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venerdì 2 ottobre 2009

Marcello Pera e i diritti

Marcello Pera torna sulla tesi che gli è più cara: nella relazione introduttiva a un convegno tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, ripresa in parte dall’Osservatore RomanoI diritti umani? Prima non c’erano», 1 ottobre 2009, p. 4), sostiene che «l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini rispetto ai loro diritti» dipende dalla «legge morale cristiana», per la ragione che «nel cristianesimo, e più in generale nella tradizione biblica, l’uomo è creato a immagine di Dio. E se l’uomo rispecchia Dio fino a essere fatto come lui, allora ogni uomo è una persona, è figlio di Dio, fratello di ogni altro uomo, membro della stessa famiglia». Ne segue che «se si toglie la morale cristiana, si toglie anche il fondamento dei nostri Stati liberali», e «senza quel fondamento, si mette a rischio lo stesso Stato liberale e secolare. Esso diventa una cittadella senza guarnigione: come si potrebbe sostenerlo e difenderlo?». Conclude Pera che «se il secolarismo oggi nega qualunque rapporto fra politica e religione, nega anche il fondamento di quella stessa tolleranza che vuole promuovere e finisce col distruggere se stesso».

Nel suo rozzo schematismo la tesi di Pera è ovviamente da rigettare: la creazione dell’uomo a immagine di Dio non è condizione sufficiente a spiegare la moderna dottrina dell’uguaglianza dei diritti, visto che almeno 1600 anni separano quest’ultima dalle prime formulazioni della morale cristiana, e ancor di più dal primo racconto biblico della creazione. La stessa tradizione biblica, che è molto più varia di quanto alcuni possano pensare, ospita non solo apprezzabili professioni di universalismo, ma anche pagine di crudo particolarismo. Il fatto che la prima parola a essere storicamente traducibile con «uguglianza di fronte alla legge» sia isonomia, che è una parola greca, dovrebbe indurre a qualche riflessione: è vero, donne, schiavi e barbari non facevano parte di quella comunità di uguali, ma la concezione sottostante era fortemente dinamica, dato che nel volgere di pochi anni aveva condotto all’inaudita estensione dei diritti ai nullatenenti di Atene.
Inoltre, la circostanza che la riscoperta umanistica della civiltà greca abbia preceduto di poco le prime formulazioni dell’uguaglianza dei diritti (nonché del moderno metodo scientifico) ha molte meno probabilità della nascita dei diritti in terra cristiana di essere una mera coincidenza, checché ne pensino quanti sembrano ignorare che post hoc, ergo propter hoc è una fallacia logica, non un principio dell’indagine razionale.
Ma la creazione dell’uomo a immagine di Dio non è forse neppure condizione necessaria per spiegare la moderna uguaglianza dei diritti: si pensi soltanto al pensiero di un Seneca, che nelle Lettere a Lucilio poteva scrivere «Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te!» (come qualche ottimista cerca ancora di spiegare a un pubblico chiaramente refrattario), tanto che la tradizione cristiana ha poi tentato di sminuire l’imbarazzante precedente creando dal nulla un’immaginaria corrispondenza del filosofo con San Paolo. Nel contesto umanistico del ritorno all’antico queste idee possono avere avuto un influsso potente. Con il che non si vuole comunque negare il ruolo delle tradizioni bibliche nella nascita del pensiero moderno dei diritti, ma solo mostrare che quel ruolo non è stato probabilmente né unico né insostituibile.

