Dopo le perplessità espresse da molti – compresi noi di Bioetica, in un post precedente – su alcune palesi assurdità contenute nel disegno di legge governativo sui DiCo, il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio tenta di chiarire alcuni dei punti più controversi, con una scheda di approfondimento («Cosa sono i DiCo»; il contenuto è praticamente identico a quello di una ‘intervista’ a Stefano Ceccanti, uno degli estensori materiali della legge, presente sullo stesso sito).
Il primo chiarimento riguarda, come ci si poteva aspettare, la famigerata raccomandata con ricevuta di ritorno:
Due persone, che si trovino nelle condizioni previste dalla legge, possono ottenere certificazione di questa realtà se si trovano in questa condizione di fatto, che possono dichiarare in due modi a loro scelta:La spiegazione non spiega un granché, come si vede, e non ci rimane che fantasticare su come si otterrà la garanzia che la raccomandata cada nelle mani giuste. Escludendo che il postino si accampi sotto casa nostra in attesa che il nostro convivente torni a casa dopo una settimana di vacanze, possiamo supporre che la raccomandata DiCo dovrà portare stampigliata in bella evidenza l’oggetto del suo contenuto (pazienza per la privacy...), e che potrà essere consegnata solo dietro esibizione di un documento personale, di cui il postino annoterà scrupolosamente gli estremi; il destinatario non reperibile si dovrà recare presso l’ufficio postale, senza possibilità di deleghe. Tutto, pur di non sancire l’obbligo della dichiarazione contestuale e dell’assenso di entrambi i conviventi.
A) quella [sic] più semplice è di andare contestualmente all’ufficio di anagrafe facendo una dichiarazione;
B) in alternativa può andare uno solo e dimostrare di avere avvisato l’altro con raccomandata con ricevuta di ritorno. Nell’applicazione della legge si garantirà che sia l’altro convivente a ricevere materialmente tale comunicazione [corsivo mio].
Non sfugge la preghiera implicita contenuta al punto A): lo sappiamo bene – sembrano dire i tecnici ministeriali – che le complicazioni della raccomandata sono inverosimili e pazzesche; l’unico modo sensato per dichiarare i DiCo è di venire a farlo tutti e due all’Anagrafe. Ma non possiamo dirlo apertamente: sù, fate i bravi, non metteteci in difficoltà con i teodem – ci rimettereste anche voi, se quelli bocciano la legge – lasciate perdere le Poste e venite all’Anagrafe, che così si fa prima e con meno fatica...
Il disegno di legge solleva un’altra, ancor più grave perplessità: da molti indizi sembra che esso non preveda la possibilità per due conviventi di sottrarsi ai suoi effetti giuridici, che lo vogliano oppure no. Qui la risposta del Ministero è più indiretta, e conviene analizzarla a fondo.
Cominciamo da ciò che sembra affermare la lettera del disegno di legge, all’art. 1:
1. Due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale, […] sono titolari dei diritti, dei doveri e delle facoltà stabiliti dalla presente legge.Cosa vuol dire tutto ciò? Come si vede, si cita due volte un decreto del Presidente della Repubblica, approvato nel 1989 e quindi già da tempo in vigore. All’art. 4, comma 1 il decreto definisce cosa si deve intendere per «famiglia»:
2. La convivenza di cui al comma 1 è provata dalle risultanze anagrafiche in conformità agli articoli 4, 13 comma 1 lettera b), 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, secondo le modalità stabilite nel medesimo decreto per l’iscrizione, il mutamento o la cancellazione. È fatta salva la prova contraria sulla sussistenza degli elementi di cui al comma 1 e delle cause di esclusione di cui all’articolo 2. […]
3. Relativamente alla convivenza di cui al comma 1, qualora la dichiarazione all’ufficio di anagrafe di cui all’articolo 13, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, non sia resa contestualmente da entrambi i conviventi, il convivente che l’ha resa ha l’onere di darne comunicazione mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’altro convivente; la mancata comunicazione preclude la possibilità di utilizzare le risultanze anagrafiche a fini probatori ai sensi della presente legge.
Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.Secondo l’art. 13, comma 1, lettera b dello stesso decreto, chi forma una nuova famiglia ha l’obbligo di dichiararlo entro venti giorni all’Anagrafe del Comune in cui vive, che a sua volta creerà una apposita scheda di famiglia. Ora, da una lettura attenta del disegno di legge sui DiCo sembrerebbe che sia questa dichiarazione quella di cui parla: basta che Elisabetta abbia dichiarato all’Anagrafe – come è suo preciso obbligo – di convivere con Luca, e che Luca ne sia stato portato a conoscenza, perché i due si trovino automaticamente titolari di tutti i diritti e i doveri previsti dalla legge sui DiCo (per la verità, secondo una possibile interpretazione il disegno di legge sembrerebbe imporre le conseguenze giuridiche della convivenza anche a chi non sia stato informato dell’iscrizione all’anagrafe; ma non complichiamo ulteriormente le cose).
