domenica 29 novembre 2009

Non colpevolizziamo Alessandro Meluzzi

Alessandro Meluzzi, psichiatra, portavoce della Comunità Incontro di Don Pierino Gelmini, ci elargisce dalle colonne del Giornale le sue opinioni sull’attualità bioetica, in particolare sulla pillola abortiva RU-486 («Domanda: ma un embrione ha meno neuroni di un astice?», 28 novembre 2009, p. 18). Vediamo con quali risultati.

È giusto occuparsi del dolore di Caino, ma anche di quello di Abele. La vicenda del risveglio, dopo 23 anni di stato vegetativo ci può fare immaginare quale angoscia ci sarebbe stata nel trapasso, provocato, di chi pur senza poter parlare, come in un incubo, era perfettamente consapevole di quanto accadeva intorno a lui.
Il riferimento, nonostante la forma un po’ contorta, è chiaramente alla vicenda di Rom Houben, l’uomo belga che i medici hanno riconosciuto possedere una coscienza quasi completa di ciò che lo circonda, dopo che per 23 anni era rimasto in totale mutismo e immobilità a causa di un grave incidente. C’è qualche dubbio sullo stato di Houben nel corso di questi anni, ma su una cosa tutti – o almeno tutti meno Meluzzi – sembrano essere d’accordo: l’uomo non si è risvegliato dallo stato vegetativo, perché in realtà in stato vegetativo persistente – a differenza per esempio di Eluana Englaro – non c’è mai stato.
Il Movimento Per la Vita ha dimostrato che una delle più efficaci forme per far riflettere una donna circa la scelta di interrompere la gravidanza, è mostrare la dettagliata ecografia tridimensionale di un feto di 12 settimane perfettamente eliminabile, anche senza ragioni terapeutiche, per sola scelta della donna. È un piccolo bambino quasi perfettamente formato, con occhi, naso, bocca, gambine, piedini, un cuoricino che batte, 5 dita nelle mani e nei piedi e i primi movimenti spontanei per succhiarsi il pollice.
[…] Bene, sapete quanto ci mette a morire questa creatura dopo la somministrazione di una RU486? Circa 48 ore, cioè 2 giorni. E per asfissia da espulsione dall’endometrio, cioè per soffocamento.
La retorica dei piedini va ancora forte in campo antiabortista, ma un veterano del Movimento per la Vita non la applicherebbe mai – beh, mai per iscritto – a un aborto compiuto con la RU-486, visto che la pillola abortiva si usa in genere fino alla 7ª settimana di gestazione (cioè fino alla 5ª settimana dal concepimento), quando il feto – o meglio, l’embrione – ha l’aspetto di questo ragazzo qui. Niente piedini, temo.
Non so da dove Meluzzi tragga il dato delle 48 ore di agonia: 48 ore sono il periodo che nell’aborto farmacologico intercorre fra la somministrazione del primo farmaco (la RU-486) e quella del secondo (il misoprostolo); la morte dell’embrione può avvenire in qualsiasi momento di questo intervallo di tempo, o anche dopo. La cosa comunque è abbastanza irrilevante, visto che il «soffocamento» (altri, sempre naturalmente col nobile scopo di far «riflettere» le donne, preferiscono parlare di «morte per fame») in seguito al distacco dall’endometrio, che fornisce ossigeno (non aria!) e nutrimento al prodotto del concepimento, ha ben poche delle connotazioni che siamo soliti attribuire alla parola: prima di tutto perché l’embrione non percepisce nulla, e quindi nemmeno la mancanza di ossigeno nel sangue. Ma naturalmente Meluzzi su questo la pensa diversamente:
Si obietterà che non c’è dolore perché non c’è coscienza. Innanzitutto, chi lo sa? Visto che comprovatamente poco più avanti nella gravidanza i feti persino sognano.
«Poco più avanti nella gravidanza» sta qui per «a un’età quasi tre volte maggiore», visto che un sonno paragonabile al sonno REM inizia solo alla 30ª settimana (secondo Carlo Bellieni, noto antiabortista ma anche neonatologo). Spingendo un po’ più in là la stessa logica, Meluzzi avrebbe potuto dire che «poco più avanti» i feti scrivono persino articoli per il Giornale...
Lungi dal voler colpevolizzare donne che non potranno mai essere obbligate a trattenere dentro il proprio corpo una creatura che considerano poco meno di un alien.
Per carità! Chi potrebbe mai pensare che il buon Meluzzi voglia colpevolizzare le donne – queste Ellen Ripley della porta accanto – che «considerano poco meno di un alien» la loro creatura? Lungi, lungi!
Ma l’uso diffuso di un veleno, distribuito in Spagna alle minorenni in farmacia e senza l’autorizzazione dei genitori, ci pare davvero troppo.
Ahia, Meluzzi! Mi cade proprio sul finale... Oramai l’hanno imparato persino quelli dei TG Rai a non confondere la pillola del giorno dopo (il Norlevo, quello che in Spagna distribuiscono in farmacia anche alle minorenni, ’sti disgraziati) con la pillola abortiva (che in Italia sarà disponibile solo in ospedale)... Vabbeh, cose che capitano; non colpevolizziamo il povero Meluzzi (certo che però dalla redazione del Giornale, un giornale così autorevole, uno si aspetterebbe più attenzione...). Vedrete che la prossima volta andrà meglio. Sicuramente.

venerdì 27 novembre 2009

Segno di identità

Ansa, 27 novembre, 16.07:

GENOVA - Con in mano i volantini per difendere il crocifisso, un attivista della Lega Nord Liguria si è fatto scappare una serie di bestemmie stamani a Genova durante una animata discussione con un passante che la pensava diversamente. È accaduto nella centrale Piazza De Ferrari, dove la Lega Nord ha allestito un gazebo per raccogliere firme per mantenere i crocifissi nelle scuole.
Verso le 11.20, un attivista del partito che distribuiva volantini ha iniziato a discutere animatamente con un passante che la pensava diversamente. In pochi secondi si è passati agli insulti e l’attivista, un uomo sui cinquant’anni, ha dato uno spintone all’altro, un uomo sui 60 anni. Sono intervenuti alcuni attivisti che hanno cercato di dividere i contendenti ma a quel punto il leghista ha perso il controllo e ha iniziato a urlare bestemmie tra lo stupore dei passanti. Sono intervenuti due agenti della Digos ai quali l’uomo ha spiegato di aver agito così perché da poco aveva perso il lavoro e l’altro gli aveva detto di “andare a lavorare”.
(Hat-tip: UAAR Ultimissime.)

Il vero bersaglio resta l’aborto non la pillola

Dopo mesi di discussioni e dibattiti bizzarri sulla RU486 arriva dal Senato il no alla sua commercializzazione. La commissione Sanità ha votato e la maggioranza, costituita da Pdl e Lega, vuole un parere tecnico sulla compatibilità della RU con la legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza. Soldi, tempo e energie spesi per avere un parere che anche un bambino potrebbe dare. Si legge infatti nella legge 194, articolo 15: “Le regioni […] promuovono l’aggiornamento del personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sui problemi della procreazione cosciente e responsabile, sui metodi anticoncezionali, sul decorso della gravidanza, sul parto e sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza”. Non è superfluo ricordare che la RU486 è usata da decenni in altri Paesi e che si offre come un mezzo diverso per ottenere una interruzione di gravidanza – cioè il medesimo risultato. Risultato che in Italia è ancora permesso, almeno sulla carta. Sembra verosimile che le polemiche sulla RU486 siano soltanto pretestuose e che il bersaglio non sia il “modo” in cui si abortisce, ma l’aborto stesso. Già poco tollerato, l’aborto diventa inammissibile se connotato di una sfumatura in più di scelta: aborto chirurgico o farmacologico? Impossibile lasciare la scelta alle donne.

DNews, 27 novembre 2009.

giovedì 26 novembre 2009

mercoledì 25 novembre 2009

Un po’ di scetticismo sul caso di Rom Houben

La storia di Rom Houben, l’uomo belga vittima di un incidente 23 anni fa e rimasto da allora paralizzato e incapace di comunicare con il mondo esterno ma tuttavia consapevole, mentre tutti lo ritenevano invece definitivamente privo di coscienza, ha fatto il giro del mondo, inorridendo e commuovendo l’opinione pubblica. Ma adesso cominciano a levarsi le prime voci scettiche sulla vicenda.
Se si guarda un video del paziente, ci si rende conto che – contrariamente a quanto affermato in alcuni resoconti giornalistici – non è Houben a muovere autonomamente la mano per battere sulla tastiera i suoi pensieri; invece la mano viene spostata da una terapeuta, Linda Wouters, che sostiene di essere guidata da una lieve pressione effettuata dal paziente, e di sentirne la resistenza quando sta per premere un pulsante sbagliato; il metodo si chiama «comunicazione facilitata». Vi ricorda qualcosa? Ebbene, questo è il medesimo principio delle tavolette ouija (il gioco del bicchierino), in cui un gruppo di persone pone le mano su una tavoletta o su un calice rovesciato, e l’oggetto comincia a muoversi in modo apparentemente autonomo su una base che reca impresse le lettere dell’alfabeto, componendo un messaggio di senso compiuto (che in genere viene interpretato come un messaggio dei defunti). Ovviamente sono le spinte – in genere inconsapevoli – dei partecipanti a muovere la tavoletta; molti sostengono che anche la «comunicazione facilitata» comunichi in realtà i pensieri del terapeuta e non quelli del paziente. Si tratta proprio per questo di una pratica generalmente ritenuta non credibile dagli ambienti medici.
Il dubbio è particolarmente lecito nel caso Houben: il video mostra chiaramente il contrasto fra lo stato fisico seriamente compromesso del paziente e la sicurezza e rapidità con cui l’assistente guida la sua mano sui pulsanti. Nota Arthur Caplan, uno dei maggiori bioeticisti americani, a proposito delle affermazioni attribuite a Houben:

Uno giace per 23 anni in un letto d’ospedale quasi del tutto privo di stimoli, e all’improvviso appare completamente coerente e razionale? C’è qualcosa che non va. I messaggi sono quasi poetici. Sembra tutto troppo lucido, come se qualcuno avesse preparato le cose da dire in anticipo. Non dico che sia tutta una frode, ma vorrei saperne molto di più.
James Randi, il noto smascheratore di falsi fenomeni paranormali, ha invitato Houben e la terapeuta a concorrere al premio da un milione di dollari messo in palio dalla James Randi Educational Foundation per chi dimostrerà in condizioni controllate la validità della comunicazione facilitata. In un aggiornamento apparso sul suo sito Randi punta il dito su un altro video, in cui Houben sembra avere gli occhi chiusi mentre la sua mano vola imperterrita sulla tastiera.

