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martedì 23 novembre 2010

Contrordine, fratelli: le prostitute sono comprese

Una sorpresa dalle agenzie:

Città del Vaticano, 23 nov. (Apcom) – È indifferente parlare di “prostituta”, come indicato nel testo italiano, o di “prostituto”, al maschile, secondo la versione originale tedesca, in merito all’affermazione del Papa sull’uso del preservativo per persone infette da aids: lo dichiara il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, precisando di aver parlato della questione direttamente con Benedetto XVI dopo le discussioni suscitate dalla apertura al condom contenuta nel libro-intervista al Papa ‘Luce del mondo’.
“Ho chiesto al Papa se c’era problema serio di scelta nel maschile piuttosto che nel femminile”, ha spiegato Lombardi nella conferenza stampa di presentazione del volume. “Lui mi ha detto di no”.
“Il punto – e per questo non vi ho fatto alcun riferimento nella nota di domenica – è il primo passo di responsabilità nel tenere conto del rischio della vita dell’altro con cui io sono in rapporto. Se si tratta di un uomo o di una donna o di un transessuale è lo stesso”. Il Papa “non è ingenuo, sapeva cosa era successo dopo le sue frasi nel viaggio in Africa, sapeva che ci si sarebbe rimessi a parlare di questo tema, e lui lo ha fatto. Ha avuto il coraggio di rispondere. Perché ritiene che la questione è seria per il mondo di oggi e lui ha dato il suo contributo all’umanizzazione della società e alla responsabilità che interessa tutti in tutte le condizioni, specialmente quelle di povertà”.
In base a quanto scrivevo ieri, dunque, l’affermazione del papa riguardo l’uso del profilattico si prospetta ora davvero come clamorosa (benché comunque non rivoluzionaria): se anche una prostituta può chiedere ai propri clienti di usare il preservativo, in modo da proteggersi dall’infezione da Hiv a spese della «finalità intrinseca» procreativa dell’atto sessuale, la tradizionale ripulsa cattolica del principio del male minore vola via per la finestra. Le conseguenze, al di là del profilattico, potrebbero essere abbastanza profonde; cito di nuovo, e in maniera più completa, il passo di Elio Sgreccia che portavo ad esempio ieri:
Quando si tratta di due mali morali, l’obbligo è di rifiutarli entrambi, perché il male non può essere oggetto di scelta e ciò anche quando, rifiutando quello che si presenta come il male minore, si provocasse un male maggiore.
L’esempio più frequente è quello del medico che si trova di fronte al dilemma posto dalla paziente che richiede la prescrizione dei contraccettivi altrimenti prospettando l’idea dell’aborto (male maggiore rispetto alla contraccezione). L’eventualità dell’aborto non sarebbe imputabile al medico, specialmente quando questi avesse istruito la paziente che è male sia l’una che l’altra cosa e che esistono vie per evitare entrambe le situazioni.
È chiaro che se a una prostituta è permesso come male minore l’uso di quello che rimane in ogni caso un mezzo contraccettivo per proteggere la propria vita, a maggior ragione lo stesso dovrebbe essere concesso a una coppia decisa a ricorrere all’aborto in caso di gravidanza (per esempio perché portatrice di gravi malattie genetiche trasmissibili al feto), e non disposta a seguire i cosiddetti metodi naturali o a ridursi all’astinenza: c’è anche qui in gioco – per la Chiesa – una vita umana.

Difficile capire come una novità del genere potrà essere digerita dalle gerarchie ecclesiastiche: il tentativo di evidenziare come il papa non parlasse ex cathedra (e quindi in modo infallibile), già compiuto dallo stesso Padre Lombardi in una precedente nota stampa, alla lunga sarebbe insostenibile, evidenziando solo l’imbarazzante situazione di un papa che dice nei suoi discorsi informali cose diverse dal magistero su una materia tanto centrale per la Chiesa come la morale sessuale. A questo punto non si può allora escludere un intervento magisteriale di Benedetto XVI, forse adombrato dalle oscure frasi sulla Humanae vitae che riportavo sempre ieri. Ci attendono tempi interessanti?

