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lunedì 7 ottobre 2013

Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /3

Pietra batte Carta
Proseguendo, dopo la seconda parte, nell’esame delle interpretazioni errate della proposta di legge contro l’omofobia, ci imbattiamo in quello che rappresenta il cuore delle obiezioni integraliste alla futura norma: il timore che, una volta approvata la legge, possa divenire un reato anche il semplice obiettare al matrimonio tra omosessuali; l’estensione della legge Mancino sarebbe insomma maliziosamente propedeutica – una volta imbavagliata l’opposizione – a una futura legge sulle nozze gay.
C’è anche chi si spinge più in là, come Paola Binetti, che sulla Nuova Bussola QuotidianaSi rischia di creare un reato di opinione», 18 luglio 2013) così argomenta:

Potrebbe ad esempio apparire come reato, in quanto giudicato segno e sintomo di omofobia, l’opporsi al matrimonio gay o alla adozione da parte delle coppie gay, cosa particolarmente rilevante se si tiene conto che proprio in questo momento al Senato si stanno discutendo questi disegni di legge. L’approvazione della legge in materia di “Discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere” limiterebbe la possibilità di discussione, perché il rischio di una potenziale incriminazione potrebbe essere tutt’altro che remoto, in potenziale contraddizione con l’art. 68 della stessa Costituzione, che afferma: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
La citazione dell’articolo 68 non lascia adito a dubbi: per la Binetti, a essere intimiditi sarebbero potenzialmente i membri stessi delle Camere; basterebbero un’opinione espressa durante i lavori parlamentari o un voto palese contro il matrimonio gay per ritrovarsi con il collo esposto alla mannaia della neomodificata Legge Mancino.
C’è però un piccolo problema: come osserva la stessa Binetti, un’interpretazione siffatta delle disposizioni di legge sarebbe incostituzionale. L’art. 68 della Costituzione può avere qualche punto dibattuto (lo vedremo tra poco), ma su una cosa è chiarissimo: opinioni e voti espresse e dati dai membri delle Camere nelle aule parlamentari sono insindacabili, come lo è ogni altra attività «di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento» (legge 20 giugno 2003, n. 140, art. 3 c. 1), e in ogni caso l’azione dei magistrati è limitata da precise salvaguardie per il parlamentare. Per quanto creative possano essere le interpretazioni della legge date dal perfido magistrato laicista-massone-comunista di turno, ben difficilmente questi potrà avere l’improntitudine di leggere «nero» là dove c’è scritto «bianco»; e se per assurdo l’avesse, non avrebbe comunque bisogno della giustificazione di una semplice legge ordinaria. Si può poi facilmente immaginare l’esito di una simile iniziativa, e forse anche il destino personale di chi la prendesse.
Sembra quasi che per la Binetti la proposta di legge sull’omofobia possa divenire, una volta approvata, misteriosamente superiore alla Costituzione, che rimarrebbe per qualche motivo sospesa e priva di efficacia. Credo proprio che questo sia concedere un po’ troppo alle capacità di legislatore dell’onorevole Scalfarotto...

Di queste considerazioni di diritto spicciolo sembra consapevole un altro critico della proposta di legge, Mauro Ronco – il che non sorprende, visto che è professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Padova. Scrive infatti Ronco, sempre sulla Nuova Bussola QuotidianaLegge contro l’omofobia è una violazione della libertà», 9 luglio):
La portata della norma è difficilmente percepibile da chi non sia esperto di cose giuridiche. Per esemplificarne il senso va detto che, alla stregua di tale proposta, potrebbero essere sottoposti a processo, in quanto incitanti a commettere atti di discriminazione per motivi di identità sessuale, tutti coloro che sollecitassero i parlamentari della Repubblica a non introdurre nella legislazione il “matrimonio” gay e, ancor più, tutti coloro che proponessero di escludere la facoltà di adottare un bambino a coppie omosessuali. […] Una campagna di opinione organizzata affinché i parlamentari si opponessero al “matrimonio” gay, costituirebbe, pertanto, incitamento a commettere atti di discriminazione penalmente punibili.
Come si vede, a differenza della Binetti, per Ronco a essere in pericolo non sarebbero i parlamentari (coperti dall’art. 68), ma chiunque li «incitasse» a non approvare il matrimonio tra omosessuali. A prima vista questo sembrerebbe un po’ paradossale: se il voto di un parlamentare non costituisce mai reato, come è possibile incriminare qualcuno per avere incitato lo stesso parlamentare a votare in un certo modo? In realtà il paradosso potrebbe essere solo apparente: nella giurisprudenza recente c’è una chiara tendenza a interpretare l’art. 68 come una causa di esclusione della punibilità del parlamentare, e non come una qualificazione di liceità del fatto; quest’ultimo rimane un reato, e anche se il membro del Parlamento non può essere punito per averlo commesso, chiunque altro vi concorra può subirne le conseguenze in sede penale o civile (cfr. Ugo Adamo, «La prerogativa dell’insindacabilità parlamentare ex art. 68 Cost. come causa soggettiva di esclusione della punibilità», Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2 luglio 2010).
Proseguendo, è importante capire cosa Mauro Ronco non sta dicendo. Anche se la proposta di legge sull’omofobia venisse approvata, non per questo diverrebbe un reato negare il matrimonio a una coppia di omosessuali. Gli articoli del Codice Civile che specificano che il matrimonio può avvenire solo tra un uomo e una donna non verrebbero abrogati dalla nuova versione della Legge Mancino: questa non parla per nulla di nozze, e l’idea che possa incidere sul Codice Civile è chiaramente estranea all’intenzione del legislatore. Se capisco bene, ciò che Ronco teme piuttosto è che qualcuno possa interpretare le nuove disposizioni di legge come se costituissero una metanorma, una norma cioè che disciplina altre norme. Più in particolare, in base alla nuova legge gli articoli in questione del Codice Civile potrebbero essere considerati come una norma discriminatrice, che sarebbe dovere del legislatore eliminare; venire meno a questo supposto obbligo di fare – sempre se capisco bene – potrebbe configurare insomma per qualche magistrato un reato omissivo.
Ci sono qui alcuni punti che mi lasciano perplesso; ma io sono un giurista della domenica, mentre Ronco insegna Diritto Penale all’università. Non mi avventurerò dunque in tentativi di confutazione, che lascio semmai ai più esperti di me. Non posso fare a meno di notare, tuttavia, che la futura legge sull’omofobia, se verrà approvata, sarà come tutte le leggi modificabile o abrogabile da una norma di pari grado (è vero che la Legge Mancino – o meglio la legge 13 ottobre 1975, n. 654, che la Mancino ha modificato e integrato – attua un trattato internazionale, ma solo per le parti riguardanti la discriminazione razziale ed etnica). Dato e non concesso che sollecitare «i parlamentari della Repubblica a non introdurre nella legislazione il “matrimonio” gay» possa essere considerato da qualcuno un reato, sarebbe per contro impossibile incriminare i fautori di una campagna di opinione che sollecitasse le Camere ad escludere per esempio l’applicabilità delle norme contro l’omofobia a questioni matrimoniali tramite una apposita legge di interpretazione autentica, come condizione dichiarata per non essere «costrette» a introdurre il matrimonio gay. La distinzione può apparire pedantesca, ma è la stessa distinzione che passa fra l’incitare il Parlamento ad approvare una legge incostituzionale (anche se questo – significativamente – non mi pare che costituisca un reato) e l’incitarlo a modificare la Costituzione allo scopo di approvare poi quella stessa identica legge. Per ripetere una massima lapidaria di Gustavo Zagrebelsky (Il sistema delle fonti del diritto, Torino 1991, p. 40), «la legge anteriore non può sottrarsi alla forza abrogativa delle leggi successive»; opporsi alle nozze gay non sarà mai illegale, ma solo sempre incivile.
È vero che qualche tempo fa qualcuno ha preteso che si perseguisse penalmente chi chiedeva solo di modificare una certa legge; ma la minaccia è stata accolta con indifferenza o, al massimo, un po’ di scherno. No, non si trattava di laicisti desiderosi di imbavagliare i poveri cattolici, ma di qualche integralista e clericale che aveva tentato di intimidire gli animatori di una campagna a favore dell’eutanasia (cfr. il mio «Se parlare di eutanasia è reato», Bioetica, 11 novembre 2010, e il post pressoché contemporaneo di Alessandro Gilioli, «Semplicemente fascisti», Piovono rane, 11 novembre 2010). Scommetto che adesso sono lì a torcersi le mani per la «gravissima minaccia» alla loro libertà di parola...