Tutto ciò non significa naturalmente che non ci sia stata comunque una diagnosi sbagliata di stato vegetativo, e che le analisi del team guidato dal dottor Steven Laureys, che hanno portato a correggere questa diagnosi, siano meno che corrette. Houben, a quanto è stato riportato, ha recuperato la capacità di rispondere con un sì o con un no a domande tramite i movimenti del piede (quindi senza comunicazione facilitata), e questo mostra che è consapevole. Ciò che non è chiaro – e non lo sarà fino alla pubblicazione di uno studio scientifico sul caso; studio che ancora non esiste, malgrado quello che hanno sostenuto alcuni media – è in che stato si trovasse Houben durante la maggior parte di quei 23 anni. I medici gli attribuiscono adesso una sindrome locked-in: si tratta di una condizione generata di solito da un trauma al Ponte di Varolio, una struttura che si trova nel tronco encefalico e che rappresenta uno snodo cruciale nelle comunicazioni fra il corpo e le zone superiori del cervello. Il trauma può interrompere queste comunicazioni, portando a una paralisi totale, lasciando però integre le funzioni cognitive del cervello, localizzate più in alto del Ponte. Nella sindrome locked-in classica il paziente è in grado di muovere gli occhi (i nervi visivi corrono anch’essi al di sopra del Ponte), e quindi di comunicare con il mondo esterno; ma questo non accadeva allo sfortunato Houben. Siccome un trauma al Ponte di Varolio può non venire da solo (specialmente se è causato da un incidente meccanico), è in teoria possibile che un secondo trauma interessi le vie nervose visive, lasciando il paziente oltre che paralizzato anche incapace di muovere gli occhi, e quindi a tutti gli effetti sepolto vivo nel suo stesso corpo; si parla in questo caso di sindrome locked-in totale.
Intuitivamente, però, una lesione così localizzata è improbabile: l’encefalo superiore è una sorta di campo minato per quanto riguarda le funzioni cognitive, e un trauma esterno sufficientemente grave da causare sia un danno al Ponte sia alle vie visive causerà generalmente anche un’alterazione più o meno grave dello stato di consapevolezza. Il paziente paralizzato, in questo caso, non sarà cosciente del proprio stato, o lo sarà in maniera estremamente parziale; è questo che, sommato alla paralisi, rende molto difficile diagnosticarne le reali condizioni. Non sono un neurologo, ma la mia sensazione è che lo stato di Houben, prima del recupero avvenuto negli ultimi tempi, fosse probabilmente questo.

Per quanto riguarda le implicazioni bioetiche del caso, va detto che ogni paragone con i casi di Terri Schiavo o di Eluana Englaro è del tutto improponibile: le autopsie effettuate sulle due donne hanno dimostrato oltre ogni possibile dubbio che i danni alle parti superiori dell’encefalo erano così estesi da escludere la possibilità di una consapevolezza residua o del suo recupero. È comunque vero che il caso ripropone il problema di una diagnosi certa dello stato vegetativo e della sua distinzione rispetto a condizioni più o meno analoghe; gli studi di Laureys e del suo team sono in questo senso promettenti.
Non è però scontato quale debba essere la valutazione di stati differenti da quello vegetativo: il bioeticista Jacob M. Appel sostiene per esempio («The Rom Houben Tragedy and the Case for Active Euthanasia», The Huffington Post, 24 novembre 2009) che il caso di Houben vada di fatto a favore dell’eutanasia. Si tratta, come si può capire, di idee quanto meno controverse; quello che è certo è che la tragedia di Rom Houben non è ancora finita, se davvero l’uomo si è destato solo per ritrovarsi inerme nelle mani di chi lo usa alla stregua di un pupazzo da ventriloquo.

Aggiornamento 18:30: da un articolo del Times (David Charter, «Mystery as coma survivor Rom Houben finds voice at his fingertips», 25 novembre) si apprende che il dottor Steven Laureys avrebbe messo alla prova la comunicazione facilitata mostrando a Houben degli oggetti in assenza della terapeuta, e quindi chiedendo al paziente di nominarli con l’aiuto della donna rientrata nella stanza. Le risposte ottenute sarebbero state corrette. Mi sentirei però più tranquillo se a controllare ci fosse stato James Randi... (hat-tip per questo aggiornamento: Daniela Ovadia).

Aggiornamento 27/11/2009: in un’intervista concessa a New Scientist (Celeste Biever, «Steven Laureys: How I know ‘coma man’ is conscious», 27 novembre) Steven Laureys si dice contrariato per i dubbi avanzati dagli scettici (che però riguardano propriamente non il suo operato ma quello della terapista), ma non aggiunge molto di nuovo a ciò che già si sapeva.

Nuova Proposta e Buoni genitori

Mercoledì 25 novembre, alle 20.30 Nuova Proposta organizza un incontro sulla omogenitorialità con alcuni rappresentati di Famiglie Arcobaleno. Presso il Circolo Mario Mieli (Roma, via Efeso 2).

martedì 17 novembre 2009

Testamento biologico, non ci siamo proprio


Se le intenzioni di Della Vedova erano buone, ovvero di sostituire il ddl Calabrò e di presentare una “soft law”, il risultato è a dir poco mediocre. Si finisce per sentirsi stupidi a ripetere continuamente le stesse cose (che significa “accanimento terapeutico”? Perché rinviare alla deontologia medica? Perché richiamare e rinforzare il fantasma dell’eutanasia?), ma ci si sente anche stupidi, e pure un po’ arrabbiati, ad essere presi in giro. Presi in giro sì: perché non c’è nulla in questo emendamento che possa tranquillizzare chi ha a cuore l’autodeterminazione. Nulla che ribadisca chiaramente che sul nostro corpo e sulla nostra salute dovremmo poter scegliere (ed eventualmente delegare o scegliere di far scegliere qualcun altro), senza che nessuno (medico o familiari) ci venga a fare la ramanzina o peggio si nasconda dietro a una dissennata invocazione alla obiezione di coscienza o altre parole lesive delle nostre scelte. Definire la vita umana “diritto inviolabile ed indisponibile” è abbastanza pericoloso e sta bene in bocca a un oltranzista paternalista piuttosto che a uno che si dichiara liberale. Perché, è evidente, se il diritto alla vita è inviolabile quello di scelta passa in secondo piano o è fortemente limitato dalla inviolabilità stessa – sarebbe come dire che siamo liberi di uscire ma dalle 7 di sera c’è il coprifuoco.

Su Giornalettismo.

domenica 15 novembre 2009

Ossimori

sabato 14 novembre 2009

Tutto quello che avreste voluto sapere sull’influenza (ma il governo non ha mai osato dirvi)

Mentre si avvicina il picco pandemico dell’influenza H1N1 (o influenza suina, o influenza A, o messicana), un nuovo sito, darwinFlu, si propone di comunicare informazioni scientifiche accurate sulla malattia; informazioni sommerse finora da un lato dall’ottimismo sparso a piene mani da un governo che sembra considerare la spensieratezza del pubblico il rimedio a ogni male, economico o sanitario che sia (ma qualche incrinatura comincia già a vedersi nei sorrisi ostentati) e dall’altro lato dal catastrofismo dei media tradizionali, nonché dal complottismo paranoide (che in questa occasione ha raggiunto vette di autentico interesse psichiatrico) dei media non tradizionali. E forse questi vari atteggiamenti non sono del tutto slegati fra loro, come ci spiegano Peter Sandman e Jody Lanard in uno dei pezzi presenti sul sito («La via italiana alla comunicazione del rischio»):

tutta l’attività di comunicazione tesa a normalizzare la pandemia per creare l’impressione che sia come l’influenza stagionale è fuorviante, a meno che non metta fortemente in risalto anche le ragioni per cui il ceppo pandemico e quelli stagionali sono diversi. A volte questi messaggi fuorvianti vengono da fonti che non sono consapevoli dell’errore, come funzionari locali o giornalisti che non hanno studiato l’influenza o non hanno analizzato con attenzione le statistiche governative rilevanti. Ma quando il meme per cui la pandemia è «come l’influenza stagionale» viene diffuso da figure istituzionali allora la comunicazione ha lo scopo deliberato di ingannare. Spesso l’intenzione di questo fuorviante meme della normalizzazione è di evitare che l’opinione pubblica si spaventi. Noi abbiamo scritto estensivamente su questo tema, ovvero su come i funzionari della salute pubblica abbiano paura della paura. Quando questo tipo di rassicurazione eccessiva si combina con degli sforzi per spingere il pubblico ad adottare più precauzioni del solito (n.d.r. dalle misure igieniche alla vaccinazione), il messaggio finale è ibrido ed è probabile che si riveli controproducente in alcuni modi prevedibili:
  1. alcune persone, quelle che credono nella metà rassicurante del messaggio, non vedranno alcuna ragione per prendere delle precauzioni;
  2. altri, pur non credendo nella metà rassicurante del messaggio, prenderanno ugualmente le precauzioni, ma perderanno fiducia delle istituzioni da cui il messaggio proviene;
  3. altri ancora non crederanno a nessuna parte del messaggio e cercheranno fonti di informazione non ufficiali per decidere come comportarsi. E tutti noi sappiamo che genere di informazioni si trovino nella blogosfera.
Da seguire assiduamente.