(Rimane irrisolto un dettaglio minore ma misterioso: perché mai il papa è andato a fare l’esempio peregrino di un prostituto maschio, se ciò che diceva si applicava a uomini e donne ugualmente?)

Aggiornamento 24/11: le prime reazioni alla nota di padre Lombardi del popolo tradizionalista, che aveva riposto più di qualche speranza in Benedetto XVI, si possono cogliere nei commenti a questo post del blog Messa in latino. In buona parte sono assai poco tenere nei confronti del papa.

lunedì 22 novembre 2010

Il papa, il preservativo e il male minore

Vorrei tornare con più calma – anche per rispondere a qualche garbata critica – su un aspetto importante della questione delle presunte ‘aperture’ papali sul preservativo. Perché, come dicevo ieri, concedere che per un prostituto omosessuale sieropositivo sia lecito usare il profilattico (allo scopo di evitare di contagiare il proprio cliente) costituisce un’apertura tutto sommato assolutamente marginale da parte di Benedetto XVI?
Possiamo partire dal documento del magistero ecclesiastico che ha condizionato più di tutti la dottrina in materia di contraccezione: l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che risale al 1968. Ecco cosa si afferma al punto 14 dell’enciclica (corsivo mio):

È altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione. Né, a giustificazione degli atti coniugali resi intenzionalmente infecondi, si possono invocare, come valide ragioni: che bisogna scegliere quel male che sembri meno grave […]. In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali.
Come ribadirà ancora Elio Sgreccia nel suo Manuale di bioetica (4ª ed., Milano, Vita e Pensiero, 2007, vol. I p. 259),
quando si tratta di due mali morali, l’obbligo è di rifiutarli entrambi, perché il male non può essere oggetto di scelta e ciò anche quando, rifiutando quello che si presenta come il male minore, si provocasse un male maggiore.
È in base a questo principio, per esempio, che la Chiesa rifiuta l’aborto anche se compiuto per salvare la vita alla madre: si può forse ammettere che la morte di una donna che deve magari accudire altri bambini sia un male maggiore della morte di un feto, ma non è comunque lecito compiere ciò che la dottrina cattolica considera un male. Nel caso del preservativo (e della contraccezione in generale) il male – per la dottrina cattolica – consiste nell’impedire che la «finalità intrinseca» dell’atto sessuale, e cioè la procreazione, possa compiersi. Non importa se il contagio dell’Aids possa essere considerato un male maggiore di questo: il male non si deve mai scegliere, e quindi la Chiesa proibisce il preservativo anche nel caso in cui uno dei due coniugi sia sieropositivo. Naturalmente le gerarchie cattoliche si rendono conto che questo tipo di argomenti non ha molta presa sulla mentalità moderna (e anzi rischia di suscitare un senso spontaneo di ripulsa in chi lo ascolta); hanno dunque preferito affidarsi alla retorica del preservativo che non funziona e anzi «peggiora le cose», di più sicuro effetto, anche se alla lunga controproducente (cosa succede quando alla fine la gente si convince che il preservativo invece funziona davvero?). Ma le basi dottrinali del rifiuto del profilattico rimangono ancora quelle della Humanae vitae.

Veniamo ora al caso in esame. Se il papa avesse davvero detto che una prostituta può chiedere ai propri clienti di usare il preservativo per proteggersi dall’infezione dell’Hiv, avrebbe con ciò ammesso che un male minore – la prostituta non può più rimanere incinta dei suoi clienti – è preferibile a un male maggiore – la prostituta alla lunga rimarrà contagiata e, soprattutto se non ha accesso ai farmaci moderni, morirà. Avrebbe quindi negato uno dei principi più importanti della bioetica cattolica; e anche se un’intervista non può paragonarsi a un atto solenne del magistero, e non ha quindi valore dottrinale (il papa non parla qui ex cathedra, e non può quindi essere ritenuto infallibile), si sarebbe trattato comunque di un’affermazione clamorosa.
Ma nel caso del prostituto omosessuale viene a mancare uno dei termini di paragone: qui, infatti, usare il preservativo non fa deviare l’atto sessuale da quello che per la Chiesa è il suo fine: quell’atto, per la Chiesa, è già deviato; l’alternativa al male maggiore (il contagio), quindi, non è un altro male, neppure minore. Il prostituto sta comunque commettendo un male (perché è omosessuale e perché si prostituisce), ma si tratta di un male che avrebbe commesso ugualmente anche senza profilattico; non è un male alternativo. I filosofi morali cattolici potrebbero forse avere ancora da ridire, ma il pensiero papale non va manifestamente contro la dottrina.

