mercoledì 21 aprile 2010

Di Pietro e Tavella: io non capisco

Beach Cow
Qualche giorno fa un articolo di Susanna Tamaro ha avviato un dibattito sul femminismo e sulle libertà delle donne. Non voglio affrontare il dibattito per intero o provare a rispondere alla questione se oggi le donne siano più o meno libere di un tempo oppure quanto siano libere.
Ma voglio commentare il pezzo di due nostre vecchie conoscenze: Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, La libertà femminile e il fallimento delle istituzioni, Il Corriere della Sera, 21 aprile 2010. Sottotitolo: Negli altri Paesi d’Europa i movimenti libertari hanno coinvolto larghe fasce della popolazioni, in Italia no.
Le autrici sembrano contente del fatto che

Negli altri paesi d’Europa i movimenti libertari hanno coinvolto larghe fasce della popolazioni, attraversato partiti e istituzioni, ammodernato mentalità, pratiche politiche, e anche legislazioni che sono state sentite e attuate.
Continuano elencando le conquiste che, nonostante questo non sia accaduto in Italia, le donne italiane hanno ottenuto: dalla legge sui salari ai congedi parentali (pur nella loro imperfetta applicazione) ai profondi cambiamenti delle mentalità.
Le leggi hanno funzionato solo in parte, eppure in altri e decisivi livelli dell’esistenza femminile avvenivano cambiamenti radicali che hanno innovato gli stili di vita di tutti, uomini donne e bambini. Famiglie allargate, libertà di scelte sulla salute, percorsi spirituali, imprenditoria femminile, formazione, difesa della scuola, integrazione degli stranieri, volontariato, cura della terra e dell’ambiente sono tutti settori della vita individuale e sociale dove la libertà è misurabile ed è superiore a quella di vent’anni fa. L’hanno allargata e coltivata le donne, senza leggi che lo comandassero, e si è trasformata in un vantaggio per tutti.
Condivisibile o no la loro interpretazione. Ma ancora non è questo il punto. La questione è la posizione di Di Pietro e Tavella nei confronti della legge 40 e soprattutto del referendum che ne è seguito.
Come può conciliarsi la legge 40 con la libertà delle donne? Una legge che le tratta come povere sceme perché decide al posto loro e elenca molti divieti, ingiustificati e ingiustificabili. Ma la posizione di Di Pietro e Tavella è molto lontana. In Madri Selvagge (qui la mia recensione al libro) descrivono le tecniche di riproduzione assistita come «una galleria di orrori, [...] storie di donne che subiscono ogni sorta di tortura pur di avere figli» (pp. 6-7). Avvertono il pericolo di non riconoscere il nemico patriarcale insito nella separazione tra riproduzione e corpo femminile (p. 7), ricordano la definizione delle biotecnologie come olocausto per le donne (p. 8), denunciano la congiura maschile volta a prendere il controllo della riproduzione riducendo il corpo femminile a ‘carne da riproduzione’ (p. 8). Paragonano la procreazione assistita alla lotta armata: entrambe renderebbero vittime le donne. Esprimono il proprio sospetto verso la legge 40 in nome dell’inimicizia per le leggi sul corpo delle donne: ma viene da domandare a Di Pietro e Tavella, esiste forse una legge che invade tanto il corpo delle donne quanto la legge sulla procreazione medicalmente assistita? Una legge tanto paternalista? Illiberale?
Quanto scrivevano nella lettera in cui spiegavano le ragioni dell’astensionismo al referendum suddetto (che non raggiunse il quorum) rende ancora meglio il profilo delle due femminste libertarie. Io non capisco come una legge che tratta le donne come incapaci di capire e di decidere e impone loro sofferenze evitabili possa essere difesa.
E in effetti non compare nell’elenco delle conquiste. Lo avevano anticipato però:
ci rassegniamo temporaneamente alla legge 40 perché, sia pure attraverso un percorso che non condividiamo, è cauta quanto noi siamo caute e limita pratiche che ci inquietano.
Capito? Loro non condividono e sono inquiete. Noi ci teniamo la legge 40.

3 commenti:

paolo de gregorio ha detto...

Sì, è vero che anche dell'infertilità del maschio fanno spesso le spese le donne in termini di invasione sul proprio corpo, e chissà che la ricerca (universo ancora a maggioranza maschile) non sia stata sbilanciata in questo senso, trascurando un po' la ricerca di vie diverse. Tuttavia fai bene ad essere perplessa, perché non si capisce in base a quale principio o ragionamento si consideri un vantaggio per la donna una legge che riduca il ventaglio di scelte che le sono disponibili, per di più in base al proprio dichiarato gusto personale.

