatezza.
Verrebbe da chiederle: “Lucetta cara, ma cosa vai blaterando? Hai dormito male? O ti stai prendendo giuoco di noi?”. Ecco, forse questa è la chiave. Lei scherza, e noi la prendiamo sul serio.
Cerchiamo di venirne a capo: è nata una bambina, è sana, i genitori sono felici, e addirittura i cattolici perché non hanno fatto la diagnosi genetica di preimpianto. Cosa diavolo ci sarebbe che non va?
Lucetta si limita a negare che sia tutto a posto, senza portare alcun argomento e considerandoci più intelligenti di quanto non siamo. Perché non si capisce la ragione per cui non va bene. Quale sarebbe “un occhio meno limitato ai desideri umani”? E poi se “rischia di aprire le porte” significa forse che per ora sono ancora chiuse? Non solo non ci dice il perché, ma sembra che soltanto il rischio di aprire alla eugenetica sia sufficiente per condannare e magari per vietare per legge.
Inutile ribadire per l’ennesima volta che dietro alla parola “eugenetica” ci sono una serie di imprecisioni – e stupisce, da parte di una storica, tanta superficialità. Che giochi appositamente su tale terreno insidioso?
Ma vediamo di chiarire almeno qualche pensiero sull’eugenetica, usata come una clava contro le tecniche di procreazione assistita o il “progresso tecno-scientifico” in generale.
Il richiamo è sbagliato storicamente e scorretto concettualmente, perché il sottinteso è che “eugenetica” sia quella politica razziale nazista che eliminava quanti non corrispondevano ad un certo standard. Ma quella eugenetica non ha nulla a che fare con le possibilità che la scienza oggi offre – e che potremmo chiamare manipolazione genetica migliorativa per liberarci del peso dei ricordi.
L’eugenetica della politica nazista di miglioramento della razza, e di quel movimento eugenetico che si sviluppa alla fine dell’ottocento e si diffonde in Paesi insospettabili come Inghilterra e Stati Uniti, è giustamente condannata. Seppure in contesti molto dissimili, lo scopo comune dell’ideologia eugenetica consisteva nel “migliorare” la razza, attraverso l’eliminazione di tutti gli elementi difettosi: mascalzoni, prostitute, criminali, ma anche insufficienti mentali, pazzi, poveri o appartenenti a presunte razze inferiori dovevano essere eliminati, o almeno dovevano essere cancellati dai processi riproduttivi al fine di estirpare i loro geni difettosi. Il fantasma dell’eugenetica nazista è ben conosciuto; forse è meno noto quello che accadde negli Stati Uniti all’inizio del novecento. Tra il 1907 e il 1940 la caccia agli indegni (“the hunt of unfit”) causa la sterilizzazione forzata o la castrazione di migliaia di esseri umani: la maggior parte di essi erano deboli di mente, malviventi oppure considerati moralmente degenerati; 700 furono classificati come “altro”.
La differenza fra questa eugenetica e l’eugenetica attuale, però, è profonda, e l’assoluta condanna della prima non può essere trasferita, totalmente o parzialmente, sulla seconda.
Confonderle, giocare con le ambiguità è disonesto; e pericoloso.
Nel caso di questa bambina, perdipiù, non si può nemmeno tirare in ballo la questione degli embrioni sacri e inviolabili: e allora?
Il filosofo citato a conclusione spero sarà clemente con chi filosofo non è, ma non si capisce bene manco lui. Forse è una rimodernizzazione del “non so” socratico, dimenticando un pezzo, anzi due: la consapevolezza del non sapere e l’ironia.

AgoraVox Italia, 11 novembre 2008

giovedì 28 agosto 2008

Giornalismo o catechismo?

La storia è una storia a lieto fine: una coppia, Manuela e Massimo, vogliono dei figli (La cicogna porta 3 gemelli a una mamma talassemica, La Nuova Sardegna, 28 agosto 2008, di Silvia Sanna). Lei è talassemica: ricorrono alla riproduzione artificiale.

In casi del genere sarebbe consigliabile ricorrere alla diagnosi genetica di preimpianto che in Italia è vietata. Tanto per ripetere fino all’ossessione l’assurdità del divieto indigeno: la diagnosi genetica di preimpianto offre – offrirebbe – a quanti sono in condizioni simili a quella di Manuela la possibilità di non trasmettere la patologia al nascituro. Ma in Italia è stata vietata con la legge 40, poi le nuove Linee Guida hanno aperto una claustrofobica e controversa finestra; ma questa è un’altra storia. Nel pezzo di questo non si parla perché ci sono questioni più importanti e rimedi più efficaci.

Nascono 3 gemelli: devono stare un mese in incubatrice.
A lasciare sbigottiti è la ricostruzione del “viaggio della speranza” compiuto da Manuela e Massimo. Scrive Sanna:
non a spasso nei corridoi di prestigiose cliniche all’estero, semplicemente là dove ti guida l’istinto quando hai un favore importante da chiedere. Manuela e Massimo scelgono la Spagna e lei fa un voto alla Madonna della Moreneta. La Madonna nera di Montserrat deve avere ascoltato e preso nota delle sue preghiere, così oggi la prima dei tre gemelli si chiama Morena Maria. Ma c’era da ringraziare anche la santa Maria Francesca di Napoli, «quella delle gravidanze impossibili», - raccontano Massimo e Manuela. Ecco allora Francesco.
Beatrice, la terza, non ha preghiere o promesse alle spalle, ma ha un nome beneaugurante: dal latino beatrix, colei che dona la felicità.
Ognuno è libero di credere a ciò che vuole, anche alle ipotesi più inverosimili (sarebbe stato interessante mettere alla prova la fiducia nei miracoli qualora i gemelli fossero nati neri...). Sarebbe però augurabile che un giornalista non si limitasse a riportare soltanto una credenza eliminando i problemi medici e i rischi della vicenda. Lasciar intendere che se fai un voto alla Madonna il tuo desiderio di avere un figlio sarà coronato dal successo (e che se ti concentri eviterai anche il rischio di trasmettergli la patologia) è quasi criminale.
Un pezzo del genere non sfigurerebbe nelle pagine più retrive dell’Osservatore Romano. O in un articolo di Luca Volontè.
E non finisce qui: quando Sanna racconta che Manuela e Massimo hanno scelto di portare avanti la gravidanza trigemellare (“il numero perfetto”) nonostante i medici li avessero avvisati dei rischi, questi rischi vengono liquidati e ridicolizzati riportando la risposta dei futuri genitori:
«Ci siamo detti che quando un viaggio è già iniziato non puoi lasciare qualcuno per strada. Loro erano partiti in tre, e in tre dovevano arrivare al traguardo». Un accenno ai rischi di aborto, alla possibile sofferenza fetale e alle conseguenze di una nascita prematura sarebbe stato doveroso.
Non basta un voto alla Madonna; e alimentare una simile credenza è scellerato. Alla oscena legge 40 si aggiungono le superstizioni. Chissà quando si ritireranno fuori le sanguisughe o la bile nera!