Tutto bene, dunque (almeno al netto del disastro mediatico)? C’è per la verità un punto ulteriore che dà da pensare. Più avanti nel libro-intervista il papa afferma:
Le prospettive della Humanae vitae restano valide, ma altra cosa è trovare strade umanamente percorribili. Credo che ci saranno sempre delle minoranze intimamente persuase della giustezza di quelle prospettive e che, vivendole, ne rimarranno pienamente appagate così da diventare per altri affascinante modello da seguire. Siamo peccatori. Ma non dovremmo assumere questo fatto come istanza contro la verità, quando cioè quella morale alta non viene vissuta. Dovremmo cercare di fare tutto il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda. Esprimere tutto questo anche dal punto di vista pastorale, teologico e concettuale nel contesto dell’attuale sessuologia e ricerca antropologica è un grande compito al quale bisogna dedicarsi di più e meglio.
Qui sembra, almeno all’inizio (e sempre che la traduzione italiana non sia di nuovo difettosa), che il papa stia dicendo che il rigorismo dell’enciclica montiniana non è accessibile a tutti nella Chiesa; ma poi il discorso si fa oscuro e – almeno per me – indipanabile; non sono sicuro di che cosa voglia dire. Un punto di cui forse si parlerà ancora – ma stavolta, c’è da scommetterlo, a porte ben chiuse...

Aggiornamento: un punto di vista analogo al mio (anche se proveniente da tutt’altra sponda) è presentato nel blog Messa in latinoIl Papa sui profilattici: parole di buon senso», 21 novembre):
Da notare che il testo dell’Osservatore parla di “una prostituta”. Per contro i dispacci di agenzia in inglese, e di conseguenza i commentatori stranieri, riportano allo stesso punto del discorso la locuzione “male prostitute”. La differenza non è di poco conto, poiché nel caso di un rapporto tra uomini l’utilizzo del profilattico non suscita il problema morale (ulteriore rispetto alla grave peccaminosità intrinseca della fornicazione, per giunta contro natura) dell’utilizzo di un sistema anticoncezionale, non essendovi in quel caso alcuna potenzialità procreativa. Non così, invece, nel meretricio secondo natura: in effetti il preservativo in questo caso ha una funzione, oltre che protettiva dal contagio, pure anticoncezionale, lo si voglia o meno.

giovedì 18 febbraio 2010

A rene donato non si guarda in...

Nei mesi scorsi tre persone, due in Lombardia e una in Piemonte, si sono offerte di donare un rene a uno sconosciuto che ne avesse bisogno. A quanto affermano le agenzie di stampa, «il Centro nazionale trapianti ha riunito ieri i rappresentanti delle tre reti interregionali dei trapianti per verificare la possibilità legale di questa modalità utilizzata già in altri paesi ma ancora mai in Italia. La legge nazionale regola infatti la donazione da vivente fra consanguinei o persone con legame affettivo, oltre a vietare ogni forma di vendita» (Ansa, 17 febbraio 2010, 18:20). E oggi si annuncia che «il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, chiederà al Comitato nazionale di Bioetica (CNB) un parere urgente sull’offerta di donazione di organi da parte dei donatori cosiddetti samaritani» (Ansa, 18 febbraio, 12:14).

