giovedì 3 agosto 2006

Impianto forzoso dell’embrione: le Linee Guida e la prima ‘modifica’ alla legge 40

In base all’articolo 6, comma 3, della Legge 40 “La volontà [di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita] può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma [i genitori biologici] fino al momento della fecondazione dell’ovulo”. La possibilità di cambiare idea, in altre parole, è concessa per tutto il tempo precedente alla manifestazione della volontà di ricorrere alla procreazione assistita e per il tempo compreso tra la manifestazione scritta della suddetta volontà e l’applicazione delle tecniche (tempo non inferiore a sette giorni). Che cosa succede se la coppia, o la sola donna, cambia idea dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo? Se la donna si rifiuta di sottoporsi all’impianto, dovrebbe essere obbligata tramite la forza? Secondo la Documentazione della Società Italiana Scienze della Medicina della Riproduzione sul Ddl 1514 (1 Ottobre 2002) “Il fatto che la donna, dopo la fecondazione dell’ovulo, non possa più modificare la scelta di ricorrere al concepimento assistito sembra presupporre un trattamento sanitario obbligatorio (che presuppone l’utilizzo della forza pubblica, che, nell’esempio sopra esposto [rifiuto della donna di recarsi presso il centro medico il giorno previsto per l’impianto], dovrebbe coattivamente trasportare la paziente al centro, legarla al lettino operatorio, farle trasferire nell’utero gli embrioni). Nel caso la norma non prevede espressamente il trattamento sanitario obbligatorio ma si limita a prevedere l’impossibilità di revocare il consenso al trattamento sanitario, come se atti esteriori, quali il rifiuto a recarsi al centro di PMA, non potessero essere vinti se non con la coercizione della donna”.
La violazione della volontà della donna (della paziente) avverrebbe in assenza di una disposizione legale e in violazione dell’articolo 32, comma 2 della Costituzione che prevede che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, e ancora che “la legge non può in nessun modo violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. È ragionevole sostenere che l’imposizione di una maternità contro la volontà della donna costituisca una violazione della dignità e della personalità umana. D’altra parte, non esistono alternative legali all’eventuale rifiuto da parte della donna di sottoporsi all’impianto dell’ovulo fecondato: crioconservazione, distruzione o adottabilità dell’embrione sono tutte strade non percorribili legalmente.
Nella migliore delle ipotesi l’irrevocabilità della volontà dopo la fecondazione spinge in un vicolo cieco, nella peggiore impone tramite la coercizione legale una gravidanza non più desiderata giudicando il diritto del concepito più forte del diritto di scelta della donna.

Ma tralasciamo tutte le eventuali conseguenze e considerazioni sull’impianto forzoso e spostiamoci sulle Linee Guida.

“È proibita ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica. Ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 14, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale. Qualora dall’indagine vengano evidenziate gravi anomalie irreversibili dello sviluppo di un embrione, il medico responsabile della struttura ne informa la coppia ai sensi dell’art. 14, comma 5. Ove in tal caso il trasferimento dell’embrione, non coercibile, non risulti attuato, la coltura in vitro del medesimo deve essere mantenuta fino al suo estinguersi” (Linee Guida, sull’Articolo 13).
Se la coppia rifiuta l’impianto dell’embrione gravemente malato, l’embrione non sarà impiantato (non coercibile, appunto).

[Digressione sulla Diagnosi Genetica di Preimpianto. Come facciamo a sapere se l’embrione è affetto da ‘gravi anomalie irreversibili’? Secondo le Linee Guida utilizzando una diagnosi osservazionale: il microscopio. E quali sono le anomalie irreversibili? Ma, soprattutto, quali sono le anomalie irreversibili che la diagnosi osservazionale può rilevare? Soltanto alcune, e soltanto quelle che presentano anomalie morfologiche riscontrabili dal microscopio; tutte le anomalie genetiche (gravi e irreversibili) supererebbero brillantemente l’esame microscopico. Il risultato è che l’embrione affetto da una certa anomalia (morfologica) sarebbe scoperto e potrebbe di conseguenza non essere impiantato; l’embrione affetto da un’altra anomalia (soltanto genetica) non sarebbe scoperto e non ci sarebbe la possibilità di scegliere se impiantarlo oppure no. Non è superfluo ricordare che le malattie genetiche che la diagnosi genetica di preimpianto potrebbe riscontrare sono malattie gravissime, come la Talassemia, la Corea di Huntington o la Fibrosi Cistica; pertanto non è percorribile la strada di una gerarchia di anomalie, secondo la quale soltanto le più gravi (quelle morfologiche) giustificherebbero l’indagine e il rischio che l’embrione non venga trasferito.
E qui emerge tutta l’assurdità del divieto: anche la diagnosi osservazionale ha dunque ‘finalità eugenetiche’, perché crea le condizioni per scartare l’embrione affetto da anomalie (sebbene soltanto da quelle osservabili). La legge 40 e le Linee Guida si affidano ad una grottesca assimilazione tra eugenetica e genetica (di preimpianto), condannando la diagnosi di preimpianto per assonanza perché genetica (e di conseguenza, come in una cantilena, eugenetica) e invece assolvendo le diagnosi osservazionali, nonché implicitamente le diagnosi prenatali: amniocentesi o villocentesi. È evidente che se vietando la diagnosi genetica di preimpianto si vuole evitare l’eliminazione ‘eugenetica’ di un embrione non sano, a maggior ragione si dovrebbe vietare qualunque indagine prenatale che inevitabilmente può portare la donna a decidere di abortire in caso di diagnosi infausta, con il conforto della legge. Lo stesso discorso vale se l’embrione in vitro è sottoposto alla sola indagine osservazionale e non a quella genetica: l’unica conclusione possibile, e al contempo incongrua, è che il fantasma dell’eugenetica razziale circonda soltanto la diagnosi genetica di preimpianto, e risparmia la diagnosi osservazionale prima dell’impianto e le indagini prenatali. Ci troviamo di fronte a tre diverse diagnosi che creano le condizioni per la stessa libera decisione: interrompere lo sviluppo dell’embrione affetto da gravi patologie. Due di queste diagnosi sono permesse, una è vietata a causa del suo nome (un po’ come si prova antipatia per un nome proprio: per una associazione magari ormai dimenticata con una persona sgradevole).]