(Disclaimer: il sito è curato dalla redazione di Darwin; collaboro regolarmente con questa rivista, ma non ho avuto nessuna parte nella costruzione e gestione di darwinFlu.)

venerdì 13 novembre 2009

Segni dei tempi

Gabriella Gallozzi, «Alessandra Mussolini contro “Francesca”: l’uscita in sala sarà decisa dal tribunale», L’Unità, 12 novembre 2009, p. 43:

La data d’uscita nelle sale è prevista il prossimo 27 novembre. Ma dipenderà dalla sentenza del giudice del Tribunale civile di Roma che si è riservato di decidere dopo la visione del film. Stiamo parlando, infatti, dell’ultimo caso «politico cinematografico» del momento: Francesca, la pellicola del rumeno Bobby Paunescu portato sul banco degli imputati da Alessandra Mussolini …
Ad aver fatto scattare la richiesta di sequestro da parte della parlamentare è una frase pronunciata dal padre della protagonista che, cercando di convicere la ragazza a non emigrare in Italia, afferma: «la Mussolini, una troia che vuole ammazzare tutti i rumeni». …
Per Procacci [Domenico Procacci, distributore del film per Fandango] … è sorprendente che la querelle sia nata a causa dell’epiteto rivolto alla parlamentare e non per la seconda parte della frase in cui si dice «“che vuole ammazzare tutti i romeni”, questo non ha scandalizzato nessuno, neppure lei. Eppure rivela qualcosa di molto più grave».

giovedì 12 novembre 2009

Eugenia Roccella e il caso Cucchi

Cos’ha da dire il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, sul caso di Stefano Cucchi, il giovane massacrato di botte mentre si trovava in custodia cautelare e morto all’ospedale Pertini di Roma? Vuole forse spendere qualche parola contro i medici che hanno lasciato morire Cucchi senza intraprendere tutte le misure atte a salvarne la vita? In un certo senso sì; ma per la Roccella la colpa dei medici consisterebbe sorprendentemente nell’aver rispettato il consenso informato. Scrive infatti sul Riformista di ieri («Cucchi andava curato pure contro la sua volontà», 11 novembre 2009, p. 6):

Non è ancora chiaro se Cucchi abbia effettivamente firmato il foglio con cui negava l’autorizzazione a informare i parenti, ma non abbiamo motivo, a oggi, di dubitare delle dichiarazioni degli operatori sanitari circa il suo rifiuto delle cure, del cibo, dell’idratazione per endovena. Cucchi, dicono, ha mantenuto la sua lucidità per tutto il tempo, e fino alla fine, lucidamente, non ha voluto le terapie, mostrando disinteresse per la propria salute. Ma anche se così fosse, se Stefano avesse firmato tutti i consensi informati possibili, e davvero si fosse lasciato andare alla disperazione, basterebbe questo a giustificare umanamente, e non solo burocraticamente, la sua morte?
Dopo aver elencato alcuni casi controversi di rifiuto delle cure, compreso per ultimo quello di Eluana Englaro, scrive ancora:
Oggi c’è il caso, del tutto speculare, di Stefano, che forse ha rifiutato consapevolmente acqua e cibo. Ma di fronte a una persona sola e provata, a un ragazzo fragile, non era più giusto ribellarsi, intervenire, rischiare una solidarietà magari non voluta?
Lo scopo della Roccella sembra essere duplice: da un lato, sotto l’apparenza di far loro un rimprovero, si assolvono sostanzialmente i sanitari – ma anche si attenua, senza parere, la responsabilità di chi ha provocato le lesioni al giovane; Stefano Cucchi, per il sottosegretario, si è praticamente suicidato. Dall’altro lato, e soprattutto, si cerca di segnare un punto nella diatriba in corso sull’autodeterminazione del malato, facendo leva sull’emozione suscitata dal caso Cucchi proprio in coloro che sono favorevoli a lasciare al paziente la più ampia possibilità di scelta.

Sfortunatamente per la Roccella, però, la vicenda di Stefano Cucchi è estremamente diversa da quella di un malato che sceglie di non proseguire i trattamenti sanitari per salvaguardare la propria visione di ciò che costituisce una vita degna di essere vissuta. Se si sfoglia la corposa documentazione clinica del caso (PDF, 12MB), meritoriamente raccolta e messa a disposizione da Luigi Manconi e dall’Associazione A buon diritto, ci si rende conto che il rifiuto delle terapie e dell’alimentazione non era altro che un mezzo disperato messo in opera da Stefano Cucchi per poter parlare con il proprio legale. A p. 27 del file troviamo infatti il diario clinico relativo al 21 ottobre, in cui un medico ha annotato di proprio pugno: «il paziente rifiuta perché vuole parlare prima con il suo avvocato e con l’assistente della comunità CEIS di Roma [una comunità di assistenza ai tossicodipendenti]». Lo stesso concetto è ripetuto in un fax inviato lo stesso giorno dall’ospedale al Tribunale di Roma (p. 30). (Un ulteriore motivo alla base del rifiuto sembra consistere in alcune informazioni errate che Stefano Cucchi aveva sulla celiachia di cui soffriva: il giovane, come nota il diario clinico alla stessa pagina 27, credeva di non poter mangiare riso, patate e carne.) Il dovere dei medici, dunque, era di attivarsi immediatamente per procurare un contatto del legale di Cucchi con il suo assistito, e non certo di sottoporre il giovane all’alimentazione forzata, atto vietato dal Codice di deontologia medica, mentre il codice di procedura penale (art. 104, c. 1) stabilisce che «L’imputato in stato di custodia cautelare ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura» (non mi risulta che sussistessero le «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», previste dallo stesso articolo, che sole possono far dilazionare l’esercizio del diritto di conferire con il difensore). Non so cosa abbiano fatto i medici, ma in ogni caso era troppo tardi, perché il giorno dopo Stefano Cucchi moriva per una crisi cardiaca.
È importante notare che il sottosegretario sembra conoscere questo diario clinico, visto che ne cita quasi alla lettera un passo: si confronti la frase «mostrando disinteresse per la propria salute» della Roccella con l’annotazione «il paziente tuttavia esprime verbalmente disinteresse per le proprie condizioni di salute» a p. 26 del file. E del resto del rifiuto delle terapie allo scopo di poter parlare con il proprio avvocato si era parlato nei giorni precedenti (si veda il pezzo dello stesso Riformista, 10 novembre, p. 7). Ma delle circostanze più scomode per la sua tesi Eugenia Roccella non fa parola...

Quello prefigurato dalla Roccella è una sorta di ciclo integrale della violenza di Stato: lo Stato che prima viola l’integrità corporea di chi si trova in sua balia, rompendogli (letteralmente) la schiena a furia di percosse, la dovrebbe violare poi una seconda volta cacciandogli nel naso un sondino per l’alimentazione forzata; alla violazione delle libertà fondamentali (che la Roccella ovviamente condanna) si risponde non ripristinandole, ma procedendo a un’ulteriore violazione (che la Roccella loda). I diritti dileguano; il linguaggio dello Stato rimane unicamente quello del puro dominio, declinato ora nella forma più brutale delle legnate, ora in quella più ipocrita delle cure obbligatorie.

lunedì 9 novembre 2009

Rapporto di filiazione e omosessualità: profili giuridici

La Rete Lenford presenta il II Convegno nazionale: Rapporto di filiazione e omosessualità: profili giuridici (Aula degli Avvocati dell’Ordine, Piazza Cavour, Roma, il 27- 28 novembre 2009).


27 novembre 2009

16.00 Registrazione partecipanti

16.30 Saluti

Avv. Antonio Rotelli - Presidente Avvocatura per i Diritti LGBT

Avv. Alessandro Cassiani - Presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma

16.45 Introduzione

Prof. Stefano Rodotà

I SESSIONE - ESSERE GENITORI

17.00 – Coordina Avv. ta Saveria Ricci

Prof. Vittorio Lingiardi - Aspetti psicologici

Chiara Lalli - Aspetti bioetici


28 novembre 2009

II SESSIONE – DIVENTARE GENITORI

9.30 – Coordina Avv. Michele Potè

Avv.ta Susanna Lollini - La procreazione medicalmente assistita

Avv. Francesco Bilotta - Adozione e affido

Dott. Giacomo Oberto - Problemi di coppia e filiazione

Prof. Tiziana Vettor - Nuove famiglie e sfera pubblica: lavoro e sicurezza sociale

11.00 Pausa

III SESSIONE – VIVERE DA GENITORI

11.30 – Coordina Avv. Alexander Schuster

Avv.ta Maria Federica Moscati - La genitorialità sociale: profili di diritto comparato

Avv. Matteo Winkler - Aspetti di diritto internazionale privato

Avv.ta Maria Grazia Sangalli - Le prospettive di riforma

13.00 – Dibattito

domenica 8 novembre 2009

Il malato è l’omofobo

Elisa Battistini intervista Vittorio Lingiardi, medico, psicoanalista, direttore della Scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università «La Sapienza» di Roma («Sul lettino c’è l’omosessuale ma il malato è l’omofobo», Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2009, p. 7):