Così dal chiedere leggi che aprano spazi di manovra se ne invocano incoerentemente talune che ne richiudano altri, secondo i propri gusti e secondo l'umore del risveglio mattutino. E allora un'altra donna ti potrebbe argomentare (e chissà ottenere) che sarebbe utile una legge che imponesse sempre e comunque l'aborto a tutte le donne, dato che il rischio per la salute di una donna con un aborto è inferiore a quello di un parto. E chi se ne importa delle donne che desiderano un figlio e sarebbero disposte a correre il rischio, se poi io che sono donna (e sono solo io quello che conto) me ne frego di un figlio!

L'incoerenza e l'irrazionalità non si sposano mai con la rivendicazione dei diritti, che in questo caso infatti si tramutano in esercizio di autorità bell'e buono sulla donna, tanto arbitrario quanto quello non infrequente di una qualunque religione organizzata (magari integralmente al maschile).

L'insuccesso del referendum sulla legge 40 resta per me la più grande disfatta autoinflittasi dalla donna italiana in tutto il secondo dopoguerra, un monumento all'egoismo e la resa di quella fantomatica solidarietà al femminile, che evidentemente si manifesta solo quando l'empatia supera un livello di soglia critico.

Aggiungo che quando una donna parla in nome di una ideologia personale, legittima se vogliamo (per la libertà di pensiero), dovrebbe onestamente dichiararlo invece di insistere di parlare in nome dei diritti di tutto il genere: per non svilire il ruolo di chi quei diritti li difende a prescindere dalla propria personale visione del mondo.

Anonimo ha detto...

Paolo de gregorio
ma dove sta il limite? o meglio, ci deve essere un lmite nella pretesa di diritti?
per ipotesi, uno potrebbe dire che non è giusto che un'ideologia condizioni il suo desiderio-diritto di ottenere con certezza attraverso la fecondazione una femminuccia dopo aver avuto 4 mascietti. Oltre sostenere il diritto alla salute, si potrebbe chiedere anche quell di soddisfare il desiderio della scelta del sesso (ovviamente più superfluo, ma per qualcuno magari molto importante). Ma se neghiamo questa possibilità, in base a che principio lo facciamo?

M.

paolo de gregorio ha detto...

@ M.

Primo punto: quello che stavo sottolineando era che le posizioni delle due scrittrici sulla legge 40, a mio avviso, son di natura ideologica in un senso che nulla ha a che fare con (nello specifico) la libertà delle donne e i loro diritti, nonostante essi siano (più o meno esplicitamente) l'obiettivo dichiarato. Una cosa è difendere la libertà e indipendenza delle donne, altra è prospettare un futuro in cui le donne siano a immagine e somiglianza delle autrici, passando - per ottenere questo scopo - attraverso scelte civili (astensionistiche) dalle ricadute pratiche ben precise.

La motivazione dichiarata dalle autrici, quindi, non era quella di voler affermare in generale che i diritti abbiano un limite (ed enunciarlo nel caso di specie), ma che una tal legge deve essere in un certo modo per il bene delle donne. Ho rimarcato, come ha suggerito Chiara, che questo obiettivo dichiarato non è riconoscibile all'atto pratico.

Venendo ai diritti in genere, e qui il discorso si farebbe lungo e saremmo totalmente fuori tema, io penso che sarebbe un buon punto di partenza riconoscere le discriminazioni di chi ha la sfortuna di versare in condizioni particolari, e saperle distinguere da quei casi in cui si vuol dare i natali ad un diritto del tutto nuovo. Mi sbaglio o stiamo parlando di coppie che per motivi di salute non sono in grado da sole di avere quello che le altre coppie hanno naturalmente, e della possibilità di accedere ad un servizio sanitario che possa parificare quelle prime coppie alle seconde ma che viene rinnegato e loro in parte negato? E allora che c'entra il diritto di avere una femminuccia? (su cui potremmo comunque certamente stare delle ore a discutere)

Il solito gioco delle tre carte: io non ho diritto ad un farmaco salvavita, perché se assumessimo che i diritti non hanno limite allora poi qualcuno pretenderebbe di clonare se stesso.