Tanta prudenza è sorprendente. La donazione di rene da vivente è regolata in Italia dalla legge 26 giugno 1967, n. 458 (G.U. 27 giugno 1967, n. 160), che all’art. 1 recita:

In deroga al divieto di cui all’articolo 5 del Codice civile, è ammesso disporre a titolo gratuito del rene al fine del trapianto tra persone viventi.
La deroga è consentita ai genitori, ai figli, ai fratelli germani o non germani del paziente che siano maggiorenni, purché siano rispettate le modalità previste dalla presente legge.
Solo nel caso che il paziente non abbia i consanguinei di cui al precedente comma o nessuno di essi sia idoneo o disponibile, la deroga può essere consentita anche per altri parenti e per donatori estranei [corsivo mio].
Questa possibilità è stata estesa dalla legge 16 dicembre 1999, n. 483, al trapianto parziale di fegato, con le stesse modalità della 458/67.
È vero che esistono delle «Linee guida per il trapianto renale da donatore vivente e da cadavere» (G.U. 21 giugno 2002, n. 144), frutto di un accordo fra il Ministro della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, che nella parte relativa alla donazione da vivente, all’art. 6, sembrano più restrittive:
Sul donatore viene effettuato anche un accertamento che verifichi le motivazioni della donazione, la conoscenza di potenziali fattori di rischio e delle reali possibilità del trapianto in termini di sopravvivenza dell’organo e del paziente, l’esistenza di un legame affettivo con il ricevente (in assenza di consanguineità o di legame di legge) e la reale disponibilità di un consenso libero ed informato.
Fatto abbastanza stupefacente, nella parte introduttiva del provvedimento la legge 458/67 non viene nominata; eppure essa è sicuramente ancora in vigore, tant’è vero che la si considera espressamente tale nel decreto Milleproroghe approvato dal Senato il 12 febbraio scorso! Come che sia, un provvedimento amministrativo, quale sono queste linee guida, non può modificare una norma di legge; la situazione legislativa è dunque chiara. Ne prendeva atto lo stesso CNB, seppure a malincuore, quando il 17 ottobre 1997 consegnava un parere sul «problema bioetico del trapianto di rene da vivente non consanguineo», in cui auspicava una revisione della normativa vigente, limitando il prelievo da vivente non consanguineo a chi si trovi a essere «“affettivamente vicino” al ricevente (ad esempio il coniuge, il convivente stabile o un amico)» (fortunatamente neppure i pareri del CNB possono modificare le leggi esistenti).

Le prese di posizione odierne non sono tuttavia molto incoraggianti. La stessa Roccella dichiara, con la solita esibizione di spietatezza (Enrico Negrotti, «Reni in dono, ma la legge non lo prevede», Avvenire, 18 febbraio, inserto «È vita», p. 3; dal titolo e dal testo si vede che il giornale della CEI ignora la legge vigente, ma nel suo caso l’ignoranza ha cessato da tempo di sorprenderci):
Siamo molto cauti, perché sono possibili strumentalizzazioni di tutti i tipi. La nostra idea in ogni caso è che il corpo non è un bene a disposizione, e quindi non può neanche essere un bene da regalare. Valuteremo questi casi specifici, ma la questione è complessa.
Il sottosegretario non rinuncia per l’occasione a una delle sue consuete uscite stralunate: come riporta la succitata agenzia Ansa di oggi, «Personalmente sono molto cauta – ha concluso Roccella – perché credo che il corpo sia la persona». Non chiedetemi cosa voglia dire (suppongo che la Roccella conservi religiosamente tutte le unghie che si taglia, parte integrante della propria persona...).
Fa eco alla Roccella, sempre dalle colonne di Avvenire, il professor Francesco D’Agostino, non a caso presidente del CNB all’epoca del parere sul trapianto da vivente:
«Poiché il trapianto di rene da vivente implica una grave lesione al corpo del donatore e poiché esiste il dovere etico di tutelare la salute di ogni vivente, sono contrario alla possibilità di donatori samaritani». Tale lesione è giustificata nella donazione a un parente stretto, ma «non in casi diversi».
Dopo aver teorizzato l’espropriazione brutale del corpo altrui, D’Agostino prosegue, secondo la tecnica argomentativa che gli è propria, con il dubbio gettato sulla libertà del volere dell’espropriato:
Occorre inoltre investigare le motivazioni di chi intende donare il proprio organo, che possono essere sbagliate: «Ad esempio da una sorta di narcisismo o autoesaltazione del soggetto, non dunque pienamente consapevole della scelta fatta».
Ricordiamo i termini della vicenda: quelle tre persone si sono dette pronte a donare i loro organi senza condizioni, senza conoscere nemmeno chi beneficerà del loro atto. Ipotizzare a priori «strumentalizzazioni» o forme di «narcisismo» è un insulto a sangue freddo che colpisce chi meno di tutti lo merita. L’arroganza dell’integralismo non arretra evidentemente di fronte a nulla, pur di non deflettere dal proprio principio supremo: che l’uomo non è padrone del proprio corpo. Che dei malati possano essere sottratti grazie a quei donatori a una esistenza di tormenti o addirittura a una morte dolorosa è evidentemente per Roccella e D’Agostino irrilevante: l’ideologia trionfa sulla vita.

