Nello stesso giorno in cui un editorialista del Foglio dimostrava i limiti della propria capacità di leggere e far di conto, nel tentativo fallito di commentare intellegibilmente l’episodio dell’embrione selezionato nel Regno Unito perché fosse immune da una forma di tumore della retina, usciva altrove un secondo articolo sulla stessa vicenda (Felice Achilli e Clementina Isimbaldi, «Anche il bimbo che non può avere il tumore è selezione della specie», Libero, 16 maggio 2006, p. 14).
Gli argomenti apportati dalla coppia di commentatori per condannare la tecnica della selezione embrionale si riducono quasi tutti a uno solo: «Lo scopo della diagnosi, in medicina, è di permettere la terapia, non di sopprimere il malato». L’embrione è una persona, e quindi non va ucciso. Confutare questa asserzione ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema, e non produrrebbe oltretutto nessun argomento originale. C’è tuttavia da osservare come gli autori (e non sono i soli) sembrino convinti che la loro opinione sia in realtà un dato di fatto indiscutibile, e manifestino una certa ottusa incapacità a rendersi conto che le cose non stanno esattamente così. Del resto ci sarebbe da chiedersi su quali basi si fondi la loro convinzione, visto che concludono l’articolo con un lapidario «chi è malato vuole guarire, non essere ucciso prima che la malattia si esprima». Che un embrione formato al massimo da una decina di cellule possa volere qualcosa è, si ammetterà, una nozione piuttosto difficile da accettare...
Ad ogni modo, come spesso succede in questi casi, gli autori non si accontentano delle loro trincee morali, e si avventurano sul terreno esposto dei fatti. Dove noi li attendiamo.
[C]osa ancor più grave … la tecnica della fecondazione assistita, cui la coppia si è sottoposta, annovera tra i suoi effetti a distanza proprio lo sviluppo di retinoblastoma, come segnalato su Lancet (Moll AC., 2003). La questione è quindi più complessa di quanto la si voglia far apparire.Il riferimento è a Annette C. Moll et al., «Incidence of retinoblastoma in children born after in-vitro fertilisation», Lancet 361, 2003, pp. 309-10. Sono noti sette casi di bambini concepiti in vitro e affetti da retinoblastoma non familiare: uno in Israele, uno negli Usa, e ben cinque nei Paesi Bassi (D. BenEzra, «IVF and retinoblastoma», British Journal of Ophthalmology 89, 2005, p. 393; l’autore commette quello che mi pare un evidente errore nel computo dei casi olandesi). È di questi cinque casi che si occupa l’articolo di Moll et al., occorsi tutti in bambini nati tra il 1997 e il 2001. In Olanda tra il 1980 e il 1997 non se ne erano mai verificati, né da un esame della letteratura risultano nuovi casi dopo il 2001. Studi subito intrapresi per controllare la situazione in altri paesi hanno dato esito negativo: nessun caso in Danimarca, nessun caso nel Regno Unito. La spiegazione più probabile è a questo punto che un fattore causale estrinseco ed ignoto sia stato attivo nel periodo (una variazione nelle procedure della procreazione assistita?), o che si tratti di una anomalia statistica. E queste erano già in sostanza le conclusioni – giustamente prudenti – degli autori dello studio apparso su Lancet. Quindi l’affermazione dei due di Libero, che «la tecnica della fecondazione assistita … annovera tra i suoi effetti a distanza proprio lo sviluppo di retinoblastoma» è di nuovo un’opinione contrabbandata come fatto.
Questo già la dice lunga sull’integrità (o sulla competenza) professionale dei due personaggi, che vengono definiti in calce all’articolo «medici» (di un’associazione cattolica, «Medicina e Persona»); ma per amore di discussione ammettiamo pure – tutto può essere – che i dati olandesi siano rappresentativi. L’articolo originale dà una stima di 7,2 volte per l’incremento del rischio di sviluppare la malattia rispetto alla popolazione generale. Già, ma qual è normalmente il rischio di essere colpiti dal retinoblastoma? Usando i dati proposti dagli autori esso risulta per ciascuna persona che nasce nei Paesi Bassi dello 0,0036%, non molto differente da quello degli altri paesi occidentali. Con un incremento del 7,2 il rischio diventerebbe invece dello 0,026%. Applichiamo adesso questi risultati al nostro embrione, che però sicuramente non ha ereditato dai genitori la malattia, essendo stato appositamente selezionato: il rischio che la sviluppi è quindi in partenza un po’ inferiore a quello della popolazione generale (il retinoblastoma si presenta in forma sia ereditaria, sia non ereditaria). Con l’aiuto di un altro studio (sempre di Annette Moll e colleghi: «Incidence and survival of retinoblastoma in the Netherlands: a register based study 1862–1995», British Journal of Ophthalmology 81, 1997, pp. 559-62, tab. 2 a p. 560) valutiamo questo rischio allo 0,0032%, che la fecondazione in vitro aumenterebbe, nell’ipotesi, allo 0,023%. Questa sarebbe dunque la probabilità che l’embrione sviluppi comunque il retinoblastoma, se davvero la procedura adottata avesse gli effetti nefasti descritti. Invece, la probabilità che l’embrione avesse sviluppato il retinoblastoma se i genitori non avessero fatto ricorso allo screening embrionale, sarebbe stata del 45%: quasi 2000 volte superiore. Per i due autori dell’articolo di Libero, quindi, che non si tenga conto di una probabilità dello 0,023% (al massimo) è una «cosa grave», e chi si compiace del successo ottenuto ha una posizione che, oltre «che non etica … appare poco scientifica», visto che in fondo le probabilità di sviluppare una grave malattia sono diminuite solo di 2000 volte...
Si potrebbe continuare, ma penso che questo sia sufficiente. Tengo però ad assolvere i due autori da una colpa: il titolo demenziale dell’articolo non è loro, ma di Libero.
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