(3 - continua)

venerdì 7 giugno 2013

“Questo matrimonio non s’ha da sciogliere. Anche se lui adesso è una lei”

Il signor A e la signora B si sposano. Poi il signor A decide di cambiare sesso e diventa la signora A. Per legge il loro matrimonio deve finire, anche contro la loro volontà. Parliamo in esclusiva con uno dei loro avvocati difensori.

INCOSTITUZIONALE SCIOGLIERE UN MATRIMONIO? – La prima sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 14329/2013, ha sollevato ieri il dubbio di costituzionalità riguardo allo scioglimento automatico e obbligato di un’unione in seguito al cambiamento di sesso. Nell’ordinanza gli atti vengono rinviati alla Corte Costituzionale, con la richiesta di controllare la legittimità di alcuni articoli della legge sulla rettificazione di attribuzione di sesso (164/1982). Non è forse ingiusto imporre un divorzio? Non è forse il consenso il fondamento matrimoniale? La legge sembra essere brutale e pornografica, intromettendosi in questo modo nell’intimità familiare.
I CONIUGI – Il signor A e la signora B si sposano alcuni anni fa. Qualche tempo dopo il signor A fa domanda per la riattribuzione di sesso. Alla conclusione del lungo percorso, il tribunale di Bologna nel 2009 dispone la rettifica e annota a margine dell’atto di matrimonio: “là dove è scritto “maschile” ad indicare il sesso del nato debba leggersi ed intendersi “femminile” e là dove è scritto “Signor A” ad indicare il nome debba leggersi “Signora A”, pertanto il Signor A […] ha assunto il nuovo prenome di Signora A”.
EFFETTO COLLATERALE – La sentenza del tribunale produce però anche, ai sensi dell’articolo 4 della legge 164 del 1982 (“La sentenza di rettificazione […] provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso”), la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Impone, in altre parole, la fine del vincolo matrimoniale anche se i coniugi, come in questo caso, non hanno alcuna intenzione di scioglierlo. Inizia così la loro battaglia per difendere il loro matrimonio che le ha portate fin qui.