Ma ammettiamo pure, per amore di discussione, che Pera abbia ragione. Cosa ne dovremmo dedurre? Dovremmo fare nostre anche le sue conclusioni sulla promozione della morale cristiana? Vediamo.
Il punto chiave è lo status della «legge morale da cui dipende la cultura dei diritti umani», per usare la terminologia di Pera. Si tratta di un’evidenza di ragione, fondata per esempio sulla constatazione empirica di una sostanziale uguaglianza in certi attributi (autocoscienza, capacità di provare dolore, interesse a vivere) e su un principio razionale di economia che ci imponga di trattare allo stesso modo chi è uguale? In questo caso potremmo dire che la tradizione biblica ha scoperto (assieme eventualmente ad altre tradizioni) un principio indipendente, non che lo fonda. E per comprendere e aderire a quel principio sarebbe allora del tutto superfluo immedesimarsi in tutto e per tutto con coloro che lo hanno scoperto, così come per capire la teoria della relatività speciale è inessenziale essere dei giovani ebrei tedeschi, farsi assumere dall’Ufficio Brevetti di Berna e imparare a suonare il violino.
O si tratta invece di un’ideologia storicamente determinata, che non ha nessuna esistenza indipendente dai gusti e dagli interessi contingenti di chi la propugna? Questa è la tesi del relativismo radicale (ed è curioso che sembri essere anche la tesi di Marcello Pera, che contro il relativismo tuona ogni tre per due; che non si sia accorto della contraddizione?); tesi opposta a quella precedente, ma non nelle conclusioni. Infatti, in assenza di un principio astorico razionale, in nome di che cosa dovremmo opporci alla fine della morale cristiana e, con essa, nell’ipotesi, alla fine dell’ideologia dell’uguaglianza dei diritti? Le nostre preferenze ovviamente cambierebbero di conseguenza – anzi, secondo chi la pensa come Marcello Pera sarebbero già cambiate: il nichilismo sta già avanzando, e l’eugenismo, e la mentalità eutanasica... Perché opporre resistenza al flusso della storia (cosa sempre scomoda e pericolosa) se ammettiamo che le nostre preferenze sono storicamente determinate? Ancora un attimo, ed esse saranno diverse: opprimeremo con gioia i deboli e schiacceremo con gusto gli inferiori. Certo, la prospettiva sarebbe diversa per questi ultimi (e per gli inguaribili nostalgici del passato), che avrebbero tutto l’interesse a mantenere la «vecchia» uguaglianza dei diritti; ma neppure per loro seguirebbe la necessità di aderire alla morale cristiana. Perché stare a cincischiare con fondazioni indirette dell’uguaglianza, infatti, quando sono in gioco interessi vitali? Che bisogno ha, il malato congenito, di riandare al racconto della creazione, quando (nell’ipotesi) ciò che lo motiva è la propria volontà di salvare la pelle ed evitare l’iniezione letale?

Si potrebbe obiettare che questa dicotomia è un po’ troppo schematica; che, per esempio, i diritti umani si basano sì su un imperativo categorico autonomo, ma che ciò non basta – specie presso le masse più riottose – a far sì che quest’ultimo sia seguito e praticato con coerenza. In questo caso la religione diventa per così dire instrumentum regni, e aiuta a perseguire l’ideale in sé giusto dell’uguaglianza, fornendo motivazioni più immediate e comprensibili.
Qui la risposta non può più rifarsi a ragionamenti di principio, ma deve appellarsi a un criterio squisitamente empirico: è vero o no che la morale cristiana aiuta il progresso dei diritti? Nel nostro paese la morale cristiana è identificata in genere con l’insegnamento della Chiesa; ci chiederemo allora: la Chiesa è stata ed è a favore dell’uguaglianza dei diritti degli omosessuali? La Chiesa è stata storicamente la forza propulsiva dietro le richieste del movimento delle donne? La Chiesa ha favorito le richieste di uguaglianza giuridica delle varie classi subalterne che si sono succedute, dalla Rivoluzione Francese fino a oggi? Lascio la risposta a Marcello Pera, nel pezzo che stiamo qui commentando: «non è un’obiezione che la Chiesa cattolica abbia impiegato quasi due millenni per proclamare formalmente i diritti umani, o che molti prelati di casa nostra pongano ancora mano all’aspersorio al solo sentir parlare di liberalismo […]. Il punto è concettuale». Tutto giusto – tranne per il fatto che il punto, qui, come abbiamo appena detto, non è concettuale ma empirico. E qui la Chiesa fallisce; fallisce miseramente. Il 20 giugno 1866, in risposta ai dubbi di un vicario apostolico in Etiopia, il Sant’Uffizio rispondeva che, a certe condizioni, «non ripugna al diritto naturale e divino che un servo sia venduto, comprato, scambiato, donato». Nel 1866, non nell’Alto Medioevo.
Lascio aperta la possibilità che una fede cristiana non confessionale, indipendente o perfino opposta alle Chiese organizzate, possa comunque essere d’appoggio alla causa dell’uguaglianza dei diritti; il futuro, sempre più secolarizzato (almeno fuori d’Italia) ce lo dirà. Ma certo non è a questo che si riferiva Marcello Pera; si può stare sicuri che l’Osservatore non gli avrebbe altrimenti pubblicato la relazione...