(Persona e Danno, 28 agosto 2008; foto: Madonnina)

martedì 1 luglio 2008

Marina Corradi e il 5%

Avvenire interviene, per bocca di Marina Corradi, sul caso della bambina inglese che grazie alla diagnosi genetica di preimpianto (PGD) nascerà libera dal rischio di una forma ereditaria di cancro al seno («La genetica batte il cancro. Ma è solo un’illusione», 1 luglio 2008, p. 2). Uno degli argomenti usati dalla Corradi merita decisamente una chiosa:

Anche volendo tacere su quei sei embrioni prodotti ed eliminati, a noi questa storia pare sommamente non razionale. Intanto il gene di cui si parla aumenta fortemente il rischio della malattia, ma non necessariamente la induce. Per contro, i tumori di origine ereditaria sono, secondo i genetisti, appena il 5 per cento del totale; quanto al resto, incidono cause ambientali e altre, che ancora non si è riusciti a scoprire. In sostanza, tutta la complicata e spietata alchimia dell’operazione attuata a Londra – sei cancellati, quattro sospesi nel gelo in attesa di un ignoto destino, uno avviato a una gravidanza di esito purtroppo non così certo, visto che l’analisi preimpianto può produrre danni – potrà nel migliore dei casi evitare a quella bambina “quel” tipo di cancro. Rimarrà, come per ogni essere umano che nasce, aperta la infinita gamma di “altri” cancri e altre malattie.
È come, vivendo in un castello che abbia cento porte, arrovellarsi per sbarrarne una sola, sopprimendo, a questo scopo, anche delle vite umane. E le altre novantanove? L’aver sbarrato quell’una ci garantisce forse dai nemici appostati appena fuori dagli altro cento ingressi?
Quel «5 per cento» buttato lì sembra, seppur confusamente, voler corroborare la successiva valutazione dell’esiguità del vantaggio conseguito nel caso particolare. Supponiamo ottimisticamente di eliminare per intero – grazie alla PGD o anche ad altre tecniche – quel 5% di casi ereditari: rimarrebbe pur sempre il restante 95%. Questo, pare di capire, è quello che Marina Corradi sta tentando di comunicarci. Ma in questo modo stiamo valutando l’efficacia della tecnica in termini di politica sanitaria complessiva, da un punto di vista per il quale può risultare razionale allocare certe risorse in un certo modo piuttosto che in un altro, allo scopo di ottenere un migliore risultato globale; e perdiamo di vista quello che l’intervento significa per i singoli: per quella bambina e la sua famiglia. Senonché pare proprio che la Corradi si stia rivolgendo ai genitori della bambina, visto che nel seguito scrive cose come «avrà pensato quella madre a quante incognite minacciano la vita di ogni uomo che nasce?», «Sembrano avere, quei genitori, concentrato tutte le loro paure su un conosciuto nemico; senza osare andar oltre».
Qual è, allora, l’efficacia della PGD dal punto di vista individuale? In questo caso è stata valutata la presenza della forma mutante del gene BRCA1. Fra i portatori del gene malato il rischio di sviluppare il cancro al seno nel corso della vita è estremamente variabile, a seconda del particolare gruppo da cui provengono: le stime pubblicate vanno da un minimo del 46% a un massimo dell’87% di probabilità (rischio complessivo entro l’età di 70 anni). Il massimo delle probabilità (85-87%) si verifica fra portatori del gene mutato che provengono da famiglie con casi multipli di cancro al seno; la ragione risiede molto probabilmente nella presenza di altre mutazioni, ancora ignote, che agiscono di concerto con BRCA1 (per tutti i dati cfr. A. Antoniou et al., «Average Risks of Breast and Ovarian Cancer Associated with BRCA1 or BRCA2 Mutations Detected in Case Series Unselected for Family History: A Combined Analysis of 22 Studies», The American Journal of Human Genetics 72, 2003, pp. 1117-30). Ma la famiglia inglese di cui si parla è proprio una di quelle più a rischio, per cui dovremo prendere in considerazione la cifra massima. Il termine di paragone è costituito dalla probabilità di sviluppare la forma non ereditaria di cancro al seno nel corso della vita; anche qui il rischio è estremamente variabile, a seconda delle popolazioni umane in cui si riscontra. Adottiamo come approssimazione migliore il rischio globale nel Regno Unito, che è del 9,4% (fonte: P.D.P. Pharoah et al., «Polygenes, Risk Prediction, and Targeted Prevention of Breast Cancer», New England Journal of Medicine 358, 2008, pp. 2796-803). Il calcolo della riduzione del rischio rispetto al concepimento naturale è leggermente complicato (bisogna mettere in conto l’eterozigosità di uno dei genitori rispetto al gene mutante, la probabilità che una figlia senza mutazione sviluppi comunque il cancro, il tasso di errori della tecnica, etc.). La mia valutazione è una riduzione di cinque volte del rischio; sarebbe interessante sapere se per Marina Corradi è poca anche questa. E non stiamo prendendo in considerazione l’aumento del rischio di cancro alle ovaie che il mutante BRCA1 causa nelle donne e di cancro alla prostata negli uomini; l’aumento sproporzionato di cancro al seno in giovane età; l’angoscia di chi possiede una copia del gene mutante, anche se non svilupperà mai la malattia. Cosa ancora più importante, non stiamo considerando che con la PGD si riduce drasticamente il rischio anche per tutte le generazioni successive (salvo mutazioni insorte indipendentemente), in quanto il gene difettoso viene eliminato dalla linea di trasmissione, risparmiando analoghe future ordalie.