giovedì 29 marzo 2012

Don’t ask, don’t tell

Stonewall, New York City

La morte di Lucio Dalla ha smosso un fondale fangoso e ben sedimentato. Non tanto la morte in sé - che ha comunque dato il via a una corsa a manifestare una specie di egocentrica mania di raccontarsi e ha diviso gli italiani tra detrattori e eterni sostenitori: cosa ha significato Dalla per me, qual è la mia canzone preferita, dov’ero quando ho saputo che è morto e cosa facevo. Sul fronte opposto: non faceva nulla di buono da vent’anni o più, non lo ascoltavo mai, vuoi mettere i Rolling Stones?, che brutto quel parrucchino e così via. Come se non bastasse s’è poi scatenata l’onda dei buoni (e cattivi) sentimenti sulla morte di chi non ha mai dichiarato la propria omosessualità, con un misto di commiserazione, adulta “comprensione” e posticipata denuncia. Su questo aspetto della sua vita si sono avventati tardivamente sciacalli e spioni: outing forzati e ipocrite manifestazioni verso Marco Alemanno - compagno, collaboratore, amico intimo o molto intimo, ci mancava solo colf. Non solo: commozione e apprezzamento per l’indubitabile segnale di apertura da parte della Chiesa, visto che il funerale proprio in una Chiesa s’è celebrato - secondo la regola “don’t ask, don’t tell” consigliata ai militari statunitensi. Basta non dire, basta non chiedere. Un suggerimento ipocrita e ignorato dai due innamorati all’aeroporto delle Hawaii alla fine del febbraio scorso: un sergente dei Marines e il suo compagno, che quando si sono rivisti si sono abbracciati e baciati in pubblico. Sullo sfondo la bandiera a stelle e strisce. Ma qui in Italia vale ancora, e se vuoi un funerale in Chiesa è meglio non fare dichiarazioni avventate. È il dominio dei diritti mai affermati o erosi, dove ci si arrangia e si chiede per favore, invece di poter reclamare un diritto (alla uguaglianza e alla non discriminazione). Rimane sicuramente controverso se le persone famose abbiano il dovere di combattere ingiustizie e discriminazioni esistenti tramite la propria testimonianza. E rimane anche il dubbio su quanta fatica sia necessaria per occultare, negare e rimuovere un pezzo tanto rilevante della tua vita. Dalla in ogni modo è un caso singolo, ma è anche una occasione per parlare di un buco di diritti che non accenna a restringersi. Il buco di un Paese in cui l’affetto e il legame tra due uomini e due donne non è protetto dalla legge sebbene non vi siano ostacoli costituzionali ad impedirlo: l’articolo 29 parla di coniugi e non di vagine e peni. Un Paese però confuso, perché se ti sottoponi a un intervento per cambiare sesso, puoi poi sposare qualcuno del tuo stesso sesso (quello genetico, quello originario che poi hai modificato chirurgicamente). E questo è giusto, ma solleva almeno un paio di domande: a fare la differenza è una parte anatomica presente o assente? E se due persone possono sposarsi e adottare in queste condizioni, perché siamo ossessionati dal guardare nelle mutande? Ma è proprio questo uno dei nodi: l’ossessione pornografica presente pure nella oscena circolare firmata da Giuliano Amato che impedisce di trascrivere matrimoni contratti all’estero, cioè in Paesi più giusti del nostro. Quella circolare ha invocato, per giustificarsi, ragioni di ordine pubblico e ha invitato i responsabili dell’applicazione di suddetta trascrizione a controllare bene il sesso dei richiedenti. Non solo il matrimonio in Italia ha confini tanto angusti, ma ogni tentativo di offrire almeno una caricatura di uguaglianza - DiCo, DiDoRe e altre mostruosità - è fallito miseramente. Sembra paradossale e inutile combattere l’omofobia se viviamo in uno Stato che la giustifica e la sostiene, perché è il primo a confermare che le persone non sono tutte uguali. Alla fine di dicembre scorso è stato pubblicato un report sull’American Journal of Public Health che mostrava i vantaggi del matrimonio: gli Stati in cui tutti possono sposarsi spendono meno in assistenza sanitaria. Se non fossimo pronti a giocarci la carta della giustizia, potremmo insomma attaccarci a quella della convenienza. Il moralismo però prevale su tutto. Se questo è un Paese giusto.

Lamette, Il Mucchio n. 693 di aprile.

venerdì 8 ottobre 2010

Della Vedova e l’ABC costituzionale

Ci sono studenti un po’ tardi che straparlano di «golpe dei magistrati giacobini» a proposito del nuovo ricorso alla Corte Costituzionale per la legge 40, ma Benedetto Della Vedova è un maestro paziente, e ripete con parole semplici quello che chiunque sia dotato di licenza media dovrebbe già sapere (Alessandro Calvi, «“Ma risparmiamoci il bipolarismo etico”», Il Riformista, 7 ottobre 2010, p. 7):

Che un cittadino si rivolga a un giudice e che in quel dibattimento emerga la necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale è un fatto sano, normale. Non si puo certo pensare di impedire che i cittadini ricorrano alla magistratura. Siamo in uno stato di diritto. Il legislatore è libero di fare leggi e anche di modificare la Costituzione ma non è libero di legiferare contro la Costituzione. La Corte Costituzionale è lì per questo. Ciascuno fa il proprio mestiere: il Parlamento, i magistrati e anche i giudici della Consulta. Potranno farlo male, e allora si può polemizzare su questo, ma non si può polemizzare sui fatto che facciano il proprio lavoro.
Ormai però nel Pdl è uno schema consolidato il cercare un nemico nei magistrati.
Ma così si rischia la paranoia. E lo dice chi, come me, ha iniziato a fare politica con il caso Tortora che fu un enorme errore giudiziario. Ma non si può pensare che la magistratura sia nemica della democrazia. Anzi, si dovrebbe ricordare che la democrazia costituzionale si fonda sui fatto che il legislatore è sovrano nell’ambito della Costituzione.
Sta pensando ai richiami alla volontà popolare che ricorrono nelle argomentazioni degli esponenti del governo?
Quello è un errore marchiano che uomini delle istituzioni non dovrebbero commettere. Il referendum è fallito quindi è come se non ci fosse stato: non si può pretendere che quel fallimento abbia determinato un orientamento, anche perché chi si espresse lo fece contro la legge 40. E, seppure si fosse determinata una maggioranza di favorevoli alla legge, neppure questa potrebbe superare il giudizio di costituzionalità.

sabato 6 giugno 2009

La famiglia come «società naturale»

Contro la possibilità del matrimonio omosessuale viene spesso invocato da alcuni il primo comma dell’art. 29 della Costituzione:

