giovedì 25 dicembre 2008

Riflessioni natalizie sul ciurlare nel manico, il professor D’Agostino e i principi della morale

Ognuno, inevitabilmente, ha le proprie idiosincrasie linguistiche: parole, modi di dire che si trovano insopportabili, che ti fanno raggricciare al solo sentirli o vederli scritti. Per qualcuno può essere «un attimino», o l’atroce «piuttosto» usato come congiunzione disgiuntiva; nel mio caso – tra le altre cose – è l’espressione «ciurlare nel manico». Non so spiegare bene perché: forse è per quell’aria di desuetudine, di modo di dire sopravvissuto al suo tempo, che non si intende più tanto bene (non è un caso, credo, che si trovi spesso usato apparentemente col significato di «prendersi in giro», «dire intenzionalmente fregnacce», mentre il redivivo De Mauro ci informa che vuol dire invece «temporeggiare per sottrarsi a un impegno o a un dovere», «non essere saldo nelle proprie idee»); forse è per una certa goffagine equivoca che ne traspira, come se nascondesse qualche grassoccio doppio senso. Fatto sta, in ogni caso, che la detesto vivamente. Figuratevi quindi quando leggendo l’ultimo articolo del professor Francesco D’Agostino («Non ciurliamo, l’indisponibilità della vita è un argine antropologico», Il Foglio, 23 dicembre 2008, p. III) me la ritrovo ripetuta ben cinque volte, senza contare l’attestazione monca nel titolo (e con un senso che, qualunque sia, non sembra corrispondere tanto a quello del De Mauro o di altri dizionari). Ma noi di Bioetica siamo ossi duri – e poi nel brano che vado qui a commentare l’orrenda espressione misericordiosamente non compare.

Se […] ritenessi che ogni cittadino può (come l’unico vero giudice della qualità della sua vita, quindi per ragioni insindacabili) non solo disporne [della propria vita], ma esigere che lo stato lo “assista” a realizzare il suo eventuale desiderio di essere soppresso, perché mai dovrei ritenere quella stessa vita indisponibile da parte dello stato? A differenza del singolo, che sostiene che “nessuno lo può giudicare”, lo stato, almeno quello democratico, si lascia senza alcuna difficoltà giudicare dai propri cittadini. Non è vero forse che esso ha come proprio compito primario quello di garantire il bene comune?
E se il bene comune esigesse la soppressione di alcuni cittadini? Pensiamo ai costi per il servizio sanitario nazionale che implicano il far sopravvivere un neonato disabile o l’assistere tanti malati e anziani; pensiamo al rischio di contagio anche mortale che alcuni, pochi cittadini fanno inutilmente correre a tutti gli altri, ai “sani”; pensiamo all’efferatezza di alcuni delitti, che rendono i colpevoli non solo umanamente disgustosi, ma anche socialmente pericolosissimi e meritevoli di essere tolti definitivamente di mezzo... non sono questi buoni argomenti per sostenere che lo stato (lo stato democratico, che si prefigge un solo obiettivo, quello di garantire il bene comune!) può legittimamente disporre della vita dei suoi cittadini?
Sarei stato tentato di rispondere alla domanda di D’Agostino – «Se ritenessi che ogni cittadino può disporre della propria vita, perché mai dovrei ritenere quella stessa vita indisponibile da parte dello Stato?» – in modo un po’ brusco: «Perché altrimenti, gentile professore, riterrebbe vere due proposizioni contraddittorie: che la sua vita le appartiene (e con questo si intende comunemente che appartiene solo a lei), e che la sua vita appartiene allo Stato»; dopodiché avrei pubblicato il post, chiuso il portatile e sarei andato a farmi una passeggiata a mare. Ma il professor D’Agostino, immagino, potrebbe replicare in questo modo: «Non ciurliamo nel manico. Quello che volevo dire è che nel momento in cui si abbandona l’assolutezza di un principio – nel nostro caso, l’indisponibilità della vita umana – per sottometterlo a qualche convenienza più o meno contingente, tutto diventa possibile: anche derogare a quello stesso principio in un’altra direzione». E questo, bisogna convenirne, richiede una risposta un po’ più articolata.
Quando il tuo sistema di coordinate mentali ha origine da un punto prefissato, è facile prendere ogni spostamento a un altro punto di quello spazio come un allontanamento, un venir meno al principio. Ma può capitare che quel punto diverso sia in realtà l’origine a sua volta di un altro sistema di coordinate... Consideriamo il principio di non aggressione: nessuno può interferire con le libere scelte di un altro. Certo, è un principio che dispiace a chi, come il professor D’Agostino, sostiene che sia la vita ad essere indisponibile, e non la libertà dalle interferenze altrui: se nessuno mi può aggredire allora nessuno mi può neppure imporre terapie che non ho richiesto, nessuno può interferire col mio libero accordo con un medico che mi pratichi l’eutanasia, etc. Questo però non vuol dire che tutto diventa possibile – proprio perché anche qui abbiamo un principio assoluto. Lo Stato non mi può sopprimere appena finisco su una sedia a rotelle o perché sono sieropositivo, per la buonissima ragione che io non voglio essere soppresso.
Immagino che il professor D’Agostino protesterebbe ancora: «Ma questo è ciurlare nel manico! Anzi peggio: è relativismo! Tanti principi morali diversi, tutti validi!». Si tranquillizzi, professore: a differenza di quello che succede nello spazio fisico, nello spazio dell’etica non tutti i sistemi di coordinate si equivalgono. Da un lato abbiamo un principio che ci costringe ad assistere senza poter fare nulla alle torture inenarrabili di un bambino perché qualcuno ha deciso che la sua vita è sacra e che ricorda in modo tanto edificante le torture di Cristo; a calpestare le sentenze dei tribunali, la pietà di un padre e volontà espresse a chiare lettere, per il solo scopo di far sì che l’involucro fisico di quella che una volta era una persona possa continuare a svolgere le proprie funzioni biologiche. Dall’altro lato abbiamo invece un principio che avrà pure qualche conseguenza più o meno paradossale, ma che per definizione non costringe nessuno a qualcosa che non vorrebbe, e che riconosce – in accordo con una saggezza plurimillenaria – che la libertà è talmente cara che per essa si può a volte arrivare a sacrificare persino la propria vita. Anche solo esitare a scegliere fra questi due principi significherebbe – uhm, come dirlo? Oh, beh, al diavolo, d’accordo: significherebbe, uff, ciurlare nel manico (argghh!).

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciurlare meno, ciulare tutti!

ps: lo so che è una freddura di pessimo gusto... ma è natale, suvvia!

Michele Boselli ha detto...

brrr (per la freddura). AUGURONI stagionali :)

Paolo C ha detto...

mi pare che la logica sia stata da tempo abbandonata dai predicatori cattolici nostrani. Molto meglio mettere insieme parole a casaccio, eventualmente inventate o comunque mal definite, impastare il tutto con un po' di relativismo e di pendio scivoloso (magari anche con un po' di nazismo per chi ama il piccante) e le conclusioni arbitrarie sono servite.
Mi stupisco che qualcuno ancora si stupisca.