Sulle ulteriori argomentazioni della Corradi, che in sostanza sostiene che è inutile prevenire alcune malattie visto che non le possiamo prevenire tutte, lascio la risposta ad Azioneparallela (e a quella più colorita di Malvino, che si è occupato di dichiarazioni analoghe di Bruno Dallapiccola).

mercoledì 21 maggio 2008

Solo l’Europa può salvarci dalla legge 40/04

Conferenza stampa del 23 maggio 2008, ore 11.30
Sala della Stampa Estera, via dell’Umiltà 83/C

La legge 40/2004 viola il diritto alla salute, il diritto alla salute riproduttiva e all’equità di trattamenti sanitari che dovrebbero essere garantiti a tutti i cittadini europei (indipendentemente dallo Stato membro di residenza o in cui si richiede la prestazione).
Le violazioni di tali diritti emergono con evidenza dalle relazioni sugli effetti della legge 40/04 presentate al Parlamento: le conseguenze dell’applicazione di una norma dello Stato Italia sono certificate e documentate in modo ufficiale.
Risulta palese la violazione di molte norme del diritto comunitario derivante: dall’esclusione di molti cittadini all’accesso delle tecniche al divieto di fecondazione eterologa; dall’impossibilità di revocare il consenso dopo la produzione degli embrioni (e non fino al momento dell’impianto come sanciscono le leggi di altri Paesi); dal limite di produzione di 3 embrioni; dal divieto di accesso per tutti coloro che desiderano una diagnosi di preimpianto non invasiva per garantire la salute della donna e del nascituro.
Durante la conferenza verranno forniti i dettagli sulle iniziative già avviate e sui requisiti necessari per avviarne.

Interventi
Coordina: Frances Mary Kennedy, giornalista
Chiara Lalli, bioeticista
Filomena Gallo, avvocato, Presidente di Amica Cicogna
I Presidenti e i Segretari delle Associazioni: Marco Cappato, Federica Casadei, Monica Soldano, Laura Pisano, Patrizia Battistini, alcuni esperti.
A seguire gli interventi di alcuni cittadini italiani discriminati dalla legge 40/04.

(seguirà comunicato stampa).

lunedì 19 maggio 2008

L’importanza della diagnosi genetica di preimpianto (intervista a Chiara Piantelli)

Chiara Piantelli è la mamma di Paolo, nato con una malattia gravissima e morto a pochi mesi. Chiara vuole un altro figlio, ma non vuole correre il rischio di avviare una gravidanza destinata ad essere interrotta in seguito ad una diagnosi infausta. Le polemiche sulla legge 40 e sulle linee guida rischiano di far dimenticare gli effetti drammatici di questa legge assurda sulle esistenze delle persone. Sulla salute delle mamme e dei nascituri.
Chiara racconta cosa è successo e cosa vorrebbe.

Sono anche io la mamma di un angelo... Vivo a Roma con mio marito ed il nostro Paolo è volato via il 4 novembre scorso a neanche 4 mesi per una SMA 1 (la forma più grave di atrofia muscolare spinale). Non accetto l’idea che la sua vita sia persa così nel nulla; sto diffondendo nel mio piccolo, a quante più persone possibile, informazioni sulla SMA in particolare e sulle malattie genetiche in generale. Vedo con piacere che c’è chi ha fatto partire un tam tam ben più ampio del mio, Fabio e Silvia. Mi associo volentieri a loro...
Il 21 luglio scorso è nato il mio primo bambino, Paolo, con un parto rapido e fantastico. Con lui abbiamo trascorso un’estate completamente incantati, chiedendoci che avremmo fatto con lui nelle varie fasi della sua vita: quando il primo passo o il primo dentino, se la sua prima parola sarebbe stata mamma o papà, che lavoro avrebbe fatto da grande... Ovviamente (?!) nella nostra fantasia di genitori Paolo sarebbe stato un bimbo prodigio e probabilmente da grande avrebbe fatto il presidente della Repubblica. La nostra preoccupazione più grande per lui era che diventasse un bimbo, poi un ragazzetto ed un uomo intelligente, simpatico, piacente...
Io e mio marito eravamo già in piena discussione: motorino sì o no, uscite serali, fino a che ora? Illusi! A settembre le nostre domande sul suo futuro sono diventate un po’ più di basso profilo....ci domandavamo, ma quando comincerà a tirare su la testolina da solo? Perché le gambine sono così moscette? Perché ha quel rantolino quando respira e ogni tanto diventa grigetto e sudato?

Qual è stata la risposta a queste domande?
Il pediatra, rivedendolo al ritorno dalle vacanze, ha capito subito che qualcosa non andava e gli ha fatto fare una visita neurologica con prelievo di sangue annesso.
I due giorni successivi, in attesa della sentenza, sono durati due mesi. Ci dicevamo che era tutto un errore, che Paolo stava benone; siamo perfino arrivati a vedergli muovere le gambe! Ma la sentenza purtroppo è arrivata, inappellabile: atrofia muscolare spinale di tipo I...
Paolo è morto per la prima volta il 14 settembre, per poi lasciarci per sempre il 4 novembre scorso. I giorni trascorsi con Paolo dopo la diagnosi sono stati di “preparazione”: abbiamo avvertito parenti e amici, lo abbiamo fatto battezzare, con l’aiuto di Chiara Mastella del Sapre di Milano (counselor sanitario sistemico, coordinatore SAPRE – Servizio Abilitazione Precoce dei Genitori), ci siamo procurati i presidi necessari per assisterlo a casa. Per nostra fortuna Paolo ha avuto bisogno di mangiare con il sondino nasogastrico solo per un paio di settimane e le sue crisi respiratorie erano brutte ma sporadiche. Perfino il giorno prima di andarsene, anche se lo aspiravamo in continuazione, era sereno. Paolo ora è il nostro angioletto, può muoversi e respirare come qui con noi non avrebbe mai potuto fare. Siamo contenti di non aver voluto per il nostro bambino alcun tipo di accanimento terapeutico e di averlo “accompagnato” cercando di farlo stare il meglio possibile fino alla fine. È stato un gran privilegio averlo conosciuto e un grande onore essere stati i suoi genitori, il suo sarà per sempre il più bel ricordo. Ma se avessimo potuto evitargli tutte le sofferenze, lo avremmo di certo fatto, anche se questo avesse significato non conoscerlo mai.