venerdì 28 novembre 2008

Libertà illiberale

Bruno Gravagnuolo sull’ultimo saggio di Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristianiLa libertà illiberale di Pera», L’Unità, 26 novembre 2008, p. 39):

Ma assurda e malfondata è anche la tesi generale di Pera, con la quale il Papa entusiasticamente consente. Vale a dire, l’obbligo di essere cristiani, se si vuol essere liberali. E in base al falso assunto per il quale il liberalismo scaturisce ipso facto dal cristianesimo, e logicamente ne dipende. Sciocchezza bella e buona! Visto che a lungo il Cristianesimo contrastò la libertà etico-politica del singolo, affermandone la dignità universale solo sul piano ultramondano (S. Paolo dissuade gli schiavi dal ribellarsi!). Perché il cattolicesimo anatemizzò fino a Pio IX il liberalismo. Perché solo una parte del cristianesimo riformato incoraggiò il liberalismo. E perché il liberalismo è figlio secolare del giusnaturalismo, che laicizza la legge naturale e ne fa legge positiva senza dogma. Inoltre, anche l’infinito valore della persona (cristiana) non nasce da sé. Ha, dietro, tre secoli di filosofia pagana: cinica, stoica ed epicurea, per tacere di Platone e Aristotele. E davanti a sé, dopo Cristo, secoli di lotte civili, spesso contro la Chiesa. Il liberalismo non nasce bello e fatto dai Vangeli: è un prodotto umano!
Da leggere tutto.

venerdì 1 giugno 2007

Pera e le parole

Marcello Pera argomenta contro il disegno di legge che vorrebbe introdurre la possibilità per i genitori di decidere che cognome dare ai propri figli (del padre, della madre o di entrambi); disegno di legge che è stato proprio in questi giorni rimandato alla Commissione Giustizia del Senato, per l’impossibilità di trovare un ampio accordo per l’approvazione in aula («La famiglia scivola sulle parole», La Stampa, 31 maggio 2007):

se si introduce il cognome doppio e se ne affida la trasmissione alla discrezionalità dei singoli, si rischia di violare il principio dell’unità e unilinearità della sostanza familiare. Se il nome della famiglia è duale, è duale anche la famiglia? Se il nome allude alla cosa o la denota – e questo è il caso nostro, ché altrimenti non si sarebbe posto il problema – allora il nome duale sembra alludere proprio a una cosa duale o denotarla. Ma una famiglia duale, a maggior ragione se di volta in volta denominata a discrezione, non è più come un embrione e forse non è più una famiglia: sono due individui sommati, ciascuno col proprio nome, non una singola entità fusa, col suo singolo nome, anche se doppio. Nomi e simboli possono avere, e spesso hanno, conseguenze sostanziali anche non intenzionali e la legge del doppio cognome, dopo quella, tentata, dei Dico, potrebbe diventare proprio il primo passo per toccare la sostanza della famiglia. Il secondo passo consisterebbe nel dire che i diritti della famiglia sono solo quelli dei suoi membri. Il terzo e ultimo passo sarebbe che la famiglia non esiste, ma esiste solo l’unione. «Rossi e Bianchi, sposi» come «Rossi & Bianchi, mercerie, snc». Arriveremo lì?
A dire il vero, una legge che non impone obblighi di sorta ma lascia liberi i coniugi di scegliere (nei limiti del ragionevole) il cognome che preferiscono dare ai figli, non sembrerebbe avere tutte le temibili conseguenze che Pera paventa; e in ogni caso, il significato simbolico del doppio cognome parrebbe, più pacatamente, quello di riconoscere anche formalmente l’uguaglianza dei coniugi, da tempo sancita dal codice. Piuttosto – dato che suppongo che Pera, anche se non lo dice esplicitamente, sia a favore dello statu quo – si potrebbe applicare il suo stesso argomento all’imposizione del solo cognome paterno: «una famiglia monadica, a maggior ragione se di volta in volta denominata per imperio, non è più come un embrione e forse non è più una famiglia: è un individuo solo, col suo proprio nome, non una singola entità fusa, col suo singolo nome, anche se doppio» (curiosamente, le parole finali, rimaste identiche, si adattano meglio a questa derivazione che all’argomento originale). Temo che la cosa suoni come una descrizione del più bieco patriarcato; ma forse è proprio quello che auspica Pera...