È con una certa gratitudine che si trovano – ancora su Avvenire – parole diverse, e da una fonte che non ti aspetteresti. Afferma il vescovo Elio Sgreccia, presidente onorario della Pontificia Accademia per la vita: «Dal punto di vista bioetico, se è considerata lecita e meritoria la donazione di organi tra viventi quando si tratta di un fratello, un figlio o un coniuge, altrettanto si deve ritenere se la donazione avviene per una persona verso la quale non ci sono vincoli di parentela».
Ma la riconoscenza maggiore va naturalmente ai tre anonimi aspiranti donatori:
Voglio donare un rene, non voglio sapere a chi. Mi basta essere certa che si tratta di una persona che ne ha bisogno. Diceva così il fax ricevuto qualche tempo fa dal primario di un grande ospedale del nord-ovest. La mittente è una giovane donna che in cambio chiede solo l’anonimato e la cui identità è protetta dai sanitari che già sono in contatto con lei. «La solidarietà è un bene raro, lo voglio fare per questo», ha spiegato nel primo incontro con i medici, aggiungendo di non essere spinta a questo gesto da motivi religiosi ma solo umanitari e di solidarietà: «La vita è stata buona con me. Adesso voglio contribuire a fare del bene anche agli altri». Dello stesso tenore sarebbero le motivazioni degli altri due «samaritani» che hanno espresso simili intenzioni nell’arco di pochi mesi (Ansa, 17 febbraio, 20:52).

giovedì 15 novembre 2007

Darwin secondo Sgreccia

Elio Sgreccia (Scienza e fede: mons. Sgreccia, creazionismo ed evoluzionismo non si contraddicono, SIR, 15 novembre 2007):

Una fede rettamente compresa nella creazione e un’evoluzione rettamente intesa non sono in contraddizione: l’evoluzione suppone la creazione, anzi la creazione alla luce dell’evoluzione produce un arricchimento che si estende nel tempo come creazione continua.
E poi l’agenzia prosegue:
Il dibattito sul rapporto tra creazionismo ed evoluzionismo è stato rilanciato, ha ricordato Sgreccia, dalla teoria dell’”Intelligent design” elaborata negli Usa, ma implica la necessità della presa di coscienza di “un disegno superiore, per arrivare ad una pacificazione tra le istanze della scienza e quelle della religione”. “Nemmeno Darwin – ha affermato il relatore – intendeva escludere la creazione”, perché “anche chi accetta l’evoluzione ha l’obbligo di darne spiegazioni in termine di ragion sufficiente”. In questa prospettiva, dunque, “non c’è contraddizione tra creazione ed evoluzione, purché si mantengano alcuni punti fermi”, prima fra tutte “la differenza ontologica dell’uomo”, la cui negazione “rende incompatibili alcune teorie evoluzionistiche con la visione cattolica”.