Se avessi saputo che era malato avresti abortito?
Sì perché avrei preferito che non nascesse mai, piuttosto che malato. Avrei abortito, ma soprattutto vorrei avere avuto la possibilità di scegliere ancor prima. Ecco perché è tanto importante poter effettuare la diagnosi di preimpianto. E vorrei che ci fossero più attenzione e più informazione verso le cosiddette malattie rare: in Italia c’è 1 portatore sano di SMA su 50 individui: sembra così poco? Un altro esempio: si stima che il 5% della popolazione italiana sia portatrice sana di fibrosi cistica.
Anche riguardo alla prevenzione credo si possa e si debba fare molto. Nel sito dell’Università di Udine si parla di un progetto di ricerca sulla SMA e il vicepresidente della Uildm (Unione Italiana per la Lotta alle Distrofie Muscolari) di Udine dice a proposito della SMA: “la prevenzione rimane il mezzo migliore per limitare la diffusione della malattia, non esistendo ancora una terapia efficace”. Questo vuol dire che persone ben più competenti in materia la pensano esattamente come me: vale la pena di cercare di abbattere i costi del test del portatore sano (nella fattispecie di SMA) in modo che, in termini di rapporto costi/benefici, abbia senso proporre uno screening su larga scala, perché chiunque possa sapere se è o meno portatore sano di questa orrenda malattia mortale. Perché chiunque possa consapevolmente scegliere come comportarsi se vuole avere figli.

Fare uno screening o effettuare una diagnosi prima dell’impianto eviterebbe di abortire...
Non voglio fare polemiche, ma questa è la realtà.
Psicologicamente ed emotivamente abortire per ragioni terapeutiche fa molto effetto. Devi scegliere tra il far nascere un bambino malato, spesso gravemente e destinato a morire come Paolo, oppure l’interrompere quella gravidanza tanto voluta: è una scelta impossibile! Con la diagnosi preimpianto è possibile concepire un figlio sano.
Perché mi è concesso abortire un embrione malato, mi è concesso quindi interrompere una gravidanza in queste condizioni e, invece, non mi è permesso di non avviarla?
Inoltre la diagnosi genetica di preimpianto è a mio carico, l’interruzione di gravidanza è a carico della spesa pubblica.
Se fosse consentita la diagnosi di preimpianto non ci sarebbero tanti aborti terapeutici (al di là delle polemiche suscitate dalle linee guida del 2008 soprattutto sulla questione della diagnosi di preimpianto, in Italia l’accesso alle tecniche in generale e in particolare alla diagnosi prima dell’impianto è limitato fortemente ed esclude senza valide ragioni molte persone, ndr).

Che cosa è successo dopo la morte di Paolo?
Sono rimasta incinta 2 volte e ho avuto 2 aborti: il primo aborto è stato spontaneo e l’embrione è stato espulso automaticamente (ho avuto le mestruazione dopo 2 mesi).
Il secondo aborto è stato drammatico – e non era nemmeno un aborto terapeutico perché sono andata a fare il raschiamento sapendo che non c’era niente di vivo in me (al Policlinico Gemelli, dove fanno solo i raschiamenti e non le interruzioni di gravidanza...). Immagino chi lo fa quando l’embrione, per quanto malato, è ancora vivo. La diagnosi prenatale la fai all’epoca in cui si può effettuare il bitest, che è una analisi preamniocentesi. Ti dà statisticamente il rischio di grossolane malformazioni. A quest’epoca il tuo piccolino lo vedi sullo schermo dell’ecografo già tutto bello formato, in miniatura... Bella cosa sapere di doverlo abortire perché è malato!!!

Come ti sei accorta che qualcosa non andava nella gravidanza?
Ho fatto l’ecografia alla ottava settimana; le misure del feto erano giuste, ma non c’era il battito. Alla nona o decima settimana ho fatto il raschiamento. Ti portano in sala parto; vai nella stessa sala operatoria in cui fanno i parti cesarei. Senti i vagiti dei bambini appena nati.
Dopo l’intervento ti mettono nella stanzetta per svegliarti dalla anestesia; sei vicino al letto di una donna con un bambino tra le braccia.
Volevano farmi stare una notte ricoverata, io ho firmato contro il parere medico (l’indicazione dopo il raschiamento è di passare la notte in ospedale).
Perché non si può fare la diagnosi di preimpianto? Perché l’unica alternativa è questa. Non avrei dubbi su cosa fare, ma interrompere terapeuticamente è molto doloroso. Sarebbe meglio non avviare la gravidanza, che interromperla con un figlio voluto ma malato.
Molte persone che hanno un bambino malato (perché hanno deciso di farlo nascere o perché hanno saputo della malattia dopo la nascita) criticano chi sceglie di abortire per ragioni non terapeutiche: “c’è chi vuole tanto in figlio e chi lo butta via”, dicono. Ma io ci tengo a dire che ogni persona dovrebbe poter scegliere. In ogni circostanza. Raccontare la storia drammatica di Paolo significa anche contribuire alla informazione: i bambini con la SMA muoiono neri, soffocati.
Sono fiera di essere stata sua madre, ma vederlo morire morire nero tra le mie braccia... Non avrei mai voluto che accadesse – anche se il prezzo altissimo sarebbe stato quello di non averlo conosciuto e amato.
Mio figlio aveva gli occhi azzurri ma non muoveva le gambe, aveva un naso perfetto, era bellissimo
che fortuna!, meglio un mostro cagone che un bimbo immobile. “Speriamo che non sia brutto – pensavo durante la gravidanza – che a scuola non lo prendano in giro, che non porti gli occhiali”. Non avrei mai immaginato di dover sperare che respirasse.