Aggiornamento: risponde a Pera Chiara Saraceno, sullo stesso giornale («Sul doppio cognome Pera sbaglia», La Stampa, 4 giugno 2007, p. 39).

domenica 11 febbraio 2007

Sensazioni sbagliate

Marcello Pera: “Caro Silvio, sui valori basta gag da Bagaglino”, la Stampa, 10 febbraio 2007:

(Domanda) Ma non c’è la laicità tra i vostri valori fondanti? Mica vorrà che tutti la pensino come Benedetto XVI...
(Risposta) «La laicità è una conquista, il laicismo un’ideologia perversa. Io mi sento profondamente laico, e non per questo debbo essere per forza a favore dei Pacs, dell’eutanasia o della sperimentazione sulle cellule embrionali. Anzi, credo di essere un liberale proprio perché sono contrario a tutto ciò: il liberalismo è dottrina giudaico-cristiana. Una destra che rompe le righe al momento di scegliere, che è timida sulla difesa dei valori, mostra di essere permeabile al laicismo di sinistra. E sa perché la sinistra, da comunista che era, è diventata laicista?».
Ha bevuto? O sta pensando alle cosce delle signorine del Bagaglino e si è distratto?

sabato 3 febbraio 2007

A volte ritornano

Marcello Pera (Pacs, Pera attacca Berlusconi. “Perché lascia libertà di coscienza?”, Il Corriere della Sera, 2 febbraio 2007):

“Non solo non possiamo votare i pacs, non possiamo neppure dire che Forza Italia ‘lascia libertà’ di coscienza. Libertà di coscienza perché non abbiamo un’idea neanche per dare un indicazione o un suggerimento di voto? Libertà di coscienza sulla nostra identità? Libertà di coscienza sulla nostra collocazione ideale? Non posso crederci”. Tocca all’ex presidente del Senato Marcello Pera sferrare un attacco diretto a Silvio Berlusconi sul tema delle unioni civili.
Durante un convegno organizzato dalla fondazione Magna Carta a Napoli, a cui Berlusconi interverrà tra poco con un collegamento telefonico, Pera, critica l’ex premier che ritiene necessario lasciare libertà di coscienza ai propri parlamentari sui temi etici.
Pera è un fiume in piena. Attacca sia chi dentro Forza Italia si è detto disponibile a votare a favore dei Pacs, sia chi “siccome è socialista” è a favore dei Pacs. “Proprio perché i Pacs sono elemento del laicismo che è l’erede ideologico di quel partito comunista che ha sempre voluto distruggere, fino a riuscirci, il partito socialista, io voto contro i Pacs” tuona l’ex presidente del Senato.
“La mia opinione – conclude Pera – è che se siamo per i Pacs, per l’eutanasia, per la soppressione degli embrioni e, ancora, se accettiamo il multiculturalismo, se vogliamo fare i patti con l’Ucoii, cioè con i fratelli musulmani che vogliono distruggere l’Occidente, se consideriamo ‘dialogo’ la costruzione di moschee in casa nostra senza chiedere reciprocità in alcun Paese arabo o islamico, se siamo per la tolleranza che è già diventata acquiescenza, indifferenza, negligenza, se siamo anche noi quelli che dicono è meglio togliere il crocefisso o nascondere il presepe, allora non siamo né liberali, ne conservatori, né socialisti, né cristiano-democratici, siamo già succubi dell’ideologia della sinistra”.

mercoledì 31 gennaio 2007

Mara e Pera

«Qui non si tratta di discriminare, si tratta di proibire»: la considerazione di Mara Carfagna non è sua (anche se indubbiamente suona come sua...), ma è presa da un articolo del più illustre senatore Marcello Pera, pubblicato appena ieri («Ma proibire non è discriminare», Libero, 30 gennaio 2007, p. 1):