martedì 20 febbraio 2007

I mostri e il monsignore

Una delle più bizzarre obiezioni alla vendita di ovociti (che il governo britannico si appresterebbe a legalizzare, stando alle ultime notizie) è stata avanzata da monsignor Elio Sgreccia, in un’intervista apparsa ieri sulla Stampa (Daniela Daniele, «“Qual è il progetto? Così potrebbe nascere una stirpe di mostri”», 19 febbraio 2007):

Il commercio di ovuli fa pensare che ci sia un progetto di riproduzione. Che cosa vogliono fare? Il gamete, ovulo e spermatozoo, è cellula che si presta a qualsiasi tipo di fecondazione, anche tra specie diverse, ovulo umano con sperma di animale o viceversa. Parliamo di esperimenti che possono diventare incontrollabili. La curiosità degli scienziati non ha limiti. Potrebbe derivarne una stirpe di cui non si conosce la provenienza, così come un mostro, o si potrebbe dare il via a una serie di sperimentazioni selvagge. Quindi, la prima cosa che devono fare i ricercatori è agire con trasparenza e dirci che progetti hanno.
Come è noto, secondo una delle definizioni più diffuse, si dice che due specie animali sono differenti quando gli individui che appartengono ad esse incrociandosi non riescono a generare progenie fertile. Naturalmente non risulta sempre facile accertare questa circostanza: per esempio, se le due specie vivono separate geograficamente. Inoltre due specie possono essere incapaci di generare prole per molti motivi: per mancanza di attrazione sessuale reciproca (non molti esseri umani troverebbero attraente un gorilla del sesso opposto, e viceversa), per incompatibilità dei rispettivi apparati genitali, e simili (uno spermatozoo umano potrebbe trovarsi a mal partito nell’utero di un orango). In questo senso, è vero che gameti di specie diverse uniti in laboratorio potrebbero prestarsi a fecondazioni ardite; ma a questo punto entra in gioco la pura diversità genetica. Più l’antenato comune di due specie si situa indietro nel tempo, più sarà difficile che i suoi discendenti possano annullare la distanza che li separa. Ora, l’animale geneticamente più simile all’uomo, e cioè lo scimpanzè, si è separato dal ceppo comune circa sei o sette milioni di anni fa; che oggi uno spermatozoo umano possa fecondare un ovocita di scimpanzè è già quasi incredibile; che lo zigote così formatosi possa cominciare a dividersi sarebbe un evento del tutto inverosimile (basti pensare al fatto che gli esseri umani hanno un paio di cromosomi in meno); che in questo modo possa nascere una creatura ibrida è pura fantasia.
È possibile che Sgreccia sia caduto in un equivoco che ha già fatto altre vittime: in Gran Bretagna si è parlato di recente della possibilità di produrre chimere uomo-animale, e alcuni hanno creduto che ciò avvenisse tramite la fecondazione con sperma umano di ovociti animali. Ma se questo equivoco è ciò che ci si può attendere dal Foglio di Ferrara, autentico focolaio di ignoranza e di falsificazione, dal Presidente della Pontificia Accademia per la Vita ci si aspetterebbe uno standard almeno un poco più elevato.

Ciò che colpisce nella risposta di Sgreccia, a parte la labilità delle sue conoscenze scientifiche, è l’immagine della scienza e degli scienziati, che sembra ispirata più dalla lettura dell’Isola del dottor Moreau che dalla realtà attuale: ce lo vedete un comitato etico che dà il benestare a un esperimento di questo tipo? O uno scienziato che spende il suo tempo in ricerche che non potrà palesemente mai pubblicare? O ancora, riuscite a trovare credibile la fuga della creatura dal laboratorio (devo supporre che Sgreccia, quando parla di «stirpe di cui non si conosce la provenienza», si riferisca a un’eventualità di questo genere), a seminare il panico in città?
L’Italia paga già le conseguenze di un insufficiente sostegno alla ricerca; la demonizzazione gratuita degli scienziati non l’aiuta di certo a uscire da questa situazione.

mercoledì 24 gennaio 2007

Monsignor Sgreccia concede troppo?