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
L’aggettivo «naturale», si sostiene, limiterebbe l’applicazione dei diritti alle unioni eterosessuali; queste sole, appunto, sarebbero «naturali», nel senso di «normali» o di appartenenti a un mondo «naturale» contrapposto al mondo umano, ovvero a uno stato di natura contrapposto a quello di cultura. Questa però è una versione «ingenua» ed essoterica dell’argomento, contro la quale è fin troppo facile obiettare che «normale» è concetto troppo vago per avere una qualsiasi utilità morale o giuridica, e che l’omosessualità preesiste alla nascita della cultura e dell’uomo stesso (i famosi pinguini omosessuali...). In realtà, la versione originale del richiamo alla naturalità, quella che usano gli autori più smaliziati, è che per «natura» si deve intendere la finalità essenziale dell’uomo, una potenzialità intrinseca che tutti sarebbero tenuti a rendere attuale, o almeno a non ostacolare in nessun modo; per cui, per esempio, dall’esistenza di sessi opposti si deve dedurre che solo l’unione eterosessuale – l’unica conforme alla legge naturale, all’ordinamento essenziale del mondo – è buona. Tutto ciò che in natura o nella società contraddice questa finalità è per costoro un’aberrazione senza significato.
Ma esiste almeno un altro senso della parola «naturale»: ed è quello di pregiuridico, di qualcosa che precede lo Stato ed esiste indipendentemente da esso e dalle sue leggi. Con questa accezione si vuole il più delle volte rendere chiaro che fonte del diritto non è esclusivamente lo Stato, e che le leggi hanno una loro fonte di legittimazione antecedente, per cui ad esempio sarebbe giusto e doveroso condannare e combattere lo Stato che decretasse la liceità del furto o dell’omicidio. Se fosse questo il senso, non sarebbe certo immediato dedurre dall’art. 29 la proibizione del matrimonio omosessuale. Se tutti gli esseri umani aspirano «naturalmente» – cioè indipendentemente dalle concessioni dei loro governanti – a costruirsi una famiglia; se abbiamo esempi anche antichi di famiglie omosessuali (si pensi, per la stessa Italia, alle coppie costituite da donne omosessuali, comuni e non troppo nascoste anche in un passato non recentissimo); allora non si vede perché il dettato costituzionale non si debba applicare, nella mutata sensibilità odierna, anche al matrimonio omosessuale. Anzi sarebbe forse da considerare incostituzionale l’attuale limitazione; e non solo a norma degli artt. 2 e 3 della Costituzione, ma paradossalmente anche dello stesso art. 29, che parla della famiglia (senza ulteriori specificazioni) come di una associazione indipendente dallo Stato, che lo Stato non può disconoscere.
In che senso, dunque, la Costituzione parla di «società naturale»? È ovvio che nessuno dei Costituenti aveva in mente la possibilità del matrimonio fra omosessuali; ma la Carta – se vogliamo che la Costituzione sia viva e parli anche per l’oggi – va interpretata nel significato letterale del suo testo, senza restringere la denotazione dei termini da essa impiegati a quella intesa dagli autori originali. Tuttavia, quando – come in questo caso – esiste una controversia sulla connotazione di un’espressione, che può essere intesa in sensi anche opposti, pare inevitabile fare ricorso alle discussioni dei padri costituenti, per trovare un punto comune di partenza all’interpretazione.
Qui di seguito registro pertanto i più significativi interventi in sede di Assemblea Costituente, tutti rigorosamente di esponenti della Democrazia Cristiana. Mi sembra che le conclusioni da trarne siano abbastanza univoche.

Giorgio La Pira, 6 novembre 1946:
Sin dall’inizio dei lavori della Sottocommissione, nella stesura della Costituzione, si è detto che la fondamentale preoccupazione è quella di negare la teoria dei «diritti riflessi», che fu il fondamento dello Stato fascista. Lo Stato fascista, infatti, aveva come suo fondamento la teoria giuridica che tutti i diritti sono creati e concessi dallo Stato, che può ritirarli in qualunque momento. Negando questa teoria, si vuole affermare che lo Stato non fa che riconoscere e tutelare dei diritti anteriori alla Costituzione dello Stato, che sono diritti dei singoli, diritti delle società o comunità naturali. Con una dichiarazione come quella proposta, ci si ricollega alla cosiddetta tradizione giuridica occidentale che da Aristotile, attraverso il Cristianesimo, è arrivata fino ad oggi.
Affermando che la famiglia «è una società naturale» – oppure «di diritto naturale», secondo la proposta del Presidente – si afferma che la famiglia è un ordinamento giuridico e che lo Stato non fa che riconoscere e proteggere questo ordinamento giuridico anteriore allo Stato stesso.
Aldo Moro, 15 gennaio 1947:
La famiglia è una società naturale. Che significa questa espressione? Escluso che qui «naturale» abbia un significato zoologico o animalesco, o accenni ad un legame puramente di fatto, non si vuol dire con questa formula che la famiglia sia una società creata al di fuori di ogni vincolo razionale ed etico. Non è un fatto, la famiglia, ma è appunto un ordinamento giuridico e quindi qui «naturale» sta per «razionale».
D’altra parte, non si vuole escludere che la famiglia abbia un suo processo di formazione storica, né si vuole negare che vi sia un sempre più perfetto adeguamento della famiglia a questa razionalità nel corso della storia; ma quando si dice: «società naturale» in questo momento storico si allude a quell’ordinamento che, perfezionato attraverso il processo della storia, costituisce la linea ideale della vita familiare.
Quando si afferma che la famiglia è una «società naturale», si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi e i suoi diritti di fronte ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare. Vi è naturalmente un potere legiferante dello Stato che opera anche in materia familiare; ma questo potere ha un limite precisamente in questa natura sociale e naturale della famiglia.
Lodovico Benvenuti, 17 marzo 1947:
Qui, onorevoli colleghi, abbiamo la restaurazione del diritto naturale sulla forma positiva. Il concetto è evidente: prima dello Stato, indipendente dallo Stato, esiste un diritto acquisito dei cittadini, e della famiglia in particolare, che resiste al diritto dello Stato, di fronte al quale lo Stato non ha libertà di scelta; nel quale, quindi, il diritto dello Stato non può e non deve intervenire; e, ove lo faccia, lo farà in virtù della forza di coazione di cui è munito, ma violando il diritto. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, l’articolo 147 del Codice civile fascista, ove si diceva che l’educazione e la istruzione della prole devono essere conformi al sentimento nazionale fascista: il che significava che i genitori italiani, per essere in regola con la legge, dovevano educare i loro figliuoli a detestare la libertà e a servire l’oppressione. Queste sono le aberrazioni a cui può arrivare una legislazione, quando dimentichi che la famiglia è una società di diritto naturale.
Umberto Merlin, 15 aprile 1947:
Noi diciamo che questo concetto è affermato con le parole «la famiglia è una società naturale», per dimostrare questa semplice verità che la famiglia ha dei diritti primordiali, propri, che lo Stato non deve concedere come una graziosa concessione, ma che deve semplicemente riconoscere perché sono preesistenti alla sua organizzazione.
Camillo Corsanego, 22 aprile 1947:
Però quello che importa è di affermare nella Carta Costituzionale che lo Stato non crea i diritti della famiglia, ma li riconosce, li tutela e li difende perché la famiglia ha dei diritti originari, preesistenti, e lo Stato non deve fa altro che dare loro la efficace protezione giuridica.
Il legislatore non può «il libito far licito in sua legge». Qui noi stiamo costruendo una Carta costituzionale la quale codifica, cioè dà forma giuridica, ai diritti di libertà: diritti di libertà della persona, diritti di libertà del lavoro, diritti di libertà umana, diritti della famiglia che sono anteriori alla legge positiva scritta. Non facciamo qui la disquisizione teorica sulla esistenza, e sul significato che gli studiosi danno alle norme di diritto naturale; è certo che la legge scritta deve conformarsi a certe norme che preesistono al legislatore, che sono anzi le sue ispiratrici. Avviene questo anche quando si codificano norme particolari, quando per esempio nel Codice penale si pone la discriminante della legittima difesa e si dice che si può impunemente uccidere il fur nocturnus che viene durante la notte a turbare i nostri sonni, a rubarci il nostro peculio. Che cosa fa il legislatore in questo caso? Il legislatore non fa altro che dare formula giuridica a un diritto preesistente, Ulpiano stesso fin dai suoi tempi lo aveva insegnato: vim vi repellere licet idque ius naturae comparatur.
Noi siamo contro il concetto fascista: «tutto per lo Stato, tutto nello Stato, nulla contro lo Stato», e respingiamo la dottrina totalitaria la quale, considerando lo Stato unica fonte di diritto, vorrebbe che individui ed enti possedessero solo quel tanto di diritti che allo Stato – feudo del partito dominante – piacesse consentire.
Rimane da notare una cospicua incongruenza dell’art. 29: se la famiglia è una società naturale, che precede il diritto organizzato, com’è possibile che la si affermi fondata sul matrimonio, che è invece tipicamente un istituto dei diritto positivo? Della contraddizione si era accorto Piero Calamandrei, che – senza che nessuno intervenisse a contraddirlo – così parlava nella seduta del 23 aprile 1947:
Dal punto di vista logico ritengo che sia un gravissimo errore, che rimarrà nel testo della nostra Costituzione come una ingenuità, quello di congiungere l’idea di società naturale – che richiama al diritto naturale – colla frase successiva «fondata sul matrimonio», che è un istituto di diritto positivo. Parlare di una società naturale che sorge dal matrimonio, cioè, in sostanza, da un negozio giuridico è, per me una contraddizione in termini.
E concludeva, saggiamente:
Ma tuttavia, siccome di queste ingenuità nella nostra Costituzione ce ne sono tante, ce ne potrà essere una di più […].
Infine, quale che siano le nostre conclusioni sul significato dell’art. 29, una cosa è certa: come ricordava l’appello di 23 costituzionalisti nel febbraio 2007, la Costituzione
non impone affatto alla Repubblica di riconoscere come famiglia solo quella definita quale «società naturale fondata sul matrimonio». […] Il riconoscimento giuridico di altre tipologie di famiglia non comporterebbe alcun disconoscimento dei diritti delle famiglie fondate sul matrimonio e non potrebbe quindi violare il disposto dell’articolo 29, primo comma, della Costituzione. Il fatto che la Costituzione garantisca in modo particolare i diritti della famiglia fondata sul matrimonio non può in alcun modo avere come effetto il mancato riconoscimento dei diritti delle altre formazioni famigliari.