Se un uomo e una donna possono unirsi di fatto e avere certi diritti, perché gli stessi diritti non dovrebbero spettare se a unirsi sono due uomini o due donne? Vogliamo forse discriminare gli individui rispetto alle tendenze sessuali?
La risposta è: no, non vogliamo discriminare, vogliamo proibire. E proibire è diverso da discriminare. Ad esempio, impedire ad un omosessuale di avere un lavoro, farsi un’istruzione, prestare servizio militare, è discriminare, ed è illecito (moralmente prima che giuridicamente).
Ma vietare ad un omosessuale di sposarsi con un altro omosessuale (o, il che è lo stesso, unirsi a lui con gli stessi diritti del matrimonio o quasi) non è discriminare, bensì proibire. Allo stesso modo non si discrimina, ma si proibisce, se si vieta a chiunque di sposarsi con certi consanguinei o gli si proibisce (come, almeno per ora, è proibito) di unirsi in matrimonio con più di una persona (poligamia).
Dunque nessuno intende togliere diritti individuali agli omosessuali, anzi, se ci sono alcuni diritti individuali di cui non godono è giusto che gli siano riconosciuti. Ma, appunto, devono essere diritti autenticamente individuali, non diritti derivati dalla condizione matrimoniale, perché, se tali fossero, cadrebbero sotto la proibizione del matrimonio.
Ho riportato il ragionamento nella sua interezza, eppure qualcosa sembra mancare: perché, infatti, la proibizione agli omosessuali di sposarsi non costituirebbe una discriminazione? Pera, misteriosamente, sembra pensare che basti proclamare che l’intento è di proibire e non di discriminare; eppure non basta. Forse Pera crede che una proibizione non può mai anche essere una discriminazione? Sarebbe sorprendente se lo pensasse: se io emano un decreto che proibisce agli omosessuali di lavorare nella pubblica amministrazione, li sto certamente discriminando, come ammette implicitamente lo stesso ex presidente del Senato. O forse ogni proibizione che esula dal diritto più strettamente individuale – soprattutto se ha che fare con i rapporti di coppia – non può mai essere discriminatoria? Non so Pera, ma io personalmente non saprei come altro definire, se non discriminatoria, la proibizione per esempio di sposare persone appartenenti «ad altra razza» contenuta nella legge 1728, 17 novembre 1938, art. 1. Forse, infine, Pera è convinto che la ragione per cui si deve parlare solo di proibizione e non anche di discriminazione è troppo evidente perché valga la pena di riportarla; purtroppo però questa ragione, per un motivo o per l’altro, non viene mai espressa. Si afferma spesso, è vero, che il matrimonio eterosessuale sarebbe ordinato allo scopo di provvedere un ambiente adatto ai figli; solo che anche a coppie sicuramente sterili (per esempio molto anziane, che non possono neanche più adottare) viene concesso di sposarsi, senza che nessuno abbia nulla da ridire, e anzi con la forte approvazione dell’ambiente sociale a cui gli sposi appartengono. Di fronte a questa obiezione le bocche si cuciono, lasciando la sgradevolissima impressione che proibire il matrimonio agli omosessuali costituisca per l’appunto quello che a parole tutti negano: una pura e semplice discriminazione.

Sì, manca qualcosa al discorso di Marcello Pera. E forse manca qualcosa a Pera stesso: la stessa cosa che manca anche a Mara Carfagna. La Carfagna riesce a compensare con altre qualità; Pera no.

lunedì 15 maggio 2006

Marcello Pera sui Pacs e altre amenità

L’ex presidente del Senato Marcello Pera non perde occasione per dare man forte al suo collega di pensiero Joseph Ratzinger. Collega di pensiero e di professione, quasi; eh, sì, perché il Papa invita i politici a riflettere (per usare un eufemismo) sui Pacs (Pera: «I Pacs sono fuori dalla Costituzione», Il Giornale, 15 maggio 2006).

“È un gran bene per tutti che il Papa ripeta i punti fermi del cristianesimo. Lo è per i non credenti, perché molti laicisti giocano con la nostra tradizione senza avvedersi del male che fanno disgregando i fondamenti della nostra società.”

Novello Joseph De Maistre (deve proprio avere simpatia per questo nome), Pera si attacca alla tradizione. È facile mettere in dubbio il valore intrinseco della tradizione, che possiede come unico carattere indiscutibile quello di legarsi al passato. Se esiste un valore morale oppure no, è tutto da decidere. Anche gli schiavisti potevano richiamarsi alla tradizione per contestare la rivendicazione dei diritti di tutti gli uomini, per affermare che gli schiavi erano schiavi e non uomini. “La tradizione ci ha insegnato che ci sono gli schiavi e i padroni, e questa è cosa buona e giusta”, secondo l’opinione di un latifondista del Mississippi, proprietario di terre e uomini (pardon, schiavi). Chi afferma il contrario o insinua dubbi attacca la tradizione, minaccia i valori, smuove le acque e le intorbida. È un attaccabrighe senza coscienza morale che intende disgregare i fondamenti della società (sic).