La scheda di approfondimento cambia però inopinatamente le carte in tavola. Subito dopo il passo sulla raccomandata, afferma infatti:
L’anagrafe riporterà tali dichiarazioni in una scheda che è già prevista, che si chiama scheda della famiglia anagrafica, dove sono già inseriti tutti quanti vivono sotto lo stesso tetto. Oggi non si sa a che titolo vivono insieme, a meno che non risulti dai registri di un altro ufficio, quello dello stato civile.Qui la dichiarazione all’Anagrafe si è sdoppiata: quella obbligatoria per la costituzione di una nuova famiglia non basta più per fare scattare gli effetti giuridici dei DiCo; ce ne vuole una seconda, integrativa, non prevista dal decreto presidenziale di cui parlavamo, in cui si afferma che chi convive lo fa su basi affettive.
L’anagrafe si limita a fotografare la realtà; invece lo stato civile registra gli status, come il matrimonio: sono due uffici diversi.
Dopo l’entrata in vigore della legge:C’è bisogno di questo passaggio perché ci deve essere certezza sui titolari: sia in positivo, per renderli effettivi, sia in negativo, per evitare abusi [corsivi miei].
- chi fa emergere la propria situazione di fatto andando all’anagrafe e facendo quella dichiarazione in uno di quei due modi previsti si trova dentro l’ambito di applicazione della legge.
- Chi non può perché rientra nelle esclusioni della legge, o chi non è interessato a dichiarare che convive con le caratteristiche individuate dall’art. 1 della legge, continua a stare puramente e semplicemente nella scheda della famiglia anagrafica: la legge non gli si applica.
Si tratta di un chiarimento del disegno di legge del Governo o di una sua correzione? Temo che si debba propendere per la seconda ipotesi: nella bozza che era circolata prima dell’intervento del giornale dei vescovi, l’art. 1, comma 1 recitava:
Qualora due persone, anche dello stesso sesso, legate da reciproci vincoli affettivi e che convivono stabilmente, intendano avvalersi dei diritti e, conseguentemente adempiere ai doveri individuati dalla presente legge, ne fanno dichiarazione congiunta all’ufficiale dell’anagrafe del Comune dove hanno stabilito la comune residenza, il quale annota la data della dichiarazione e la integra nella scheda anagrafica di cui all’articolo 1 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228 ed agli articoli 4, 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.Questo è precisamente ciò che adesso dice la scheda di approfondimento del Ministero – ma non sembra un caso che il testo del disegno di legge contenga invece una formulazione del tutto diversa.
Ammettiamo comunque che questa sia l’interpretazione autentica della legge, o meglio ancora che – integralisti permettendo – la legge ritorni alla lettera primitiva; potrebbero i conviventi stare tranquilli? Il dubbio, purtroppo, è più che mai lecito.
La scheda di approfondimento ripete ossessivamente un concetto: diritti e corrispondenti doveri nascono da un fatto (la parola ricorre ben cinque volte nella prima pagina del documento). Recependo interamente le obiezioni della Conferenza Episcopale Italiana, i legislatori hanno voluto in questo modo marcare un punto fermo: i diritti previsti dalla legge non nascono da un libero patto tra i due contraenti. La convivenza non è un nuovo istituto cui chi vuole può accedere, ma una condizione di fatto cui si attaccano una serie di conseguenze giuridiche, valide per chiunque in quella condizione si trovi ad essere. La controprova di quanto qui si afferma è data da una monumentale assenza nella scheda ministeriale: si continua a non chiarire come il convivente che riceve la comunicazione dell’avvenuta dichiarazione possa sottrarsi, se così vuole, a degli obblighi che non ha sottoscritto. Ebbene, il chiarimento non c’è perché non ci può essere: se il cittadino, pur convivendo more uxorio con il suo partner potesse sottrarsi agli effetti dei DiCo, ciò vorrebbe dire che la legge riguarda un nuovo status giuridico, e non a una condizione di fatto già esistente; ma questo, a causa della pressione della Cei, non si può proprio ammettere.
Si dirà: pazienza, per le coppie normali basterà non firmare la dichiarazione integrativa con la quale si certifica a che titolo si svolge la convivenza. Ebbene, non ne sarei tanto sicuro. Torniamo ai nostri Luca ed Elisabetta. Elisabetta ha dichiarato la nascita della nuova famiglia all’Anagrafe ma, d’accordo con Luca, ha omesso di integrare la scheda di famiglia con la dichiarazione sulle motivazioni della convivenza. Cosa diceva, però, l’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica?
Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.Nel momento in cui Luca cambiasse idea, e volesse costringere la propria partner a corrispondergli gli alimenti, potrebbe dimostrare molto facilmente di non essere legato a lei da «vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione o tutela»; e che dunque Elisabetta, con la dichiarazione all’Anagrafe, aveva implicitamente ammesso l’esistenza di vincoli affettivi, proprio quelli cui la legge fa corrispondere precisi obblighi... Come afferma ad altro proposito la scheda del ministero, involontariamente minacciosa: «nei primi nove mesi dall’entrata in vigore della legge si può provare che la convivenza è iniziata prima con gli stessi criteri usati nei tribunali». Ed è lì che finirà prevedibilmente questa legge, se sciaguratamente le Camere la lasciassero passare immutata: nelle aule dei tribunali.
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