giovedì 26 marzo 2009

Se arriva un marziano come gli spieghiamo questo ddl Calabrò?

Robot
Se un marziano, arrivato da poco in Italia, venisse informato dei nostri principi costituzionali e del consenso informato, non riuscirebbe a capire il dibattito sul testamento biologico. Se si può chiamare dibattito un coacervo di voci che non si ascoltano l’un l’altra e che spesso sono contraddittorie e insensate.
Il nostro povero marziano non capirebbe per quale ragione uno strumento giuridicamente tanto semplice abbia sollevato tali reazioni smodate. Bisognerebbe spiegargli che il paternalismo seduce ancora molti animi; che le libertà individuali non sono considerate come diritti inviolabili; e che la libertà viene spesso malintesa e calpestata.
Questa spiegazione, tuttavia, non basterebbe a chiarire al malcapitato straniero alcuni aspetti del disegno di legge Calabrò.
Anche se ci mettessimo tutto il nostro impegno esplicativo dei costumi indigeni, egli non riuscirebbe a capacitarsi del perché noi umani (o meglio, noi italiani) non possiamo includere nel testamento biologico il nostro volere riguardo alla nutrizione e idratazione artificiali. Egli ci tormenterebbe con varie domande.
“Siete liberi di decidere se alimentarvi o no?”. Certo, dovremmo rispondere, il diritto a non mangiare o allo sciopero della fame sono garantiti.
“E allora forse non potreste rifiutare la nutrizione e idratazione artificiali?”. No, possiamo rifiutare se siamo coscienti.
“Magari non sono trattamenti invasivi…”. Spesso lo sono, perché richiedono un intervento chirurgico e anche il sondino nasogastrico è una operazione abbastanza cruenta. E comunque sono sempre invasivi se l’individuo non vuole essere nutrito e idratato!
“Allora magari si segue una procedura internazionale?”. No, le leggi e i trattati degli altri Paesi lasciano la libertà di decidere.
No, non capirebbe. E nemmeno noi. Come non capiamo come sia possibile che in Senato ieri 164 abbiano votato no all’emendamento che voleva rimediare a questo scempio; solo 105 a favore e 9 si sono astenuti. 173 dei nostri rappresentanti non ci considerano in grado di decidere, ma ci ritengono inetti e irresponsabili. Dei mentecatti cui dire come vivere e come morire. Non ci vuole un marziano per capirlo.

(DNews, 26 marzo 2009)

domenica 8 febbraio 2009

Legge o decreto pari sono

Qualcuno potrebbe chiederselo: ma se il decreto legge contro Eluana era incostituzionale, allora perché non dovrebbe essere incostituzionale anche la leggina – il cui testo è il medesimo del decreto! – che il Parlamento si prepara ad approvare in fretta e furia? Il decreto andava a interferire con una sentenza passata in giudicato; lo stesso farà anche la legge. Ma allora come mai tutti sembrano dare per scontato che con la legge i medici si dovranno fermare?