“C’è gente che pensa ancora che essere liberali significhi avere posizioni diverse o opposte a quelle cristiane, oppure che essere liberali dispensi dall’assumere responsabilità nuove di fronte alle sfide nuove. Ma la voce del Papa è utile anche per i cristiani credenti, spesso anch’essi stanchi, privi di coraggio, incerti, come si è visto dalle reazioni di silenzio attonito alle dichiarazioni sconcertanti e devastanti di quell’alto prelato (Carlo Maria Martini, NdR) che pensa che, in tema di bioetica, non esistano più i princìpi, ma tutto si giochi, gesuiticamente, caso per caso, provetta per provetta, centimetro per centimetro, eccezione per eccezione. Come se l’etica, in particolare quella cristiana, non avesse alcuni valori di base, la dignità della persona, la vita, la famiglia, il matrimonio, ma dipendesse da un prontuario da adattare alle circostanze dei pazienti. Grazie ancora al Papa che ci ricorda che è vero il contrario: che se non hai princìpi, neppure i singoli casi possono essere affrontati»”.

Senza addentrarmi in una discussione metaetica, ricorderei soltanto che la dignità della persona è un valore piuttosto universale e non cristiano; che la ‘vita’ non significa nulla (sacralità della vita, qualità della vita, vita personale, vita biologica?); che la famiglia non è un valore ma un assetto sociale (peraltro non necessariamente il migliore) e che il matrimonio è un contratto legale.
A proposito del rapporto tra liberalità e cristianesimo, appare una caricatura la descrizione periana del liberale, Bastian contrario a tutti i costi, che critica le posizioni cristiane. Non c’è un rapporto di necessaria opposizione; ma non ci dovrebbe essere nemmeno un rapporto di pedissequo consenso. Quasi che ci si trovasse di fronte a dio…

“(Domanda) Il centrosinistra risponde che è compito dello Stato tutelare tutti i cittadini, anche quelli che cattolici non sono. Le sembra una risposta sufficientemente laica?
«Mi sembra una risposta banalmente laica. E così ovvia che non dice niente. Il nostro Stato tutela anche chi professasse la religione che consente la bigamia? O della religione che acconsentisse alle mutilazioni sessuali? O della religione che esaltasse il martirio dei kamikaze? Il nostro Stato è democratico e liberale perché ammette la più ampia tolleranza sostenibile con la coesione della società e l’identità del popolo. Ma questo non significa che è a-religioso. Basti pensare che il fondamento della democrazia è l’uguaglianza e che alla base dell’uguaglianza noi mettiamo la pari dignità di ciascuna persona, una concezione tipicamente cristiana, non greca o romana o islamica. I laicisti del centrosinistra scappano sempre di fronte a queste evidenze; fanno finta di non essere mai andati a scuola».”

Il nostro Stato dovrebbe essere laico, non a(trattino)religioso. Laico. L’uguaglianza una concezione tipicamente cristiana? Anche fosse, non basta a imbrigliare lo Stato in un morso religioso. Quanto agli illuminanti esempi sul rispetto di chi cattolico non è, è assolutamente doveroso distinguere gli aspetti meramente religiosi (o ideologici) da quelli di altro genere. La mutilazione sessuale o il martirio dei kamikaze esula da una questione esclusivamente religiosa, per quanto ne origini. Un paese civile, allora, deve tutelare le eventuali derive che costituiscono una violazione dei diritti, questi sì, alla salute, all’integrità etc.

“Secondo la nostra Costituzione la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio. La parola “naturale” è una pietra: sta a significare che c’è prima e indipendentemente dal riconoscimento dello Stato, come i diritti fondamentali che sono “riconosciuti” e non semplicemente garantiti e costruiti dalla legislazione.”

E che ne pensa Pera della riforma della Costituzione proposta dai suoi amici politici? In quel caso non ha invocato l’intangibilità della Carta Costituzionale. Perché lo fa adesso? Invocare il ‘naturale’, poi, come garanzia di un valore assoluto e universale è davvero grottesco. La famiglia sarebbe naturale? In che senso?