(Persona e Danno, 19 maggio 2008).

venerdì 25 aprile 2008

La legge 40 e la diagnosi genetica di preimpianto – la storia di Silvia e Fabio Callegari

“Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico”.
Questo afferma l’articolo 4 della legge 40 (Accesso alle tecniche). E l’articolo successivo (Requisiti soggettivi) aggiunge: “Restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
La legge 40 impone requisiti e divieti che ledono i diritti fondamentali dei cittadini riguardo alla salute e alla riproduzione. Alcune persone sono escluse del tutto perché non sterili, ma “solo” affette o portatrici di una malattia genetica o virale. Queste persone potrebbero evitare il rischio di contagiare il nascituro (nel caso di patologie virali anche il partner) se i criteri di accesso alle tecniche non fossero tanto restrittivi e se fosse permesso effettuare la diagnosi genetica di preimpianto. Altre sono costrette a subire trattamenti evitabili (come il ripetersi dei cicli di stimolazione ormonale e il prelievo chirurgico degli ovociti, conseguenza del divieto di produrre più di 3 embrioni per ogni tentativo e del divieto di crioconservarli). Per tutti la legge 40 significa spesso inasprire un problema di salute invece di risolverlo.

Silvia e Fabio Callegari hanno avuto un figlio il 5 agosto 2007. Il piccolo Pietro è morto il 22 gennaio 2008: non aveva ancora compiuto 6 mesi. Pietro soffriva di una malattia genetica rara e incurabile: l’atrofia spinale muscolare di tipo 1 (SMA 1). Malattia incurabile, la Sma colpisce le cellule nervose delle corna anteriori del midollo spinale (che contengono motoneuroni da cui partono i nervi diretti ai muscoli e che trasmettono i segnali motori). Pietro soffriva della forma più grave, con esordio precoce e breve sopravvivenza.
Silvia e Fabio sono portatori sani: ogni gravidanza comporta un rischio pari al 25% di probabilità di trasmettere la malattia al nascituro.
Fabio e Silvia vogliono un altro figlio; per non rischiare di far nascere un altro bambino malato e destinato a morire avrebbero bisogno di effettuare la diagnosi genetica di preimpianto. Hanno deciso di rendere pubblica la loro drammatica storia per chiedere al Ministro della Salute – per loro e per tutti quelli che vivono situazioni analoghe – l’aggiornamento delle Linee Guida, scadute nel luglio passato, e la conferma della possibilità di ricorrere alla diagnosi genetica di preimpianto.
Nel gennaio del 2008, infatti, una sentenza del Tar Lazio ha annullato il divieto esplicito presente solo nelle Linee Guida e non nella legge 40, ma in Italia continua ad essere impossibile effettuare la diagnosi genetica di preimpianto (“In via conclusiva il Collegio ritiene di dover: 1) accogliere in parte il ricorso relativamente al sesto motivo di gravame e per l’effetto annullare la disposizione delle Linee Guida in materia di procreazione medicalmente assistita approvate con D.M. 21 luglio 2004 nella parte riguardante le Misure di Tutela dell’embrione laddove si statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 13, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale. 2) sospendere il giudizio e rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 2 e 3, della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione”).
Il divieto di effettuare la diagnosi genetica di preimpianto risulta difficilmente comprensibile se si pensa che le indagini prenatali sono permesse. La diagnosi di preimpianto offrirebbe la possibilità di conoscere lo stato di salute dell’embrione prima che questo sia impiantato – offrendo quindi la possibilità di non avviare una gravidanza invece di interromperla in seguito ad indagine prenatale con esito infausto. Oltre a costituire un vantaggio per le donne che eviterebbero di sottoporsi ad un aborto terapeutico (rischioso per la salute e possibile motivo di sofferenza psichica), il non impianto riguarderebbe embrioni di pochi giorni invece che feti di alcune settimane, quando cioè lo sviluppo embrionale è in una fase molto più avanzata. Ulteriore elemento di sorpresa riguarda la possibilità, sancita dalla legge 40, di effettuare la diagnosi osservazionale prima dell’impianto: usando un microscopio che può riscontrare anomalie morfologiche. Perché l’indagine osservazionale è permessa e quella genetica no? Pur essendo strumenti di indagine analoghi (si effettuano per conoscere lo stato di salute dell’embrione e offrono alla donna la possibilità di scegliere di non impiantare un embrione affetto da una qualche patologia, patologia che sarebbe possibile riscontrare a gravidanza avviata e che posticiperebbe la conoscenza e la conseguente decisione di interrompere lo sviluppo di un embrione malato) la prima è permessa e la seconda è condannata moralmente e vietata dalla Linee Guida. Impossibile trovare una risposta sensata e razionale. La scelta e la responsabilità riguardo alla riproduzione è amputata e fortemente ristretta.
Silvia e Fabio sottolineano anche altri aspetti crudeli della legge 40, come il divieto di crioconservazione degli embrioni e il divieto della fecondazione eterologa, e chiedono di rivedere interamente la legge 40. Perché gli effetti di discriminazione sono profondi e inammissibili. Perché chi ha la possibilità di pagare sceglie di andare in un altro Paese: è quello che viene chiamato “turismo procreativo” ma che è un ripiego doloroso e difficile. L’affermazione di una ideologia e di una visione morale, incerta e discutibile, che considera l’embrione una persona è stata giudicata più importante della possibilità di avere un figlio e della garanzia della salute dei cittadini. Di migliaia di cittadini. Che devono affrontare anche il senso di vergogna, ancora tanto diffuso, che deriva dalla sterilità o da quelle malattie che richiederebbe il ricorso alle tecniche riproduttive.
Silvia e Fabio hanno creato un blog per raccontare la loro storia e offrire informazioni: legge 40 toccala.