Sul Corriere della Sera di ieri Monsignor Elio Sgreccia, pur partendo con la chiara intenzione di correggere le concessioni del Cardinal Martini di tre giorni fa, sembra curiosamente fare a sua volta concessioni importanti (Elio Sgreccia, «Si dà la morte anche omettendo le cure», 23 gennaio 2007):

L’esigenza del tener conto della volontà e del parere del paziente, esigenza sentita nella dottrina tradizionale della morale cattolica, è collegata al concetto di ordinarietà-straordinarietà che assumono le terapie in relazione alle condizioni fisiche, psicologiche, sociali ed economiche del paziente considerato nella sua situazione concreta. In questo ambito va certamente ascoltato il parere del paziente e va tenuta in conto la sua volontà. Ciò risulta dall’insegnamento valido dai tempi di Pio XII (cfr. Discorso del 24-11-1957) ad oggi. Ci può essere una terapia che in sé stessa risulta proporzionata dal punto di vista medico, ma che il singolo paziente giudica come straordinaria e non appropriata alle sue condizioni. E, si badi bene, ciò che è straordinario, non è moralmente proibito, bensì soltanto non obbligatorio. Si può dare il caso di un intervento costoso oppure rischioso per un determinato soggetto, che pur essendo medicalmente proporzionato, non è sopportabile da quel soggetto, o non lo è più ad un certo momento, per situazioni di carattere personale. Tali condizioni, peraltro, pur nascendo in relazione ad un soggetto, hanno un’oggettività e una rilevanza in base alle quali il soggetto stesso può dare il consenso oppure può chiedere legittimamente di rinunciarvi. In sintesi sono due i criteri che vanno coniugati: quando si tratta di terapie proporzionate (dal punto di vista medico) e ordinarie (dal punto di vista del paziente), c’è l’obbligo morale di offrirle e di accettarle (a parte la possibilità giuridica di rifiutarle); circa le terapie sproporzionate (ordinarie o straordinarie che siano), sussiste il dovere etico di rifiutarle, ordinariamente; per quanto riguarda poi le terapie medicalmente proporzionate, ma che risultassero straordinarie per il paziente, egli non sarà moralmente obbligato a sottoporvisi, ma potrà lecitamente farlo se lo decide: l’offerta e l’accettazione dipendono dalla matura e prudente scelta del paziente.
«Una terapia che in sé stessa risulta proporzionata dal punto di vista medico, ma che il singolo paziente giudica come straordinaria e non appropriata alle sue condizioni»: non è una descrizione quasi perfetta della terapia a cui era sottoposto Piergiorgio Welby? Sembra chiaro, dal resto dell’articolo, che Sgreccia non ha nessuna intenzione di condonare il gesto di Welby, ma in questo modo, mi sembra, introduce una contraddizione nel suo discorso.

venerdì 22 dicembre 2006

Il vincitore è Elio Sgreccia

No, non vi dirò qual è il concorso – tanto, lo capirete benissimo da soli. Dal Giornale di oggi (Andrea Tornielli, «Il vescovo: “Una messa per perdonare chi lo ha ucciso”», 22 dicembre 2006):

Non sappiamo se il paziente ha chiesto la sospensione delle cure perché rifiutava un trattamento divenuto per lui insopportabile, e in qual caso la richiesta poteva essere moralmente lecita, oppure il paziente ne fatto richiesta per farne una battaglia politica e, quindi, per ottenere una legge che spiani la strada all’eutanasia. L’aver “politicizzato” il paziente ha reso impossibile sapere se la sua richiesta era fondata sul suo bene o sul bene del suo partito.
(Il «vescovo» del titolo è Rino Fisichella, rettore dell’università Lateranense e cappellano della Camera dei deputati, che dice: «Alla messa di stasera pregherò per Welby, perché Dio lo accolga nella sua misericordia, dopo che ha sofferto così tanto e così a lungo. E chiederà anche al Signore di perdonare coloro che lo hanno ucciso». Sua Eccellenza si situa in alto nella classifica, come si vede.)