Su Avvenire di oggi troviamo un’intervista a don Michele Aramini, docente di bioetica, sul tema dell’eutanasia («Eutanasia? La chiede chi viene lasciato solo»). C’è un punto che presenta un certo interesse:
Perché si arriva a chiedere in determinati casi il ricorso all’eutanasia?Lasciamo stare l’infelice affermazione sulla «pretesa immoralità di infliggere dolore a una persona»: credo (e spero vivamente!) che Aramini si sia espresso male, o sia stato mal compreso. Concentriamoci invece sulla «sedazione terminale». L’intervistato non approfondisce l’argomento, né l’intervistatrice gli chiede di approfondirlo; di cosa si tratta, allora?
«C’è una prima motivazione, che di certo era più valida nel passato ma che, quando si entra in un clima di polemica, viene tirata abitualmente fuori: mi riferisco all’insopportabilità del dolore, vale a dire il rifiuto di una sofferenza che non si riesce a tollerare in prima persona oppure a far sopportare agli altri. Era la richiesta contenuta nel manifesto sull’eutanasia firmato nel 1983 da alcuni premi Nobel, che faceva leva sulla pretesa immoralità di infliggere dolore a una persona. È una richiesta superata, in quanto la terapia del dolore oggi è in grado di agire su tutte le situazioni, anche quelle più estreme, con la cosiddetta “sedazione terminale”».
La sedazione terminale consiste nel somministrare sedativi a un paziente terminale in preda a dolori non trattabili altrimenti, provocandone la perdita della coscienza e mantenendo questa condizione fino al sopraggiungere della morte. Di norma vengono anche sospese alimentazione e idratazione, che non sarebbero più di alcun beneficio al malato, e che anzi potrebbero provocare effetti avversi, come l’edema polmonare. Spesso si ha un accorciamento nella lunghezza della vita rimanente (che sarebbe però in ogni caso molto breve).
Si è discusso e si discute sull’equivalenza morale di questa pratica con l’eutanasia. Ci sono delle ragioni – più o meno buone – per ritenerle distinte (cfr. Robert M. Taylor, «Is terminal sedation really euthanasia?», Medical Ethics 10, 2003, p. 3); ma quel che è indisputabile, è che dal punto di vista soggettivo del paziente le due cose sono identiche. Viene posto infatti in uno stato di sedazione profonda o di coma, che rappresenta senza dubbio la fine della sua esperienza cosciente, esattamente come la morte. L’eutanasia sarà anche più brutale (o forse piuttosto meno ipocrita?), ma risponde a una logica pressoché identica: di fronte a una sofferenza ineliminabile, non rimane che porre pietosamente fine alla vita, cosciente e/o biologica; e l’osservazione di Aramini, più avanti nell’intervista, che la richiesta dell’eutanasia «viene meno se una persona è trattata adeguatamente con la terapia del dolore» assume una connotazione involontariamente ironica.
1 commento:
Trovo interessante e utile lo spazio dedicato all'argomento. Vi segnalo il seguente link http://www.limen.biz/articolo.php?ct=GDS&id=4 a un lavoro scientifico sulla sedazione nelle cure palliative, a firma del Gruppo di Studio per la Bioetiuca e le Cure palliative della Società Italiana di Neurologia, ospitato nel sito della rivista on-line "Limen" (http://www.limen.biz), che si occupa appunto dei poroblemi medici ed etici delle cure di fine vita.
Grazie per l'attenzione e auguri di buon lavoro a tutti.
Luciano Benedetti
direttore responsabile di "Limen"
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