(LibMagazine, 24 aprile 2008)

giovedì 17 aprile 2008

Legge 40 e diagnosi genetica di preimpianto (Intervista a Silvia e Fabio Callegari)

La legge 40 è stata approvata nel 2004. Da allora i cittadini che hanno bisogno di rivolgersi alle tecniche di riproduzione artificiale si trovano ad affrontare numerose difficoltà; alcuni sono esclusi perché non sterili, ma “solo” affetti o portatori di una malattia genetica o virale. Queste persone potrebbero evitare di correre il rischio di contagiare il nascituro (nel caso di patologie virali anche il partner non affetto rischia di essere contagiato) se i criteri di accesso alle tecniche non fossero tanto restrittivi.

Silvia e Fabio Callegari hanno avuto un figlio il 5 agosto 2007. Il piccolo Pietro è morto il 22 gennaio 2008: non aveva compiuto nemmeno 6 mesi. Pietro soffriva di una malattia genetica rara e incurabile: l’atrofia spinale muscolare di tipo 1 (o SMA 1).
Fabio e Silvia vogliono un altro figlio; per non rischiare di far nascere un altro bambino malato e destinato a morire chiedono di poter effettuare la diagnosi genetica di preimpianto.
Nonostante la sentenza del Tar Lazio del gennaio 2008 (che ha annullato il divieto esplicito presente solo nelle Linee Guida e non nella legge 40) la richiesta di Silvia e Fabio sembra cadere nel vuoto.

Che cosa chiedete e perché?
Siamo una coppia infertile e portatrice sana di una rara malattia genetica incurabile: l’atrofia muscolare spinale di tipo 1 o SMA 1 che è la principale causa di mortalità nei bambini al di sotto dei due anni. Il 22 gennaio 2008 abbiamo perso il nostro unico figlio Pietro, a causa della trasmissione di questa malattia, quando aveva solamente 5 mesi e mezzo. Effettuando visite genetiche con specialisti abbiamo scoperto che ad ogni gravidanza esiste il 25% di probabilità di trasmettere la malattia al feto.
Chiediamo al Ministro della Salute innanzitutto l’aggiornamento delle Linee Guida della legge 40 scadute a luglio 2007, aggiornamento che consenta la diagnosi genetica di preimpianto visto che la legge 40 non lo vieta e visto che a gennaio 2008 il Tar del Lazio ha annullato le Linee Guida proprio nella parte riguardante il divieto di effettuare la diagnosi di preimpianto.
Inoltre vorremmo che il Parlamento rivedesse interamente la legge 40: per permettere l’accesso alle tecniche di PMA anche alle coppie portatrici di malattie genetiche; per rimuovere l’obbligo di impianto di tre embrioni; per rimuovere il divieto di crioconservazione degli embrioni e per permettere la fecondazione eterologa.

Quali sono gli aspetti peggiori della legge 40, soprattutto alla luce del rispetto della salute e della scelta dei cittadini?
La legge 40 consente la fecondazione assistita solo a persone affette da sterilità o infertilità non altrimenti rimovibile e non alle coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche. Proibisce la fecondazione eterologa, cioè quella ottenuta con ovuli o seme non appartenenti alla coppia. Vieta il congelamento degli embrioni e impone che gli embrioni prodotti (fino a un massimo di 3) vengano impiantati contemporaneamente. Infine costringe la donna a ripetuti cicli di stimolazione ovarica.

Intervista completa.
(Persona e Danno, 17 aprile 2008)

mercoledì 26 marzo 2008

Si può fare la diagnosi genetica di preimpianto

Si può effettuare la diagnosi genetica di preimpianto in Italia? Sì, è legale e le coppie possono richiederla ai centri di procreazione assistita. La diagnosi di preimpianto permette di diagnosticare eventuali patologie prima che l’embrione sia impiantato, evitando così di interrompere una gravidanza avviata in caso di diagnosi prenatale infausta.
Questo è l’effetto della sentenza del Tar Lazio del gennaio passato, nonostante il silenzio avvolga un risultato quasi rivoluzionario nell’immobilità che avvolge la legge 40. La sentenza ha annullato il divieto esplicito presente nelle Linee Guida – che hanno un valore solo applicativo – ma non nella legge che prevede l’indagine clinica sugli embrioni, e l’ha definito illegittimo. Girolamo Sirchia avrebbe abusato del suo potere affidando ad un atto amministrativo il potere di una legge. La sentenza del Tar ha effetto erga omnes e riguarda tutti i cittadini.
Considerando anche le risposte positive dell’ordinanza di Firenze e della sentenza di Cagliari (in risposta alla richiesta di due coppie che chiedevano la diagnosi di preimpainto), il filone di giurisprudenza positiva si applica sia nei casi specifici che in generale.
I centri possono dunque ignorare il divieto delle Linee Guida, peraltro scadute nell’agosto 2007 e in attesa di essere rinnovate per dare conto delle innovazioni tecnologiche. Si può congelare gli embrioni scartati in attesa della estinzione o di una futura terapia.
L’unico segnale positivo sul fronte della legge 40 merita di essere sottolineato: effettuando la diagnosi di preimpianto non si commette alcun reato.