Se è benvenuta ed esplicita l’affermazione che il trasferimento dell’embrione non è coercibile, sebbene si parli di embrioni gravemente malati e soltanto di alcune gravi malattie, è invece piuttosto incomprensibile cosa potrebbe accadere nel caso la coppia rifiutasse l’impianto di un embrione sano:
“Qualora il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile per cause di forza maggiore relative allo stato di salute della donna non prevedibili al momento della fecondazione e, comunque, un trasferimento non risulti attuato, ciascun embrione non trasferito dovrà essere crioconservato in attesa dell’impianto che dovrà avvenire prima possibile” (Linee Guida, sull’Articolo 14).
Quali sono le cause di forza maggiore che le Linee Guida giudicano sufficienti a rifiutare l’impianto? Che cosa significa ‘prima possibile’? E cosa succede se non si verificano mai le condizioni per l’impianto? Non è assolutamente chiaro. In ogni modo si apre uno spiraglio rispetto alla legge 40, pur nella confusione concettuale e linguistica, come ha sottolineato giustamente Giuseppe Regalzi: in italiano corretto si sarebbe detto “o, comunque”, non “e, comunque” (oppure, aggiungerei, “e, dunque”).

Che ne è degli embrioni non impiantati? Nel caso di un embrione malato “la coltura in vitro deve essere mantenuta fino al suo estinguersi”. Verrebbe da domandare: se l’unica possibilità per quell’embrione malato è di languire fino alla morte, perché non lasciarlo morire adesso? Il tempo che intercorre tra ‘adesso’ e la morte per decadimento naturale non è un tempo che abbia un qualche significato per l’embrione (emerge inoltre la domanda che riguarda anche tutti gli embrioni sovrannumerari: perché non destinarlo alla ricerca scientifica?). Ancora una volta è necessario chiamare in causa l’equiparazione tra concepito e persona: con questa premessa i dilemmi sollevati dalla scoperta di una grave anomalia dell’embrione, tale che non venga impiantato ma mantenuto in coltura e lasciato morire naturalmente, somigliano impropriamente ai dilemmi sollevati dalla eutanasia. Se l’embrione è una persona, e se l’eutanasia non è permessa (al più è concesso non accanirsi terapeuticamente), allora nemmeno l’eutanasia dell’embrione è concessa.
Nel caso in cui il trasferimento non venga attuato per “grave e documentata causa di forza maggiore relativo allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione è consentita, la crioconservazione degli embrioni stessi fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile”. A parte l’impropria virgola tra il predicato e il soggetto, sono troppe le domande inevase che ho già formulato, soprattutto dal momento che queste Linee Guida dovrebbero essere indicazioni operative per l’applicazione delle norme in materia di procreazione assistita. Anche soltanto il dominio delimitato dallo ‘stato di salute della donna’ è troppo vasto e impreciso per offrire una strada da seguire. L’interpretazione, allora, rischia di essere o troppo allargata oppure troppo ristretta, comunque quasi a totale discrezione del medico (ma è il medico il responsabile di valutare lo stato di salute della donna? E la salute si limita ad essere quella fisica, oppure si estende anche a quella psichica?).
Anche la crioconservazione è vietata (e punita come la soppressione di embrione), sebbene le Linee Guida la permettano nel caso di non impianto di un embrione sano. Per comprendere questo divieto non è sufficiente richiamare lo statuto personale dell’embrione, perché tra il congelamento di un embrione creato in vitro e una persona (che non sia un embrione, ma ad esempio un bambino) c’è una differenza rilevante: crioconservare un bambino implica la sua morte; criconservare un embrione no. O meglio, non necessariamente. Gli embrioni crioconservati sono spesso usati per ulteriori tentativi di impianto; può succedere però che rimangano congelati, e che dunque siano destinati a morire dopo un certo numero di anni. Mi domando se il divieto di criconservare gli embrioni verrebbe meno se 1) ci fosse una tecnologia in grado di non far morire gli embrioni, 2) si potesse avere l’assicurazione che gli embrioni cosiddetti sovrannumerari sarebbero adottati.

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