“Qualsiasi tentativo di cambiare un orientamento omosessuale è destinato al fallimento. La psicoterapia serve a riconoscere la propria omosessualità, non a correggerla”. […]
Perché allora un omosessuale si rivolge a un analista?
“Perché vive un conflitto a causa dell’interiorizzazione di uno stigma che viene dall’esterno. In generale, l’omosessualità è ancora vista come una devianza, una sfortuna, un’anomalia”.
Chi è il paziente tipo?
“Giovani sotto i 30 anni, nell’età in cui si struttura la personalità. Adolescenti che temono di dare un dispiacere ai genitori. Giovani che risentono di un contesto sociale discriminatorio. Perciò è fondamentale dare diritti e mostrare rispetto”.
[…]
Di cosa ha paura l’omofobo?
“L’omosessualità lo spaventa perché rappresenta un disordine rispetto a categorie che ritiene immutabili, come il maschile e il femminile, l’attivo e il passivo. L’omosessualità disorienta l’omofobo. Poi c’è la paura di ciò che non si conosce, dell’ignoto. Infine c’è anche una sorta di inaccettabile invidia per chi vive liberamente la propria sessualità”.
Da leggere tutto.

sabato 7 novembre 2009

Carlo Casini e l’argomento di Padre Kolbe

C’è sempre, in chi si occupa di bioetica (o anche di altri campi del sapere), un’attesa piena di aspettative per nuove argomentazioni che giungano a scompigliare le carte dei ragionamenti sempre identici, già percorsi mille volte; un’attesa se vogliamo anche un po’ masochistica, perché quelli che si aspettano con più impazienza sono spesso gli argomenti contrari alle nostre tesi più care. Affrontare per la prima volta un tentativo di confutazione costituisce una sfida intellettuale che non può che essere benvenuta, già solo per il mero piacere dello sforzo di ragionarci su, ma anche per la luce che può portare sulle nostre credenze morali, fino eventualmente a farcele mutare.
Ma proprio per questo, quando gli argomenti nuovi arrivano davvero la delusione può essere cocente. Prendiamo per esempio un’argomentazione – per me inedita – presentata da Carlo Casini, storico avversario della legge sull’aborto e presidente del Movimento per la Vita, in un articolo apparso due giorni fa sul giornale della Conferenza Episcopale Italiana («Approvare subito la “legge Calabrò” sul fine vita», Avvenire, 5 novembre 2009, p. 16):

il tempo ha attutito l’emozione provocata dalla morte della giovane donna lecchese [Eluana Englaro], ma la drammaticità del fatto resta. Per non stendere su di essa una nebbia ovattante ho ripensato in questi giorni a Padre Massimiliano Kolbe. Nel luglio del 1941 egli era prigioniero nel lager di Auschwitz. Si offrì di sostituire un padre di famiglia nella decimazione decisa per terrorizzare i detenuti dopo la fuga di uno di loro e, chiuso in un sotterraneo, fu ucciso «per fame e per sete». Morì il 14 agosto 1941. Dunque l’alimentazione e la idratazione non sono una terapia se la loro privazione costituisce, come è avvenuto per Padre Kolbe, una «condanna a morte con tormenti».
Quanti secondi ci vogliono per confutare questo argomento? Due sarebbero già troppi, perché la sua assurdità salta immediatamente agli occhi: siamo subito in grado di citare innumerevoli controesempi che invalidano il ragionamento di Casini. Si pensi per esempio all’edema polmonare, che se non curato provoca letteralmente l’annegamento del paziente nelle sue stesse secrezioni: questo dimostra forse che il trattamento di questa patologia (a base per esempio di nitroglicerina e diuretici) non costituisce un trattamento sanitario, visto che la sua privazione costituisce una «condanna a morte con tormenti»?
Carlo Casini avrebbe potuto fare benissimo a meno di scomodare noi e, soprattutto, l’incolpevole santo...

venerdì 6 novembre 2009

La tradizione non può essere un valore in sé

Useless

Il dibattito che si è scatenato sulla sentenza di Strasburgo sul crocifisso è perlopiù noioso e sciocco.
Uno degli argomenti più idioti, tra i molteplici e solo presunti tali a favore di Gesù in croce appeso alle pareti dei luoghi pubblici, è il richiamo alla tradizione.
Basterebbe un po’ di buon senso per capire che invocare la “tradizione” non dimostra nulla, se non che sia trascorso del tempo. Ma il trascorrere del tempo, di per sé, è neutrale.
E l’elenco di tradizioni moralmente ripugnanti sarebbe lungo, lunghissimo. E, si spera, ripugnante anche per chi oggi si sgola in difesa della ubiquità del simbolo religioso e cattolico. Il matrimonio riparatore, tanto per cominciare: quell’accomodamento per cui se un uomo sposava la donna che aveva stuprato era tutto a posto. La tortura e la pena di morte – radicate tradizioni. Il divieto di sposare qualcuno con un diverso colore della pelle e l’indissolubilità del contratto matrimoniale.
Esistono anche tradizioni neutrali e tradizioni moralmente ineccepibili. In tutti i casi lo spessore morale non deriva dalla loro durata.
Non importa da quanti secoli la croce se ne sta appesa sui muri, a contare è il suo significato. E questo un giudice straniero lo ha spiegato bene, anche un bambino distratto potrebbe capirlo. L’imposizione (simbolica) di una confessione è contraria alla libertà religiosa e alla laicità dello Stato. Sempre che lo Stato sia liberale e laico.

DNews, 6 novembre 2009.

giovedì 5 novembre 2009

La sentenza sul crocifisso in italiano

Si trova sul blog di Alessandro Gilioli («Signora Lautsi contro il governo: sentenza integrale», Piovono rane, 4 novembre 2009). Non c’è il nome del traduttore ma a una prima occhiata la versione sembra professionale, impeccabile.

Aggiornamento 10/11: un’altra traduzione della sentenza, a cura di Laura Morandi e Bruno Moretti Turri. Rispetto all’altra ha il vantaggio di riportare i numeri dei paragrafi.

L’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza

In mezzo a tante sciocchezze e a tanta violenza verbale, un commento luminoso sulla vicenda del crocifisso in classe: quello di Marco Politi, ieri sul Fatto QuotidianoLa Croce che non s’impone», 4 novembre 2009, p. 18).

Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti. Non è così. O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale. Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano. Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio. È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no. […]
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza. Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale. Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione. Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa. Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria. (Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali). Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica. La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso. Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Da leggere tutto.

Giurin giurello

mercoledì 4 novembre 2009

Identità crocifissa?

La marea delle reazioni alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha dato ragione a una cittadina italiana che sosteneva che l’esposizione dei crocifissi nelle aule della scuola pubblica costituisce una lesione della libertà di coscienza e di religione e del diritto a ricevere un’istruzione conforme alle proprie convinzioni religiose e filosofiche, comprende come sempre una miscela di cattiva informazione e di cattivi argomenti. Nella prima possiamo far rientrare gli allarmi sulla imminente asportazione delle croci dalle scuole – quando invece nell’immediato la sentenza della Corte avrà il solo effetto di costringere lo Stato italiano a pagare un risarcimento alla ricorrente – e le ingiure lanciate contro l’Unione Europea, già colpevole di aver lasciato fuori dalla propria costituzione le «radici cristiane» – ma la Corte dei diritti dell’uomo è espressione del Consiglio d’Europa, che non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea (ne fanno parte 47 stati, contro i 27 dell’Unione).
Fra i cattivi argomenti, che sono legione, ce n’è uno adoperato da molti commentatori, che vorrei qui esaminare. L’esposizione più eloquente, come accade spesso, si deve alla penna di Antonio Socci («Così cancellano la nostra cultura», Libero, 4 novembre 2009, p. 1):

Per coerenza i giudici dovrebbero far cancellare anche le feste scolastiche di Natale (due settimane) e di Pasqua (una settimana), perché violerebbero la libertà religiosa.
Stando a questa sentenza, l’esistenza stessa della nostra tradizione bimillenaria e la fede del nostro popolo (che al 90 per cento sceglie volontariamente l’ora di religione cattolica) sono di per sé un “attentato” alla libertà altrui.
I giudici di Strasburgo dovrebbero esigere la cancellazione dai programmi scolastici di gran parte della storia dell’arte e dell’architettura, di fondamenti della letteratura come Dante (su cui peraltro si basa la lingua italiana: cancellata anche questa?) o Manzoni, di gran parte del programma di storia, di interi repertori di musica classica e di tanta parte del programma di filosofia.
Infatti tutta la nostra cultura è così intrisa di cristianesimo che doverla studiare a scuola dovrebbe essere considerato – stando a quei giudici – un attentato alla libertà religiosa. In lingua ebraica le lettere della parola “Italia” significano “isola della rugiada divina”: vogliamo cancellare anche il nome della nostra patria per non offendere gli atei? E l’Inno nazionale che richiama a Dio?
Perfino lo stradario delle nostre città (Piazza del Duomo, via San Giacomo, piazza San Francesco) va stravolto? Addirittura l’aspetto (che tanto amiamo) delle vigne e delle colline umbre e toscane – come spiegava Franco Rodano – è dovuto alla storia cristiana e ad un certo senso cattolico del lavoro della terra: vogliamo cancellare anche quelle?
Ma non solo. Come suggerisce Alfredo Mantovano, «se un crocifisso in un’aula di scuola è causa di turbamento e di discriminazione, ancora di più il Duomo che "incombe" su Milano o la Santa Casa di Loreto, che tutti vedono dall’autostrada Bologna-Taranto: la Corte europea dei diritti dell’uomo disporrà l’abbattimento di entrambi?».
Signori giudici, si deve disporre un vasto piano di demolizioni, di cui peraltro dovrebbero far parte pure gli ospedali e le università (a cominciare da quella di Oxford) perlopiù nati proprio dal seno della Chiesa?
Infine (spazzata via la Magna Charta, san Tommaso e la grande Scuola di Salamanca) si dovrebbero demolire pure la democrazia e gli stessi diritti dell’uomo (a cominciare dalla Corte di Strasburgo) letteralmente partoriti e legittimati (con il diritto internazionale) dal pensiero teologico cattolico e dalla storia cristiana?
L’errore di questo tentativo di reductio ad absurdum è del tutto evidente. Socci crede (o finge di credere?) che alla base del ricorso alla Corte e della sentenza ci sia l’intolleranza verso qualsiasi manifestazione religiosa diversa dalla propria: l’ebreo, il musulmano o – come nel caso concreto – il non credente vedrebbero il crocifisso (o una croce appesa al collo, o il Duomo, o il velo di una monaca) e ne ricaverebbero un senso di turbamento: lì c’è qualcuno che non la pensa come loro, e questo spettacolo intollerabile va immediatamente cancellato rimuovendo il segno dell’appartenenza diversa. Ma lo spirito della sentenza – che Socci evidentemente non ha letto – è ovviamente tutt’altro. Quella che si condanna è l’esposizione di un simbolo religioso nello spazio dello Stato; quel che si condanna è la sanzione che lo Stato imprime su una tradizione religiosa a preferenza delle altre. Quella che si condanna è insomma una forma di statalismo: una forma impropria di aiuto di Stato, per così dire. Stato che getta il proprio peso spropositato sulla bilancia e fa percepire, specialmente (ma non solo) a menti ancora in formazione, di essere schierato a fianco di una religione particolare.