Certo, un decreto, al contrario di una legge, deve essere giustificato in base all’urgenza della situazione; ma qui l’urgenza riguardava solo Eluana (nessuno si trova, dal punto di vista legale, nella stessa situazione, e le sentenze della magistratura si applicano solo a lei). Il decreto quindi avrebbe avuto un carattere palesemente ad personam: sarebbe stato emanato proprio con l’intenzione specifica di annullare una sentenza della magistratura. La legge, invece, nonostante l’approvazione a tambur battente, può mostrarsi formalmente più generale: a parole riguarda tutti (anche se rimane chiaro quale sia lo scopo per cui viene approvata).

E tuttavia il conflitto rimane. Perdonatemi l’autocitazione:

Per la divisione dei poteri dello Stato, infatti, la magistratura non può sostituirsi al legislatore abrogando le norme esistenti (non lo ha fatto nemmeno nel caso Englaro, nonostante quello che incredibilmente ancora si sente ripetere), e il legislatore viceversa non può invadere il campo della magistratura rendendo inoperative le sue sentenze. Se fosse altrimenti, il diritto del cittadino di ottenere un giudizio definitivo e immutabile riceverebbe una ferita insanabile.
Vedo adesso che cominciano a spuntare le prime conferme da parte dei costituzionalisti. Scrive Massimo Villone sulla Stampa di ieri («Cinque risposte dalla Costituzione», 7 febbraio 2009, p. 1):
Gli argomenti di incostituzionalità relativi al decreto rimarrebbero in buona parte validi anche per la leggina […] soprattutto rimarrebbero in piedi gli argomenti relativi al principio che il legislatore non può sovrapporre una nuova regola su situazioni ormai sancite da pronunce definitive del giudice.
Gli fa eco Massimo Luciani sul Sole 24 OreIl potere di emanare non è notarile», 7 febbraio, p. 7):
Se il primo argomento invocato dal Presidente (la mancanza della necessità e dell’urgenza) riguarda i soli decreti legge, il secondo (l’intangibilità dei provvedimenti giudiziari definitivi) potrebbe riguardare una futura legge, visto che la giurisprudenza costituzionale ritiene che il giudicato sia anche legislativamente intangibile.
Ci può essere forse qualche margine di dubbio, come sempre in questioni giuridiche; ma nel complesso la cosa sembrerebbe fermamente stabilita.
Purtroppo, questo non vuol dire che la promulgazione della leggina rimarrà necessariamente senza effetti sul caso di Eluana Englaro, nel caso che il Parlamento arrivi prima della conclusione del protocollo medico. I medici si vedranno probabilmente costretti a desistere; si arriverà a un’impugnazione della legge dinanzi alla Corte Costituzionale, ma ci vorranno altri mesi, forse altri anni.

Aggiornamento 9/2/09: le considerazioni di Carlo Federico Grosso aggiungono nuovi elementi a un quadro ormai chiaro («Dalla parte delle regole», La Stampa, 9 febbraio, p. 1):
La Cassazione, come è noto, ha «definitivamente» riconosciuto a Eluana Englaro, o a chi per lei, il diritto di staccare il sondino nasogastrico attraverso il quale si realizza il suo mantenimento artificiale in vita. Ebbene, di fronte a un diritto ormai definitivamente riconosciuto dall’autorità giudiziaria, davvero si può ritenere che una legge successiva sia, di per sé, in grado di cancellare il giudicato?
Si badi che, curiosamente, lo stesso governo, sul punto, deve avere avuto i suoi dubbi. Infatti nella relazione di accompagnamento al decreto ha scritto che è vero che, nel caso di specie, c’è stata una sentenza della Cassazione, ma essa, data la particolare natura del provvedimento assunto (di mera «volontaria giurisdizione»), non avrebbe dato vita ad alcun «accertamento di un diritto». Così facendo, lo stesso governo ha ammesso che se, invece, fosse stato riconosciuto un diritto, esso sarebbe ormai intangibile anche di fronte alla legge. Ebbene, poiché, a differenza di quanto sostenuto dal governo, la Cassazione ha, in realtà, riconosciuto un vero e proprio diritto individuale a non essere più medicalmente assistiti contro la propria volontà comunque manifestata, è lecito dubitare che il legislatore possa davvero, ormai, interferire, con una legge, su tale situazione giuridica costituita.
Aggiornamento 11/2: a futura memoria interviene infine Alessandro Pace («Quella legge ancora inutile», La Repubblica, 11 febbraio, p. 1), che mostra come anche il decreto della Corte d’Appello di Milano abbia pieno valore di giudicato.

giovedì 29 gennaio 2009

Testamento biologico, la truffa è servita

C’è un nuovo colpo di scena nella saga (o dovremmo dire soap opera vista l’interminabile durata?) del dibattito parlamentare sul testamento biologico, altrimenti definito direttive anticipate (DAT) o living will. Verrebbe da commentare: chiamatelo pure come vi pare a condizione che siano garantite le scelte delle persone - ragione per cui sarebbe importante una legge al riguardo, e non perché si sente la mancanza di una legge inutile o dannosa. Garantire il rispetto delle decisioni di ciascuno di noi quando non siamo più nelle condizioni di esprimere le nostre preferenze, questo dovrebbe regolamentare una buona legge.

COME DOVREBBE ESSERE - Pur rischiando di essere noiosi lo ripetiamo: il testamento biologico dovrebbe assicurarci la possibilità di esprimere oggi le nostre volontà per un tempo in cui non è più possibile farlo, perché abbiamo subito un incidente o perché l’aggravamento di una malattia ce lo impedisce. Dovrebbe, in altre parole, protrarre nel tempo un diritto che ci è già garantito e che è ben espresso nel consenso informato. Quando acconsentiamo ad un intervento già “estendiamo” le nostre volontà per il tempo della anestesia e del tempo che passeremo in stato di incoscienza (si pensi ad interventi che richiedono molte ore di anestesia generale e molte ore, se non giorni, di sedazione tale da impedire una manifestazione attuale del nostro volere). Scegliere se e come curarci, decidere come vivere a patto che la nostra decisione ricada su di noi è un diritto fondamentale. Il patto di non recare danno a terzi è rispettato se decido, ad esempio, di non nutrirmi, di non sottopormi alla chemioterapia o di non essere trachestomizzata. Il cuore della normativa sul testamento biologico dovrebbe essere la garanzia dell’autodeterminazione del singolo, sostenuta da articoli spesso citati, raramente presi sul serio. Basti pensare all’articolo 13 e 32 della Costituzione Italiana.