“Sfido chiunque a dire che questa non sia dottrina cristiana, e mi piacerebbe capire quali contorcimenti concettuali si devono impiegare per dire che i Pacs, in particolare omosessuali, sono previsti dalla Costituzione.”

Potrebbero forse, che so io, rientrare nella sacrosanta indifferenza di genere rispetto ai diritti fondamentali? O nel diritto di libertà? Che gli avranno mai fatto gli omosessuali a Marcello Pera? Tirato i capelli a scuola?

“(Domanda) Non ci sono dubbi però che esistano rapporti patrimoniali e diritti soggettivi che devono essere regolati. O no?
«Non ho dubbi neppure io. E infatti c’è una gamma di diritti soggettivi che già sono riconosciuti o che si possono riconoscere. Ma non è tutto così semplice. Se io mi sposo e ho un figlio e poi cambio costumi sessuali, mia moglie e i miei figli avranno meno diritti del mio nuovo partner? Problemi analoghi valgono per le unioni di fatto eterosessuali».

Quali sarebbero questi diritti soggettivi? Non è assolutamente chiaro cosa Pera intenda poi con la domanda retorica che segue. E nemmeno quali siano i problemi analoghi.

(Su Prodi e l’Unione) “Penso che farebbe bene il presidente Prodi, quando verrà in Parlamento a chiedere la fiducia sul suo programma, a glissare su questi punti. Se toccasse i problemi bioetici, scoprirebbe che la sua è la coperta del soldato. Lo stesso se si mettesse seriamente a parlare di politica estera, di missioni internazionali dell’Italia, del ruolo dell’Europa.”

Si sprecherebbero meno parole dicendo che Prodi dovrebbe limitarsi ad intrecciare ghirlande, e tacere. Che gli è rimasto infatti? Il Concordato? L’insegnamento della religione nelle scuole?

“… difendo da tempo la posizione del conservatorismo liberale. I diritti di libertà vanno bene finché non toccano i fondamenti della tradizione, perché, toccata la tradizione, è toccata anche la base della nostra libertà. Ed è toccata anche la nostra identità, che invece deve essere difesa, soprattutto in un periodo di immigrazioni crescenti, denatalità, fanatismo e terrorismo islamico. Dunque, nel senso che le dico, il tradizionalismo non è da “bollare”, ma da difendere».”

Toccata la tradizione è toccata la base della nostra libertà? E intaccata la dignità? Se la tradizione fosse stata intoccabile, nessun progresso sarebbe stato possibile. E sono ben disposta ad ascoltare le ragioni per cui l’abolizione della schiavitù, ad esempio, non costituirebbe un progresso (di contro la tradizione schiavista profondamente radicata).

“(Domanda) Lei ha lanciato il Comitato per l’Occidente, che è stato registrato come una delle poche novità della campagna elettorale dalla stampa straniera. Continuerete a fare politica o si è esaurita con le elezioni e la sconfitta di misura quella che nel Pci chiamerebbero la vostra forza propulsiva?
«Nessuno di noi ha mai detto e pensato che il Manifesto per l’Occidente fosse un espediente elettorale. Continueremo perciò a tenerlo in vita, a diffonderlo e a difenderlo, sia in Italia che in Europa, dove ha avuto vasta accoglienza, e lo faremo tanto più adesso che, con la vittoria del centrosinistra, i contenuti di quel Manifesto sono a rischio».”

A quando il Comitato di quelli alti 1 metro e 72? O di quelli con l’apparecchio ai denti o l’apparecchio acustico? Il Manifesto per l’Occidente è davvero un documento imbarazzante, vergognoso. Stupido.

domenica 5 marzo 2006

1, 2, 3 stella! Berlusconi, Casini e Mastella in Vaticano

Il 30 o il 31 marzo Joseph Ratzinger riceverà in udienza privata in Vaticano il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, e il capolista dell’Udeur-Popolari, Clemente Mastella (Berlusconi, udienza dal papa prima del voto, Il Corriere della Sera, 5 marzo 2006). Non dimentichiamoci che sabato, Benedetto XVI ha ricevuto il presidente del Senato, l’amico filosofo Marcello Pera, rompendo così un rigido protocollo che vieta al Papa di ricevere politici durante la campagna elettorale.

Un caro saluto a tutti.