È chiaro che in quest’ottica le conseguenze estreme paventate da Socci mostrano tutta la loro pretestuosità. Tralasciamo quelle più vertiginosamente paradossali, come il significato ebraico del nome d’Italia (’i tal Yah, appunto «isola della rugiada del Signore», è solo un’espressione casualmente omofona di Italia) o l’aspetto delle colline umbre, e limitiamoci alle altre. La manifestazione del culto – anche pubblica, come portare una croce al collo o in processione – non ha nulla a che fare con lo Stato, con scuole, ospedali o tribunali, così come non ce l’ha la Santa Casa di Loreto. Quanto all’insegnamento nelle scuole a base di autori cattolici o di opere d’arte ispirate al cristianesimo o di dottrine filosofiche connesse a questa religione, non è possibile non vedere l’immane differenza rispetto a un simbolo esibito per il suo valore esemplare, là dove nell’educazione è fondamentale la distanza critica interposta fra soggetto e oggetto, che è ha tutt’al più un valore conoscitivo (si può – forse – fare un’eccezione là dove i valori non sono controversi e non investono la nostra coscienza più intima, come per esempio nell’educazione a certi tipi di gusto); tant’è vero che si possono e devono insegnare anche le pagine oscure della nostra storia: non si vorrà dire, spero, che non c’è differenza fra una lezione dedicata al fascismo e un ritratto del Duce appeso in classe... (Tralascio qui le pretese connessioni fra cristianesimo e democrazia, di cui mi sono occupato recentemente in un altro post.)

La tradizione dovrebbe essere una cosa viva, sempre mutevole, che cresce, si adatta, e infine – perché no? – muore. Religioni, modi di pensare, cucinare, parlare, ballare sono in flusso perenne, anche se spesso fingiamo di dimenticarlo. Qualcuno, in particolare, cerca sempre di cristallizzare quel fiume, essenzializzando la tradizione, facendone un modello iperuranio, sostanza di un popolo, la cui perdita sarebbe come una morte parziale (nella retorica di certi conservatori estremi si parla non a caso di etnocidio anche solo per cause banali come l’apertura di un McDonald’s...): oggi Mariastella Gelmini commentava in un’intervista la decisione della corte di Strasburgo con queste parole: «Le radici dell’Italia passano anche attraverso simboli, cancellando i quali si cancella una parte di noi stessi» (Flavia Amabile, «“Si distrugge tutto in nome della laicità”», La Stampa, 4 novembre, p. 3). Anche da idee come queste dipende la statalizzazione delle tradizioni, la corsa al sostegno statale. Ma sono solo le tradizioni morenti ad avere bisogno della stampella pubblica, proprio come – non è un paragone irriverente – le industrie decotte. Altrimenti dovremmo fare ciò che ci propone un commento, apparso stamattina in uno dei più foschi blog integralisti, piccolo capolavoro d’umorismo (credo non involontario) fra tanta furia impotente e lugubri vaticini: «La pizza! La pizza! Io appenderei anche la pizza. Non sia mai che i bambini crescano senza la tradizione italiana».

Buoni genitori a Ferrara (18 novembre 2009)

martedì 3 novembre 2009

Vi perdono: un romanzo post-cristiano

Ilaria, detta Miele, è una giovane donna che aiuta i malati senza speranza a morire. Clandestinamente, fra mille precauzioni, con farmaci acquistati in Messico; non (solo) per denaro, ma per alleviare il ricordo della madre, morta fra lunghe sofferenze senza possibilità di aiuto. Ilaria/Miele è la protagonista del romanzo Vi perdono (Einaudi 2009, pp. 164, Euro 16,00), di Angela Del Fabbro, nom de plume di una scrittrice (scrittore?) che ha scelto di rimanere anonima.
Può sembrare strano per un romanzo che non volge altrove lo sguardo quando si tratta di descrivere tecniche eutanasiche o corpi colpiti dalla malattia, ma Vi perdono è uno di quei libri che è difficile mettere giù anche solo per un attimo prima di averli finiti. Forse è per l’ansia di lasciarsi rapidamente alle spalle quelle pagine angosciosamente realistiche; forse è per la scrittura impeccabile, alla quale al massimo si può rimproverare di comunicare talvolta una sia pur indefinibile sensazione di deja vu (ma può darsi che questo accada perché l’autrice, che non sembra un’esordiente, avrà già dato altre prove letterarie); forse è per il guizzo della trama che a un tratto pone sulla strada di Miele la figura di Augusto Grimaldi, ingegnere in pensione con la passione per Virgilio, che vuole morire per taedium vitae, senza essere affetto da malattie di sorta. Ma non sta qui, nel dilemma morale se sia lecito aiutare a suicidarsi una persona perfettamente sana (dilemma che l’autrice del resto lascia sospeso), l’interesse principale del romanzo.

È frequente, per chi argomenta a favore dell’eutanasia e più in generale del diritto a disporre del proprio corpo, presentare la propria posizione come quella di una minoranza, degna di rispetto a fianco di altre, opposte concezioni. Ma leggendo Vi perdono, con le sue rappresentazioni mai morbose ma tuttavia realistiche di disfacimento e di dignità offesa, è inevitabile giungere a considerare l’eutanasia come l’unica risposta veramente possibile al problema della sofferenza ineliminabile. Unica a causa della comune natura umana, della carne e del sangue che più di tanto non resistono agli insulti, e soprattutto dello spirito che non riesce più di tanto a piegarsi – anche se poi il terrore del nulla, la speranza irrazionale o, più banalmente, la difficoltà di trovare al momento giusto una misericordiosa Miele ci trattengono fino al limite estremo.
In questo senso Vi perdono è un romanzo post-cristiano: perché le ragioni contrarie all’eutanasia e al suicidio assistito sbiadiscono inevitabilmente di fronte alla terribile concretezza della dignità offesa dei corpi che il romanzo ci propone, e non riescono più a succhiare energia da un serbatoio ideologico che palesemente è ormai svuotato. Non occorre nemmeno una polemica esplicita, e non solo perché non abbiamo di fronte un pamphlet: quelle ragioni possono essere trascurate, tanto appaiono remote nella loro strana arcaicità. La guerra è, in un certo senso, già vinta.
Di questo sembrano in qualche modo essersi accorti i recensori cattolici: abbiamo così i fraintendimenti un po’ patetici di Famiglia cristiana, i tentativi di volgere il romanzo a una tesi più gradita di Lucetta Scaraffia, la pagina gonfia di livore di Nicoletta Tiliacos. (I laici non sono stati a dire il vero molto più simpatetici: si va dalla lettura corretta ma un po’ distaccata di Adriano Sofri all’intervista di un Michele Smargiassi che tenta in tutti i modi di far convenire l’autrice sulla propria errata interpretazione.)
Ma è questo anche un romanzo anti-cristiano? No, anzi. Del Fabbro giunge alla fine a una visione riconciliata del cristianesimo come bella invenzione che sottrae chi ci crede al terrore della fine: «Vi perdono» sono le parole che Miele rivolge infine a «stregoni, guerrieri, pastori» della fede. Una visione che è anche profondamente distaccata.
Per Miele infatti la morte non è schermata da care illusioni: è una cosa orribile, ingiusta, oscena, che non meritiamo, e che nulla allevia, neppure l’amore. Tutti gli aspiranti suicidi del romanzo hanno accanto chi li ama o chi offre loro amore, ma senza che questo cambi alcunché. Ed è il contatto prolungato, intimo con la morte, non altro, che alla fine piega Miele. L’unico rifugio sembra essere la narrazione: Ilaria/Miele/Angela comincia a scrivere, a confidare i segreti fino ad allora inconfidabili; noi leggiamo, e ciò che avremmo detto insostenibile ci sembra improvvisamente sopportabile, una storia di cui vuoi sapere la fine. La vecchia catarsi pare funzionare ancora – ma conviene sempre comunque tenere i barbiturici messicani a portata di mano, in fondo all’armadietto dei medicinali.