E INVECE, CIPPERIMERLO - Veniamo al colpo di scena: in commissione Igiene e Sanità viene presentata la proposta di legge del senatore Raffaele Calabrò recante norme su “disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato, e di dichiarazioni anticipate di trattamento”. Questo disegno di legge rispetta le condizioni necessarie per garantire la nostra libera scelta? Sorvoliamo i passi non controversi e quelli più “sottili”, per arrivare a quelli più esplicitamente lesivi della nostra autodeterminazione, pur mantenuta come panorama di riferimento da tutti. Perché è troppo impopolare affermare che le persone dovrebbero essere espropriate della libertà di decidere riguardo alla propria esistenza.

(Continua su Giornalettismo).

martedì 19 dicembre 2006

Il testo completo del disegno di legge sul rifiuto del trattamento sanitario

Riporto integralmente il testo del disegno di legge, le cui premesse sono un esempio raro e doverosamente imitabile di lucidità, umanità e ragionevolezza.
Il disegno di legge, inoltre, è anche una risposta alla questione sollevata da Piergiorgio Welby, la prima risposta che non lascia margini ad incerte interpretazioni e che non si nasconde dietro a richiami deresponsabilizzanti di vuoti normativi. La prima risposta all’urgenza assoluta della sua richiesta. E che affonda le radici in un terreno consolidato: la tutela costituzionale dell’esistenza.


SENATO DELLA REPUBBLICA
———– XV LEGISLATURA ———–
N.

DISEGNO DI LEGGE
d’iniziativa dei senatori VILLONE, MARINO, SALVI, COLOMBO FURIO, ZANONE, GRASSI, BATTAGLIA GIOVANNI, IOVENE, MELE
COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL …
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Disciplina del rifiuto di trattamento sanitario
in attuazione dell’art. 32 della Costituzione
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Onorevoli Senatori. – L’art. 32, comma 2, della Costituzione stabilisce che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Rileva anzitutto la tassatività della norma. Si riconosce in modo pieno il diritto individuale a rifiutare il trattamento sanitario, con una singola eccezione: che la legge specificamente prescriva come obbligatorio un trattamento determinato. Ne deriva che la norma costituzionale definisce compiutamente il bilanciamento degli interessi. Al di fuori della previsione ex lege della obbligatorietà, non vi sono altri interessi che possano essere contrapposti a quello che si traduce nel rifiuto del trattamento, e che siano suscettibili di essere portati ad un bilanciamento. In specie, non vi è riconoscimento per interessi come quelli riferibili alle best practices della scienza medica, o al medico che in applicazione di quelle pratiche ritenga il trattamento benefico o addirittura indispensabile per il paziente affidato alle sue cure. Si ammette l’unica ipotesi che il trattamento sia in sé direttamente contemplato e reso obbligatorio dalla legge.

In ogni altro caso, diverso dalla obbligatorietà ex lege, l’individuo rimane esclusivo titolare della valutazione del trattamento in rapporto al valore costituzionalmente protetto della salute. Se anche il trattamento rifiutato fosse indispensabile ai fini della tutela della salute, il rifiuto opposto rimarrebbe insuperabile da parte di altri soggetti in vista di qualsivoglia interesse.

La Costituzione riconosce quindi – e la scelta è da condividere – l’assolutezza del diritto al rifiuto. Tale assolutezza è confermata e rafforzata dall’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 32, per cui “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La disposizione non tempera né indebolisce affatto il diritto al rifiuto, disponendo anzi che nel disporre l’obbligatorietà il legislatore trova comunque il limite della dignità umana. E dunque possiamo trarne che l’individuo rimane, nella decisione di rifiutare il trattamento non obbligatorio ex lege, il solo e ultimo custode della propria dignità umana.

Nemmeno la stessa legge, al di fuori dell’ipotesi della prescrizione dell’obbligatorietà, potrebbe apporre limiti al diritto al rifiuto: ad esempio, nel disciplinare le professioni sanitarie. Né una legge avente un oggetto diverso potrebbe essere conformemente a Costituzione interpretata nel senso di porre limiti impliciti: ad esempio, per l’omissione di soccorso. E infine a nulla varrebbe che altre regole, non legislative – come ad esempio le norme di codici deontologici – contemplassero la possibilità che il trattamento venisse comunque applicato nonostante il rifiuto.

Ed infine, per quanto riguarda la legge che prescrivesse l’obbligatorietà, da quanto fin qui argomentato si evince con chiarezza che anch’essa troverebbe limiti quanto alle ipotesi in cui tale obbligatorietà è consentita. L’obbligatorietà deve trovare fondamento nella tutela di soggetti diversi da quello che subisce il trattamento. Si potrà dunque giustificare l’obbligatorietà ad esempio nel caso in cui la mancata applicazione del trattamento ponga a rischio la salute di terzi: vaccinazioni obbligatorie, profilassi per il rischio di contagio ed epidemie. Ovvero nel caso in cui il disturbo mentale evidenzi il rischio di manifestazioni violente.

L’esatta ricostruzione del diritto costituzionale di rifiutare il trattamento sanitario consente di concludere che nel caso Welby bene avrebbe potuto il medico accettare la richiesta del paziente di interrompere il trattamento cui veniva sottoposto, pur essendo il probabile esito la morte. E bene avrebbe potuto il giudice ordinare un comportamento conforme alla richiesta. Da questo punto di vista, una specificazione legislativa si mostra in sé non necessaria, essendo puramente dichiarativa di quanto contenuto già in Costituzione. Ma la presentazione di questo disegno di legge s’impone per superare le risposte negative intervenute che – per quanto erronee – pongono comunque e di fatto ostacolo all’esercizio di un diritto pienamente riconosciuto in Costituzione.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1
1. Ai sensi dell’art. 32 della Costituzione, tutti hanno diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario che non sia reso dalla legge obbligatorio per motivi di salute pubblica o di sicurezza. Il rifiuto è vincolante per qualunque operatore sanitario, nelle strutture sia pubbliche che private.