(Talora anche il Tar può aiutare le future mamme, DNews, 26 marzo 2008).

venerdì 28 dicembre 2007

Un argomento del Foglio

Il Foglio ritorna ieri con un editoriale non firmato sulle contraddizioni fra la legge 194 sull’aborto e la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita («Uno spettro s’aggira per il ministero della Turco, l’eugenetica», 27 dicembre 2007, p. 1):

Si può abortire, dicono gli eugenisti democratici, e allora perché non scartare preventivamente gli embrioni “difettosi”? Dimenticano, per l’ennesima volta, che la legge non permette l’aborto eugenetico, perché il nascituro è malato, ma solo per un provato e “serio pericolo”, già in atto, per la salute fisica o psichica della gestante. Nel caso della diagnosi preimpianto la gestante non c’è. C’è una coppia che vuole scegliere, assistita dalla tecnoscienza, chi tra i suoi figli allo stato embrionale ha diritto di vivere e chi no.
È molto difficile capire cosa intenda l’autore con «provato e “serio pericolo”, già in atto». Un pericolo può essere modesto, serio, gravissimo, etc., a seconda delle probabilità che ne derivi un danno effettivo; ma rimane per definizione sempre potenziale. Cosa è mai allora un «pericolo già in atto», o peggio ancora un «serio pericolo già in atto»?
La legge 194, in realtà, parla all’art. 6 solo di «grave pericolo»; «già in atto» è un’aggiunta determinata dalla creatività dell’editorialista del Foglio:
L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Se si accetta che un processo patologico del feto o dell’embrione possa determinare un grave pericolo per la salute psichica della donna – e il Foglio, sebbene forse solo per amore di discussione, lo ammette qui chiaramente – che differenza fa se la patologia è scoperta per mezzo di un’indagine prenatale (come l’amniocentesi) oppure tramite una diagnosi genetica di preimpianto?

Un’ipotesi è che l’editorialista ritenga per qualche motivo più serio il pericolo se la patologia viene scoperta durante la gravidanza; questo spiegherebbe in qualche modo l’aggiunta della misteriosa clausola «già in atto», ed è confermato dal curioso argomento che la legge 194 si riferisce alle sole gestanti (cosa poco sorprendente, per una legge sull’aborto). Ma il pericolo non diventa maggiore se diagnosticato solo a gravidanza iniziata: diventa solo più impellente, e più costoso per la donna risolverlo.

Il giornale di Giuliano Ferrara ci ha del resto abituati a questo genere di ragionamenti, e non ci stupiamo più di leggerli sulle sue colonne: è – come tutti possono riconoscere facilmente – il classico argomento del Foglio.

giovedì 15 novembre 2007

Sorpresa: Avvenire straparla

Su Avvenire di oggi Viviana Daloiso esordisce così («Sorpresa: “La diagnosi preimpianto non funziona”», 15 novembre 2007, inserto «È vita», p. 1):

Per gli antagonisti della legge 40 è il preferito tra i cavalli di battaglia, soprattutto dopo la discussa sentenza emessa dal Tribunale di Cagliari alla fine di settembre sul caso della donna affetta da beta-talassemia: parliamo della diagnosi preimpianto, la tecnica di analisi e selezione degli embrioni che – nei proclami di chi la sostiene – dovrebbe permettere alle donne che accedono alla fecondazione assistita di moltiplicare le possibilità di successo della futura gravidanza, individuando e impiantando gli “esemplari” potenzialmente più sani.
Ma, come ci informa con malcelata soddisfazione l’articolista,
tra lo stupore di una parte dei partecipanti al meeting annuale delle società per la riproduzione assistita statunitensi, riunite a Washington a metà ottobre, i medici della Asrm (l’American Society for Reproductive Medicine, tra le più autorevoli e rappresentative Oltreoceano) si sono espressi nettamente contro la tecnica di diagnosi preimpianto dello screening […] eppure le varie tecniche della diagnosi preimpianto, anche nel nostro Paese, continuano a essere proposte come metodo sicuro per aumentare i successi nelle gravidanze da procreazione assistita...
Qualcosa di stonato sarà stato percepito già da un po’ dai più avvertiti: ma la diagnosi preimpianto non serviva a far nascere bambini sani da coppie portatrici di difetti genetici? Cosa c’entra l’aumento dei successi nelle gravidanze da procreazione assistita? E cosa diavolo sarebbe la «diagnosi preimpianto dello screening»?
Il mistero si chiarisce andando a vedere uno dei più recenti numeri di Nature, dove secondo la stessa Daloiso sarebbe «ampiamente riportato» quanto emerso al convegno. Il pezzo (Brendan Maher, «Embryo screening “doesn’t improve” pregnancy success», Nature News, 17 ottobre 2007; lo citavamo recentemente su Bioetica) parla in realtà principalmente non della diagnosi preimpianto, ma dello screening preimpianto. Le due tecniche si somigliano, ma – come spiega chiaramente Nature – la prima ha lo scopo di far nascere bambini sani, individuando gli embrioni portatori di singoli geni difettosi; la seconda (che individua una classe specifica di difetti genetici, le aneuploidie, cioè anomalie nel numero di cromosomi, che sono connesse alla difficoltà di ottenere una gravidanza) ha lo scopo principale di aumentare il successo delle tecniche di fecondazione in vitro. I dati presentati dall’Asrm, mentre da un lato mettono in dubbio l’efficacia dello screening, dall’altro «supportano la diagnosi genetica di preimpianto»: così, esplicitamente, l’articolo di Nature. La Daloiso, se l’ha letto, doveva essere molto distratta. Eppure avrebbe dovuto accorgersi della topica: riportando le dichiarazioni di Glenn Schattman, «noto specialista nel campo dell’infertilità e docente di Endocrinologia riproduttiva al Weill Medical College della Cornell University», lo presenta affermando che
non soltanto è un convinto sostenitore della pratica ma esegue diagnosi preimpianto sulle donne che ogni anno ricorrono alla fecondazione assistita per avere figli nel suo studio. Proprio per questo la sua testimonianza è ancor più sbalorditiva
Non c’è dubbio, in effetti, che un convinto sostenitore della pratica (si noti l’uso del tempo presente: Schattman «è», non «era»; «esegue», non «eseguiva») che testimonia contro la pratica stessa sia un fenomeno «sbalorditivo». Ovviamente, Schattman è contrario allo screening, non alla diagnosi preimpianto.
Ma siamo ancora lontani dal vertice di comicità involontaria che la Daloiso tocca più avanti, quando ci informa che l’evidenza dei fatti costringerebbe
Schattmann [sic], quando una donna si presenta nel suo studio, a dirle con onestà: «Se il suo obiettivo è quello di avere un bambino sano ricorrendo alla fecondazione assistita, la sua migliore chance di ottenere questo scopo sarà di non ricorrere allo screening preimpianto». E quando la donna gli obietta che lui è un convinto sostenitore della diagnosi preimpianto, Schattmann [sic] replica: «Lo sono, è vero. Ciò non toglie che io debba agire rispettando la deontologia del mio mestiere di medico: che, al di là di ogni interesse commerciale, mi impone di dire la verità sull’inutilità e i rischi di questa tecnica».
Sarei curioso di sapere quali sono state veramente le dichiarazioni del dottor Schattman (che non trovo nel pezzo di Nature né da nessun altra parte); sospetto fortemente che un «convinto sostenitore della diagnosi preimpianto» non vada in giro a denunciare l’«inutilità e i rischi di questa tecnica»...