sabato 31 ottobre 2009

Se i senza-giudizio sognano i senza-genitori

La notizia, pubblicata il 28 ottobre scorso su Nature, che da cellule staminali embrionali sarebbero state derivate cellule germinali, progenitrici di spermatozoi e ovociti, ha generato il prevedibile sciame di commenti, oscillanti fra l’allarmismo infondato e l’indignazione compiaciuta. Colpisce in particolare la sconfortante uniformità con cui nei giornali italiani di ieri si è cercato di far passare il concetto che la scoperta aprirebbe la strada alla nascita di bambini privi di genitori: anche trascurando le volgarità di LiberoChe disastro, non ci saranno più i figli “di buona donna”», p. 23), in cui si cerca come d’abitudine di titillare le sordide paranoie e l’infondato senso di superiorità della canaille microborghese che costituisce il pubblico naturale di quel giornale, l’idea trova ospitalità sulle colonne della Stampa («bambini concepibili […] senza mamma e papà»; il titolo – indegno – è «Il papà di Dolly e i dubbi sul seme di Frankenstein», p. 13) e del Corriere («procreare, estremizzando, senza padre o senza madre»; la sfumatura di prudenza si perde nel titolo: «Le nascite senza genitori. La vita dalle staminali», p. 29). Paradossalmente è più prudente Avvenire, che almeno pone i propri terrori in prospettiva («Un’altra possibile deriva verso la vita “artificiale”», p. 6), mentre col Giornale ritorniamo all’ossessione dominante («Generazione X: così i bimbi nasceranno senza genitori», pp. 16-17), aggravata dalle curiose concezioni dell’articolista («Spermatozoi artificiali […] e ovuli artificiali […] accoppiati in una provetta potrebbero arrivare a fare tutto da soli: creare un embrione, un futuro essere vivente senza l’intervento di mamma e papà»: perché, spermatozoi e ovuli naturali accoppiati in una provetta o anche in una tuba di Falloppio cosa fanno? Hanno bisogno di essere accompagnati per mano?) e da qualche metafora infelice («scienziati che masticano cellule staminali da una vita»). Ci vuole Carlo Flamigni, intervistato dalla Stampa per un soprassalto di sanità mentale («“Passo fondamentale per battere la sterilità”», p. 13), per far notare ciò che dovrebbe essere ovvio a chiunque sia in possesso della dotazione minima di buon senso (e di un diploma di scuola superiore):

Allora professore, ci saranno bambini concepiti già «orfani»?
«Assolutamente no, mi sono stupito quando ho sentito questa sciocchezza. I genitori ci sono eccome e sono le persone dalle quali sono state estratte le cellule staminali. I cromosomi sono i loro. La creazione di bambini senza genitori presuppone la creazione di materiale genetico e siamo mille miglia lontano. È fantascienza».
E naturalmente anche la prospettiva di generare bambini con gameti tratti da staminali è abbastanza remota; per adesso l’unica possibile applicazione della scoperta è lo studio dei fattori che influiscono su sperma e ovociti per determinare sterilità e infertilità.

La cosa più grave, però, non sono le reazioni semi-pavloviane di cronisti fuori dal loro elemento, che cercano nel titolo ad effetto la maniera più spiccia per sbrigarsi e tornare a casa per la cena, ma bensì i commenti in teoria più meditati. In essi il legame con la realtà fattuale dell’annuncio degli scienziati di Stanford, già particolarmente esiguo nelle cronache passate in rassegna più sopra, viene del tutto abbandonato in favore di una sorta di associazione libera di parole e concetti, in cui a uno stimolo meramente verbale («bambini senza genitori») si risponde con ciò che per primo passa per la mente, in modo da far affiorare alla coscienza incubi e nevrosi personali. Così, sempre sul GiornaleSe la scienza ruba emozioni e incontri a uomini e donne», p. 17), per Annamaria Bernardini De Pace, celebre avvocato matrimonialista, la scoperta odierna «toglie definitivamente valore alla coppia»; inoltre, «qualche mamma sarà persino felice di non deformare il suo corpo; di non “partorire con dolore”, ma non potrà mai apprezzare la carezza dell’uomo amato al suo pancione e il primo strillo del bambino che si stacca da lei». Qui il lettore si ferma smarrito: cosa c’entra mai questo scenario da fantascienza con la produzione di gameti a partire da cellule staminali? Il fatto è che l’autrice s’è immaginata – Dio solo sa perché – che a Stanford abbiano tratto dalle cellule staminali, «per una sorta di autogerminazione, sperma e ovuli, tanto che non esisterebbero più né l’altro genitore biologico né, forse, l’utero formativo»; una sorta di partenogenesi combinata con utero artificiale, di cui non c’è ovviamente nessuna traccia nel lavoro degli scienziati (unire a caso gameti derivati da un solo individuo servirebbe oltretutto solo a ottenere embrioni affetti da malformazioni gravissime).
Ancora sul GiornaleQuei figli di nessuno condannati alla follia dal delirio dei medici», p. 17), Claudio Risé associa «la costruzione di figli di nessuno, di essere [sic] umani fabbricati in laboratorio […] senza nessun contributo né di un padre né di una madre» alla sua annosa personale battaglia in favore del ritorno alla figura del padre autoritario:
Quando la mamma non c’è, non guarda e non tocca il suo cucciolo, quello che gli psicologi chiamano Io non si costituisce […]. Quando il papà non è presente, e non aiuta i figli a uscire dalla fusione che si instaura con la madre nelle prime settimane di gravidanza e continua per anni, il soggetto umano non si forma […] Negli ultimi trent’anni, in cui i padri assenti, o espulsi dal matrimonio sono diventati fenomeno di massa, le statistiche hanno mostrato che questi figli senza padre rappresentano in ogni paese il gruppo di testa dei principali disagi psichici, dalle tossicomanie agli atti di violenza, dai disturbi alimentari alle depressioni.
La famiglia è spesso un problema, ma non averla per niente è peggio.
Di nuovo: cosa c’entra questo con la scoperta di cui parla Nature? L’unica possibilità di dare un senso a queste righe è che Risé abbia indebitamente generalizzato la notizia (già in partenza fasulla), interpretandola in maniera estensiva e passando quindi dal piano biologico a quello sociale: i bambini non sarebbero solo concepiti in laboratorio, ma – sembra di capire – vi verrebbero anche cresciuti.
Risé, ad essere sinceri, conclude l’articolo con un appello condivisibile: «Tuttavia di fronte al sinistro circo Barnum tecnoscienza & mercato dei bambini, preoccupiamoci pure, ma non cadiamo nell’isteria»; ma l’esempio che subito dopo ci fornisce di reazione non isterica è questo:
È proprio ciò che gli scienziati pazzi vorrebbero, per poter dire che gli amanti della natura sono poveri matti retrogradi, e loro i sani. Per contrastare i loro scenari avidi, occorre lucidità e sangue freddo. In fondo, non sono passati neppure due secoli da quando, nel 1916 [sic], Mary Shelley, spinta da Lord Byron a scrivere un racconto gotico, vide in un incubo uno studente, Victor Frankenstein, che si inginocchiava di fianco ad una creatura che aveva costruito; e questa, grazie a qualche forza ancora sconosciuta, mostrava segni di vita. Era l’annuncio della tecnoscienza, ed il primo grido di allarme per i suoi futuri deliri. Non serve scandalizzarsi per le visioni umane, vanno però messe sotto controllo. O sono guai.
Scienziati pazzi, «scenari avidi», il mostro di Frankestein e i deliri della tecnoscienza: non c’è che dire, una risposta proprio compassata...

Queste risposte, fra l’isterico e lo stralunato, a una scoperta che si sarebbe dovuta accogliere invece con interesse e apertura, ci mostrano ancora una volta come il sentimento antiscientifico dominante sia un segnale di grave pericolo per il progresso del nostro paese; progresso non solo civile ma anche materiale, non tanto perché la scienza costituisce il motore ultimo della crescita economica, ma perché là dove si reagisce con terrore inarticolato a ogni minima opportunità e a ogni minimo rischio, lo spirito di intraprendenza non può essere che morto da un pezzo.

Aggiornamento 1/11: da leggere la riflessione di Michele Serra (nell’«Amaca» di ieri) su come è stata data la notizia.

mercoledì 28 ottobre 2009

29 ottobre 2009

Copertina definitiva?

Presentazione di Buoni genitori presso la sede nazionale UAAR (Roma, Via Ostiense 89 ore 18.00).

Fra i barbari

Ilaria Carra, «Melzo, in tre chiedono di abortire. Il primario urla in corsia: “Assassine”», Repubblica, 27 ottobre 2009:

Avevano deciso di abortire. Ma una volta all’ospedale, per gli accertamenti preliminari all’interruzione di gravidanza, il primario, obiettore di coscienza, le ha umiliate nel corridoio del reparto, davanti al personale e alle degenti. «Assassina, sta uccidendo suo figlio», ha urlato Leandro Aletti, responsabile di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Melzo e noto antiabortista, simpatizzante di Comunione e liberazione, a ciascuna delle tre donne, dai 27 ai 36 anni, che avevano scelto quella struttura pubblica per abortire.
L’aggressione verbale è riportata nella denuncia per ingiuria presentata al giudice di pace di Cassano d’Adda […].
In un paese civile, il responsabile sarebbe stato licenziato e l’ospedale costretto a un risarcimento multimilionario. Qui è già tanto che si arrivi a una letterina di scuse più o meno ipocrite.

Aggiornamento: l’Aletti, a quanto pare, ha fatto anche di peggio (ma la condanna subita non ha interrotto la sua carriera).