2. Il rifiuto si esercita mediante una dichiarazione resa in forma scritta o anche verbalmente. In tale ultimo caso la dichiarazione può essere raccolta direttamente dal medico, o da testimoni.

3. Il diritto di cui al comma 1 comprende anche il rifiuto di ogni trattamento volto a tenere in vita malati terminali, per i quali il decesso possa seguire come diretta conseguenza della sospensione del trattamento medesimo.

4. La mancata somministrazione o l’interruzione dei trattamenti non costituisce reato quando sia conseguenza dell’esercizio del diritto al rifiuto di cui alla presente legge.

Disegno di legge per l’attuazione dell’articolo 32

Presentato al Senato con le firme di Massimo Villone, Ignazio Marino, Cesare Salvi, Furio Colombo, Valerio Zanone, Gianni Battaglia e Nuccio Iovene.

Art. 1: Ai sensi dell’art. 32 della Costituzione, tutti hanno diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario che non sia reso dalla legge obbligatorio per motivi di salute pubblica o di sicurezza. Il rifiuto è vincolante per qualunque operatore sanitario, nelle strutture sia pubbliche che private.
Art. 2: Il rifiuto si esercita mediante una dichiarazione resa in forma scritta o anche verbalmente. In tale ultimo caso la dichiarazione può essere raccolta direttamente dal medico, o da testimoni.
Art. 3: Il diritto di cui al comma 1 comprende anche il rifiuto dei trattamenti sanitari necessari a tenere in vita malati terminali, per i quali il decesso possa seguire come diretta conseguenza della sospensione dei trattamenti medesimi.
Art. 4: La mancata somministrazione dei trattamenti nel caso di cui al comma 3 non costituisce reato per chiunque sarebbe obbligato alla somministrazione medesima in mancanza del rifiuto.

giovedì 1 giugno 2006

I PACS e la Costituzione

In Italia non esiste una regolamentazione per le unioni civili. Addirittura qualcuno ha urlato alla presunta incostituzionalità dei PACS, citando l’articolo 29 della Costituzione (“la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” e identificata con la formazione sociale denominata “famiglia legittima”).
Richiamare la tradizione e la Costituzione come garanzia dell’immutabilità degli assetti (anche giuridici) di convivenza è insensato. In un approfondimento molto interessante Selene Pascasi (I Pacs e la Costituzione: conflitto o convivenza di valori?, Bollettino Osservatorio sulla Legalità e sui Diritti) ricorda che “se in un periodo non troppo lontano, appariva inconcepibile la dissoluzione del matrimonio o lo ‘sdoganamento’ dei diritti di moglie dalla sottomissione alla potestà maritale, con le Riforme degli anni settanta, tali visioni della famiglia sono state sostituite da principi più egualitari e più civili.”
Il suo approfondimento merita di essere letto per intero. Riporto alcuni dei passaggi cruciali.

Il riferimento è all’assoluta mancanza, nel nostro paese, di legislazione in tema di unioni civili non coniugate, siano esse eterosessuali o omosessuali.
Il vuoto normativo non è di poco rilievo, soprattutto alla luce degli intenti europei, di vedute ampie e pluraliste. Basti ricordare la Costituzione europea, approvata, tra gli altri, anche dal nostro parlamento, della qual è principio cardine, il divieto assoluto di ogni forma di discriminazione, specie sessuale. Non solo, nella stessa direzione si è mosso il Parlamento comunitario, che, con risoluzione del 1994 e con relazione del 2000, ha invitato gli Stati membri ad adottare una normativa di riconoscimento delle unioni di fatto, anche omosessualmente formate. Da ultimo, il cd. “rapporto Sylla” del 3 settembre 2003, che auspica la legittimazione, all’interno delle singole nazioni, degli istituti di coniugio o di adozione, anche se richiesti da nuclei familiari non tradizionali, con riferimento alle realtà lesbo o gay. Seppure gli imput lanciati dallo spirito europeistico appaiono forti e chiari, ad oggi non vige ancora alcuna normativa, in Italia, in materia di convivenze “atipiche”.
La questione diviene più preoccupante, ove si rivolga l’attenzione a quanto previsto dalla Direttiva comunitaria n. 38 del 2004, che sancisce il principio della libera circolazione, in ambito europeo, delle persone e dei loro familiari, laddove, per “familiare”, si intende non solo il coniuge e la prole, ma altresì il partner che abbia registrato la propria unione. Si comprende allora, la difficoltà italiana di gestire fattispecie di tal genere, in mancanza di adeguata normativa.

Dal quadro normativo descritto, si delinea con chiarezza la necessità, da parte del legislatore italiano, di dare una risposta concreta a quelle coppie di fatto, stimate in circa un milione e duecentomila, che vedono ogni giorno negarsi diritti e aspettative di non poco conto. Non può lasciare indifferenti, il fatto che perfino conviventi di lunga data, anche ventennali, vedono negarsi il diritto di visita o di assistenza al partner gravemente malato o degente. O ancora, l’impossibilità per il singolo convivente di testare in favore del compagno, senza andare incontro alle gravose misure fiscali previste in materia di successione a terzi estranei.

Non si può non considerare che il fenomeno delle unioni di fatto, siano esse etero o omosessuali, è in crescita esponenziale. Se ciò è vero, allora risulta inconcepibile un sistema legislativo che non preveda alcuna estensione dei diritti civili alle formazioni familiari “atipiche” rispetto a quelle consacrate dal coniugio. La situazione diviene ancora più incomprensibile laddove si pensi all’atteggiamento della Corte Costituzionale, che da tempo lancia segnali in tal senso, oltre che alla normativa comunitaria.
Osservatorio sulla Legalità.