giovedì 27 settembre 2007

Un florilegio di brutte figure

Nicolò Zanon, «Giustizia creativa sulla legge 40» (Il Giornale, 26 settembre 2007, p. 1):

La sentenza sostiene che il diritto alla salute psichica e fisica della futura madre e quello ad essere informata sulle condizioni del feto prevalgono – in quanto desumibili dalla Costituzione – sul divieto legislativo di diagnosi reimpianto [sic]. In altre parole, la legge è stata disapplicata a favore dell’applicazione diretta della Costituzione, che all’articolo 32 tutela la salute.
In altre parole, Nicolò Zanon sta commentando una sentenza che non ha letto.
Cesare Mirabelli, intervistato dal Corriere della Sera“Incoerente e scavalca l’Alta Corte”», 26 settembre, p. 13):
Il magistrato che ha scritto questa sentenza è la stessa che un anno fa si è vista respingere come inammissibile una questione di illegittimità sull’articolo 13 della legge 40. Visto che non ha avuto il disco verde, invece di riformulare, come era suo dovere, il quesito in modo che la Corte le potesse rispondere, la giudice ha pensato bene di eludere il percorso costituzionale e ha trovato una sua soluzione.
Strano, la firma in calce alla questione di legittimità presentata due anni fa è «Donatella Satta», mentre la sentenza di cui si è parla è firmata da «Maria Grazia Cabitza». Forse il giudice ha cambiato nome, nel frattempo; o forse è un giudice nuovo, così com’è nuovo il procedimento intrapreso dai coniugi (è scritto a chiare lettere nella sentenza); nessun obbligo di adire nuovamente la Corte Costituzionale, dunque.
Assuntina Morresi, «La sentenza di Cagliari apre la strada ai figli fatti su misura» (L’Occidentale, 26 settembre):
Il problema, però, non è solo il divieto della diagnosi reimpianto. Secondo la stessa legge questa coppia avrebbe potuto utilizzare tecniche di fecondazione in vitro solo in caso di infertilità o sterilità: nel nostro paese queste tecniche sono riservate solamente a chi non riesce a concepire per via naturale, cioè a coppie sterili e/o infertili, e non a portatori sani di malattie genetiche.
Alla Morresi risulta che la coppia non fosse infertile o sterile, anche se nessuno lo ha finora mai messo in dubbio? In questo caso denunci il medico che ha effettuato l’intervento di fecondazione assistita – che è poi lo stesso che si è opposto alla diagnosi preimpianto (forse si era ravveduto, nel frattempo). In ogni caso, questo non ha nulla a che fare con la sentenza in questione.
Infine, il pezzo grosso. «Sovversivismo della classe dominante» (editoriale anonimo, Il Foglio, 27 settembre, p. 3):
La sentenza di Cagliari, che autorizza la diagnosi preimpianto in modo da consentire la selezione genetica, viola in modo esplicito una legge dello Stato.
Sovversivo sarà, casomai, chi calunnia le istituzioni della Repubblica. Ma infamie come questa non meritano parole, solo disprezzo.

lunedì 24 settembre 2007

In attesa della sentenza del Tribunale

Nell’attesa di leggere le motivazioni della sentenza di Cagliari riguardo alla autorizzazione di effettuare la diagnosi di preimpianto esce un illuminante comunicato stampa di Scienza & Vita. Evito di commentare perché ripetere fino alla noia le stesse identiche argomentazioni mi provoca un certo malessere (evito anche di correggere errori ortografici etc. etc.). Aspettiamo con ansia le reazioni dei soliti noti domani, sulla carta stampata!

“Non è vero che in qualche modo la legge 40 prevede la diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni umani. E’ vero esattamente il contrario: la legge 40 vieta la diagnosi genetica preimpianto anche se non la menziona espressamente” E’ questo il giudizio dall’Associazione Scienza & Vita a margine del dibattito sollevato dalla sentenza del Tribunale di Cagliari.
Quanto affermato dall’Associazione emerge in tutta evidenza da una lettura attenta della legge 40, da cui si evince “il principio di destinazione alla nascita di ogni embrione generato in provetta”. La legge prevede infatti l’obbligo di trasferire immediatamente tutti gli embrioni generati e il divieto di qualsiasi selezione-soppressione a scopo eugenetico. “Nel caso di Cagliari – osserva Scienza & Vita – la finalità eugenetica appare evidente. Non si comprende quindi come il tribunale possa motivare una scelta contra legem”.
Infine l’Associazione afferma che “la pretesa di superare il problema della legittimità costituzionale della legge 40 non ha fondamento alcuno. Anzi, tale pretesa è in sé incostituzionale, tenendo conto dei precedenti pronunciamenti della Consulta in materia di tutela della vita del concepito”.

Autorizzata la diagnosi genetica di preimpianto

Il Tribunale Civile di Cagliari ha depositato oggi una sentenza con la quale autorizza il centro FIVET dell’Ospedale Microcitemico ad eseguire la diagnosi genetica di preimpianto su alcuni embrioni congelati un paio di anni fa (una donna cagliaritana portatrice di Betatalassemia rifiutò di trasferire gli embrioni fecondati).
Questa autorizzazione ad effettuare la DGP è la prima notizia decente dalla entrata in vigore della legge 40. Aspettiamo di leggere la sentenza. E soprattutto speriamo che serva a rimettere le mani sulla legge 40 (va bene, non esageriamo con l’ottimismo).