Aggiornamento 2: impagabile il titolo del post che Guia Soncini ha dedicato all’episodio: «Poi, quando qualcuno fonda il gruppo Facebook “Aspettiamo Leandro Aletti con delle mazze chiodate nel parcheggio dell’ospedale”, tocca pure leggere dichiarazioni indignate e solidali».

venerdì 23 ottobre 2009

Per qualcuno i barboni sono come la polvere

Just homeless

Le ingiustizie e le mistificazioni cominciano dalle parole: clandestini, sbandati, bivacco, decoro urbano.
E proseguono con una cieca e ignobile azione esclusivamente punitiva e coercitiva. Dopo il divieto di mangiare e bere nei luoghi “pregiati” di Roma, l'ordinanza contro i lavavetri, i giocolieri e gli ambulanti e la cosiddetta ordinanza antiborsoni, ecco in arrivo un altro stupido gradino di un progetto miope e osceno: le panchine antibarbone. Ovvero panchine divise in due da un bracciolo per evitare che qualcuno vi si posa sdraiare. Nani e bambini a parte. Forse ai nostri burocrati dell'ordine è sfuggita questa possibilità. Ma i nani sono pochi e i bambini magari fanno tenerezza anche agli aridi cuori della giunta capitolina.
I fondi per modificare le panchine o per costruirne di nuove ci sono già: quanti soldi saranno spesi per evitare di sdraiarsi a chi non ha nessun posto dove andare? Nessuno ha nemmeno considerato che si potrebbero spendere per offrire un luogo dove dormire e non per rendere ancora più dolente una esistenza che è già disgraziata?
No, l'unica preoccupazione di gente come Fabio de Lillo, assessore all'Ambiente, è di cacciare la polvere sotto al tappeto e negare o fregarsene della drammatica realtà di alcuni esseri umani. Già. Perché quella polvere che non si vuole vedere non è quella presente anche nei loro salotti buoni, ma sono persone.

DNews, 23 ottobre 2009

martedì 20 ottobre 2009

Incostituzionale? Per niente

La Rete Lenford (un gruppo di avvocati che si occupano della tutela giudiziaria delle persone omosessuali) ha emesso un comunicato stampa in cui si dimostra come siano del tutto inesistenti le pretese violazioni delle norme costituzionali elencate nella pregiudiziale presentata dall’UDC e approvata dalla Camera di Deputati il 13 ottobre scorso, con la quale è stato affossato il disegno di legge che introduceva la circostanza aggravante relativa all’orientamento sessuale.

Secondo gli estensori della questione pregiudiziale il progetto di legge introduceva, in violazione dell’art. 3, un trattamento differenziato fondato su un elemento irragionevole, che risiederebbe nel fatto che l’espressione “orientamento sessuale” comprenderebbe “qualunque orientamento, ivi compresi incesto, pedofilia, zoofilia, sadismo, necrofilia, masochismo eccetera”.
Questa affermazione è del tutto incongruente ed errata.
Infatti, nel suo significato semantico l’espressione “orientamento sessuale” non corrisponde a nessuno dei fenomeni sopra elencati, essendo una condizione personale ascritta e avendo una sua precisa definizione scientifica come attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso una persona del proprio sesso o del sesso opposto.
Neppure nel suo contenuto legislativo, la dizione “orientamento sessuale” può dirsi comprensiva delle sopra menzionate condotte erotiche che invece non sono condizioni personali ascritte, ma vengono fatte rientrare dalla scienza medica nella categoria dei disturbi del comportamento sessuale.
Peraltro, è proprio l’asserita arbitraria assimilazione tra “orientamento sessuale” da un lato, e condotte erotiche quali incesto, pedofilia, zoofilia ecc. dall’altro, che costituisce una disparità di trattamento del tutto irragionevole, e ciò perché, com’è evidente, l’orientamento sessuale è cosa ben diversa dalle predette condotte, che si caratterizzano tutte come indirizzate a specifiche categorie di soggetti che non possono catalogarsi in base all’orientamento sessuale. Così, ad esempio, un pedofilo è tale in virtù dell’età della sua vittima, a prescindere dalla circostanza che la vittima abbia o meno il suo stesso sesso. Analogamente, un necrofilo è tale in virtù del fatto che la sua vittima è morta, cioè, ancora, a prescindere dalla circostanza che la vittima abbia il suo stesso sesso o quello opposto. Inutile dilungarsi sulle altre condotte.
Del resto, l’ordinamento italiano e sovranazionale già sanziona, con norme di natura penale, le condotte sopra elencate, che sono considerate dannose per la vittima, mentre protegge espressamente l’orientamento sessuale, per esempio contro le discriminazioni nei luoghi di lavori o nella definizione dei requisiti per lo status di rifugiato. […]
Si vorrebbe far credere, nella mente degli estensori della questione pregiudiziale, che l’elemento soggettivo in capo all’autore del reato (“l’interiorità dell’animo” quale “autentico movente”), sarebbe difficilmente accertabile, e quindi di per sé contrario al principio di uguaglianza, perché irragionevolmente discriminatorio.
A questa visione basta rispondere che il codice penale ben conosce ipotesi di dolo specifico e che le difficoltà di accertamento del reato non possono, da sole, giustificare un rifiuto di tutela da parte del legislatore, che è chiamato, in virtù dei suoi doveri costituzionali, a porre fine alle discriminazioni e non ad alimentarle attraverso considerazioni di ordine pratico che la legge, invece, assegna sempre al giudice perché le risolva nel corso di un procedimento giudiziario, con gli strumenti che il diritto processuale mette a sua disposizione.
Quale ulteriore asserita motivazione di incostituzionalità della proposta di legge, basata sull’art. 25 della Costituzione, ed in particolare sul principio nullum crimen sine lege, mancherebbe una definizione dell’espressione “orientamento sessuale”, mancanza che renderebbe imprecisato l’oggetto dell’aggravante.
Si tratta, anche qui, di un’opinione del tutto incongruente, per le stesse ragioni evidenziate sopra e in più perché la nozione di orientamento sessuale è già presente nella legislazione penale italiana. Infatti dal combinato disposto degli articoli 10 e 18 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e dall’articolo 38 dello Statuto dei lavoratori risulta una fattispecie penale tra i cui elementi vi è proprio l’orientamento sessuale. […]
Da leggere tutto.

mercoledì 14 ottobre 2009

Il fallo da espulsione di Paola Binetti

Come ha giustificato l’onorevole Binetti il suo voto contrario alla legge sull’omofobia? L’agenzia Adnkronos ha battuto ieri alle 18.10 il seguente dispaccio:

«Per come era formulata la legge, le mie opinioni sull’omosessualità potevano essere individuate come un reato... le mie e quelle di tante altre persone». Paola Binetti spiega così il suo voto a favore della pregiudiziale di costituzionalità che ha bocciato il ‘testo Concia’ sull’omofobia. Per la deputata teodem quel testo «era ambiguo, io ho votato per rinviarlo in Commissione e migliorarlo ma la richiesta di rinvio è stata bocciata. C’era un’ambiguità che giustificava le mie riserve». Binetti sottolinea di essere, ovviamente, «contraria a ogni forma di violenza, in questo caso alla violenza contro gli omosessuali. Ma la formulazione della legge lasciava aperta la strada a successive interpretazioni che potevano configurare il reato di omofobia solo per aver espresso delle opinioni, o per una madre che prova a convincere il figlio che gli ha appena detto di essere gay». […]
Dichiarazioni quasi identiche sono state riportate dall’Ansa. Andiamo allora a vedere il testo del disegno di legge bocciato che tante apprensioni ha provocato alla Binetti, il cui titolo era «Introduzione nel Codice Penale della circostanza aggravante inerente all'orientamento o alla discriminazione sessuale» (C. 1658-1882):
All’articolo 61, comma 1, del codice penale, dopo il numero 11-ter), è aggiunto il seguente:
«11-quater) l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la personalità individuale, contro la libertà personale e contro la libertà morale, commesso il fatto per finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato».
L’art. 61 del C.P. esordisce così: «Aggravano il reato quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali le circostanze seguenti». Come si vede, il ddl avrebbe introdotto non una nuova figura di reato, ma un’aggravante per delitti già previsti e puniti dal codice. Non si capisce allora come l’onorevole Binetti possa trovare «ambiguo» questo testo: se le sue opinioni sull’omosessualità non costituiscono già oggi reato, il nuovo comma del Codice penale introdotto dal ddl non avrebbe potuto certo modificare la situazione. Per fare un altro esempio, siccome oggi non è un delitto che una madre cerchi di convincere (senza usare violenza) il proprio figlio a fare qualcosa, non sarebbe stato domani un delitto cercare di convincerlo a cambiare orientamento sessuale.

Delle due l’una, allora: o la Binetti ha votato – in un’occasione importante, in cui si è trovata sola contro tutto il resto del suo partito – senza conoscere il testo su cui si esprimeva; oppure ha mentito, e il suo voto è stato dettato da motivazioni inconfessabili. Non so decidere cosa sia più grave.

Ancora attuale

Sempre attuale.

martedì 13 ottobre 2009

Il giornalismo scientifico secondo Liberazione

C’è qualcosa che non va in un articolo pubblicato pochi giorni fa su Liberazione (Massimo De Santi, «Prove di guerre stellari?», 10 ottobre 2009, p. 10):

Sconcertante e allarmante il recente annuncio dato dalla Nasa: gli Stati Uniti d’America hanno lanciato ieri alle 4.30 ora della Florida (10.30 in Italia) un missile probabilmente a testata nucleare che colpirà il suolo lunare nella zona del Polo Sud con il fine, si dice, di scoprire se il nostro satellite contenga acqua.
Il «missile» era in realtà l’ultimo stadio, ormai privo di carburante, del razzo che era servito per portare assieme nello spazio le sonde Lunar Reconnaissance Orbiter e LCROSS (Lunar CRater Observation and Sensing Satellite). Che recasse «probabilmente» anche una testata nucleare è una illazione dell’autore dell’articolo che non solo è falsa, ma non ha nemmeno il minimo addentellato nella realtà: lo stadio (del tipo Centaur) non aveva testate esplosive di nessun tipo, e doveva formare un cratere sulla superficie lunare con la sola energia cinetica liberata nell’impatto.
Il missile Centaur è stato lanciato dalla navicella spaziale Lacross, messa in orbita attorno alla luna nel mese di giugno, e dovrebbe provocare un cratere di circa 4 metri e largo 20, sollevando un’enorme nuvola di detriti.
Il Centaur aveva una massa di 2366 kilogrammi al momento dell’impatto lunare, mentre la sonda LCROSS (non Lacross...) ne pesava al lancio da terra 891, compreso il carburante (traggo tutti i dati dal kit per la stampa della Nasa). Sarebbe quindi più corretto dire che il Centaur ha lanciato LCROSS, non viceversa. Sonda e stadio orbitavano attorno alla Terra (in 37 giorni), non attorno alla Luna.
Dopo il violentissimo impatto, la parte rimanente della navicella Lacross, dal nome del Progetto stesso, dovrebbe passare dentro la nube di detriti per raccogliere materiale e consentire ai ricercatori e ai tecnici di verificare se ci sono resti di ghiaccio e vapore, la cui presenza confermerebbe l’esistenza di acqua al di sotto del suolo lunare.
Si dice che sulla navicella non ci sono esseri umani (ci mancherebbe altro!), ma ciò non giustifica le immense spese sostenute per soddisfare la curiosità scientifica di vedere se c’è acqua sulla luna, mentre sulla terra questa risorsa, bene prezioso per la nostra vita, si continua a sprecare invece di salvaguardare.
Dio solo sa perché De Santi usi una formula dubitativa («Si dice») per qualcosa in cui non crede nemmeno lui («ci mancherebbe altro!»). Quanto alle «immense spese sostenute» dalla Nasa per questa missione, ammontano a 79 milioni di dollari. Possono sembrare tanti, ma il budget della Nasa per l’anno fiscale 2009 è stato di 17,6 miliardi di dollari: 223 volte tanto. A sua volta il bilancio della Nasa ammonta a meno dell’1% del bilancio federale americano.
Sorvolo sulle elucubrazioni complottistiche dell’autore («Allora: qual è lo scopo occulto?»), che si firma alla fine «Massimo De Santi (fisico nucleare, Cpr Toscano)», anche se risulta specializzato in fisica sanitaria e protezione dalle radiazioni nucleari.

La missione LCROSS non sembra essere stata un clamoroso successo; forse quei soldi sarebbero stati spesi meglio dirigendo il razzo Centaur su qualche redazione...

lunedì 12 ottobre 2009

Le chimere e la vittoria di Pirro

L’urlo di trionfo è echeggiato a lungo negli scorsi giorni: ben tre articoli (E. Del Soldato, «Londra “scarica” le chimere», Avvenire, 6 ottobre 2009, p. 24; «Il flop degli embrioni ibridi in Gb», Il Foglio, 7 ottobre, p. 3; A. Morresi, «Scandaloso silenzio sul fallimento delle chimere», Avvenire, 8 ottobre, p. 2) hanno riportato con esultanza nella stampa integralista una notizia apparsa sull’Independent (Steve Connor, «Vital embryo research driven out of Britain», 5 ottobre 2009), che raccontava dell’abbandono delle ricerche sui cosiddetti cibridi nel Regno Unito, dopo che i comitati finanziatori avevano rifiutato tre richieste di fondi da parte di altrettanti scienziati, uno dei quali ha lasciato in seguito l’università per dedicarsi alla ricerca industriale, mentre altri due si sono trasferiti in Spagna e in Australia.
Cosa sono i cibridi? Uno dei problemi della clonazione terapeutica (la tecnica con cui si potrebbero creare tessuti ed organi per trapianti, geneticamente identici a quelli di un paziente e quindi non soggetti a rigetto) è quello della scarsità di ovociti umani. Normalmente nella clonazione si sostituisce il nucleo dell’ovocita di una donatrice con il nucleo di una cellula del paziente, e si fa moltiplicare la cellula risultante fino ad ottenere cellule staminali embrionali. Ma le donatrici, per vari motivi, sono poche, mentre la tecnica – ancora molto inefficiente – richiede molti ovociti. L’espediente ideato da alcuni ricercatori consiste allora nell’usare al posto degli ovociti umani ovociti animali (in genere di bovini o conigli), disponibili in grande quantità. Dopo l’inserimento del nucleo di una cellula umana nell’ovocita animale, si ottiene quello che viene chiamato ibrido citoplasmatico (perché il citoplasma della cellula non ha la stessa origine del nucleo), in inglese cytoplasmic hybrid, che si contrae in cybrid, cibride.
All’inizio di settembre del 2007, dopo pubbliche consultazioni, la Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA) del Regno Unito aveva concesso la licenza di perseguire questi studi ad alcuni gruppi di ricerca, ritenendoli compatibili con l’esistente quadro normativo (in seguito una nuova legge ha codificato più chiaramente questa possibilità). Lo sviluppo delle cellule eventualmente ottenute sarebbe stato arrestato dopo pochi giorni, senza tentare per il momento applicazioni terapeutiche, e naturalmente senza tentare di far nascere degli ibridi uomo-animale (che comunque sarebbero stati praticamente indistinguibili da normali esseri umani). L’abbandono delle ricerche di cui parla l’Independent non ha dunque nulla a che fare con la legge o con questioni morali: come ha dichiarato Colin Miles, uno dei decisori che hanno negato i finanziamenti, «possedere una licenza della HFEA che autorizza a condurre un certo tipo di ricerca non comporta automaticamente l’assegnazione di finanziamenti ai ricercatori, che devono ancora competere per i fondi in base alla qualità scientifica, all’impatto strategico e alle potenzialità del progetto di contribuire significativamente al corpus di conoscenze in quell’area particolare». Il rifiuto è insomma stato di natura tecnico-scientifica (le ricerche non porteranno a risultati tali da giustificare la spesa), non giuridico-morale (le ricerche sono mostruose e non si devono fare).

È questa una sconfitta per chi si batte a favore della libertà di ricerca? Naturalmente la notizia non è positiva: una linea di ricerca abortita significa un’opportunità in meno di conoscenza e un’opportunità in meno di terapie. Ma «libertà di ricerca» non ha mai significato che qualsiasi ricerca debba essere perseguita; viviamo in un mondo di risorse – tempo, attenzione, fondi – limitate, e per quanto alta possa essere la percentuale di esse destinate alla ricerca, è ovvio che solo un numero limitato di progetti potranno venire finanziati. La ricerca è libera, piuttosto, quando non deve sottostare a vincoli esterni arbitrari, che – nel caso dei cibridi – erano rappresentati dalle ubbie ideologiche di chi pretendeva di salvaguardare la propria visione essenzialistica dell’umanità, che non andrebbe «contaminata» con il citoplasma «bestiale» per evitare pericolose «confusioni». Con la decisione della HFEA del 2007 e la successiva legge approvata dal parlamento britannico, la causa della libertà di ricerca ha vinto, e se domani nuovi dati dovessero dimostrare che i cibridi rappresentano tutto sommato una via che vale pena percorrere, nulla potrà opporsi alla ricerca in questo campo.

Se il partito della libertà di ricerca dice: le idiosincrasie morali non contano, quel che conta è solo se una ricerca sia utile o meno, cosa dovrebbe dire il partito avversario? Naturalmente l’opposto: l’utilità di una ricerca non conta, conta solo la sua moralità. Consideriamo un principio etico su cui esiste un consenso praticamente universale: non possiamo sacrificare persone umane – vere persone umane, non quelle che il Culto dell’Embrione si sforza di far passare per tali – alla ricerca. Questo è un assoluto, che non varia nemmeno se a un certo punto qualcuno progettasse una ricerca con cavie umane capace di dare benefici all’intero genere umano al prezzo del sacrificio di poche dozzine di soggetti sperimentali.
Quali commenti ci saremmo allora aspettati di trovare nella stampa integralista in seguito alle notizie dal Regno Unito? Più o meno qualcosa del genere: siamo sollevati nel sapere che quelle ricerche per adesso sono state sospese, ma purtroppo questo non significa che i nostri principi siano stati accolti; la lotta continua, etc. etc. Cosa troviamo, invece? In un certo senso, l’esatto opposto: gli integralisti tengono a sottolineare di aver sempre sostenuto che quelle erano in primo luogo ricerche inutili. Così, la fanatica Josephine Quintavalle dichiara ad Avvenire che si sapeva che «tali esperimenti non garantiscono nulla, tanto meno una cura per malattie terminali». Per il Foglio, «la storia è parecchio istruttiva»; ma istruttiva perché? Per l’anonimo editorialista, se ne può trarre un insegnamento «soprattutto se ci si ricorda delle infuocate polemiche con tanto di appelli sullo sullo [sic] Times di scienziati per la libertà di ricerca, contro il parere di altri scienziati che avevano avvertito della inconsistenza e della assurdità di “quella” ricerca». Addirittura, di nuovo su Avvenire, Assuntina Morresi tiene a precisare che i motivi dell’abbandono della ricerca «non sono etici», e ribadisce: «Che quel filone di ricerca fosse inutile e superato lo si poteva capire leggendo la letteratura scientifica sul tema».
Quel che manca cospicuamente, in tutti questi commenti, è appunto il primato della dimensione morale; gli autori sembrano fare proprio l’argomento opposto, che quel che conta è solo se una ricerca sia utile o meno. Naturalmente non sono stupidi, e se fanno questo è solo perché sanno bene che le loro argomentazioni morali posseggono ben poco appeal, persino per il loro stesso pubblico; ma in questo modo, proprio nel momento in cui esultano, rendono un servigio non di poco conto ai loro avversari, perché sembrano implicare che ove quelle ricerche fossero utili, sarebbero per questo giustificate. E la loro vittoria, allora, si rivela infine per quello che è: una mesta vittoria di Pirro.