[...]
I significati delle parole sono mutevoli, a volte capricciosi. Qualche volta sono stravolti volontariamente per lasciare intatta solo la forma o per dissimulare la realtà. Tanto più il dominio è ampio, tanto più i fraintendimenti sono facili e, se ricercati, sono perversi. “Libertà”, ancora questa parola, offre un buon esempio. Basta pensare a come sia stata stravolta nel nome della coalizione al governo: il “Popolo delle Libertà”, ovvero “facciamo un po’ come cazzo ci pare” nella convincente interpretazione di Corrado Guzzanti e Neri Marcoré. Allora si chiamava “La casa delle libertà”, ma lo slogan funziona anche con il popolo.
Se poi dopo “libertà” aggiungiamo “di stampa” la situazione diventa ancora più bizzarra. La libertà di stampa nel Paese Italia. Uno strano animale, un ossimoro ben vestito, un’ombra leggera. Una libertà stritolata da una distribuzione delle carte truccata. C’è il banco, insomma, che la fa da padrone. Ma è tutto in regola, nessuno protesta (non è proprio vero, ma la protesta non è abbastanza forte e diffusa). Perché sono in molti a guadagnarci da quella mano truccata. E da quella successiva e da quella ancora dopo.
Su Giornalettismo. Noi ne avevamo già scritto qui.
venerdì 28 maggio 2010
Saluteremo il signor padrone
Postato da Chiara Lalli alle 15:30 1 commenti
Etichette: Antonio Cipriani, DNews, Gianni Cipriani, Giornalettismo, Libertà di stampa
lunedì 24 maggio 2010
Sì, è davvero vita artificiale
C’è un equivoco ampiamente diffuso nei commenti usciti in questi giorni sulla creazione della prima cellula artificiale. L’argomento che si usa è il seguente: il genoma inserito nella cellula di Mycoplasma capricolum è stato creato artificialmente, è vero; ma il resto della cellula – con le sue proteine, i suoi lipidi, etc. – no. Non si può ancora parlare, dunque, di vera vita artificiale. Scrive per esempio Luca Landò sull’Unità di ieri («Quella cellula benedetta dalla Chiesa», 23 maggio 2010, p. 17):
quel batterio è pur sempre un organismo naturale, anche se riveduto e corretto con l’inserimento di un Dna sintetizzato in laboratorio. II geniale e astuto Craig Venter non ha creato la vita, come hanno scritto in molti, ma riprogrammato un batterio gia esistente. Un po’ come mettere un nostro dischetto nel computer del vicino: quello che vediamo sullo schermo è solo merito nostro o anche del vicino che ha messo a disposizione la macchina?Ora, a cosa serve il Dna di un organismo? Sappiamo tutti che «controlla» la cellula, ma in che modo? La risposta è che il Dna dirige la sintesi proteica: funge in un certo senso da «stampo» per le proteine che compongono la cellula e la fanno funzionare. Cosa è successo allora al batterio cui Venter ha sostituito il genoma? In un tempo relativamente breve, le sue proteine originali, man mano che si usuravano, venivano sostituite da proteine nuove e diverse, costruite a partire dal Dna sintetico, e dunque, per quello che conta, sintetiche esse stesse. Alla fine della cellula di partenza non restava praticamente più nulla. Inoltre la cellula si riproduceva, dividendosi in cellule figlie, in cui le proteine della cellula originale erano sempre più diluite, fino a raggiungere concentrazioni omeopatiche. Quando Venter è andato a guardare, la piastra su cui si trovava l’originario M. capricolum conteneva una colonia di M. mycoides, nella versione modificata. Di nuovo: cellule sintetiche, non semplicemente naturali con un cuore sintetico.
Queste considerazioni si trovano anche nell’articolo originale apparso su Science (D.G. Gibson et al., «Creation of a Bacterial Cell Controlled by a Chemically Synthesized Genome», 20 maggio 2010; corsivo mio):
Chiamiamo una cellula come questa, controllata da un genoma assemblato a partire da frammenti di Dna sintetizzati chimicamente, una «cellula sintetica», anche se il citoplasma della cellula ricevente non è sintetico. Gli effetti fenotipici del citoplasma ricevente vengono diluiti col ricambio delle proteine e man mano che le cellule che recano solo il genoma trapiantato si riproducono. In seguito al trapianto e alla duplicazione su una piastra, fino a formare una colonia (> 30 divisioni, ovvero diluizione > 109 volte), la progenie non conterrà nessuna molecola proteica presente nella cellula ricevente originale. Ciò è stato dimostrato in precedenza, quando abbiamo descritto per la prima volta il trapianto di genoma. Le proprietà delle cellule controllate dal genoma assemblato sono le stesse di una cellula interamente prodotta in modo sintetico (il Dna è un software che costruisce il suo proprio hardware).Una questione differente è se si possa dire che queste cellule sintetiche siano state create a partire dalla materia inorganica. La risposta è ovviamente negativa: il genoma è stato cucito assieme usando dei lieviti, si è usata una cellula ricevente naturale, etc. Anche se questi passi venissero sostituiti eliminando gli organismi naturali, rimarrebbe sempre il fatto che l’intera procedura non può fare a meno dell’intervento di esseri viventi non artificiali: noi stessi.
Questa impresa inoltre, oltreché praticamente impossibile, sarebbe anche vacua: come scrive Venter, le cellule che ha ottenuto sono identiche a quelle che si otterrebbero con un sistema tutto artificiale; infatti l’eventuale citoplasma artificiale verrebbe in breve tempo completamente sostituito da quello sintetizzato a partire dal Dna. A che scopo allora perseguire una procedura assai più ardua di quella impiegata con successo? Per dimostrare che l’uomo è divenuto come Dio? Ma il compito della scienza non è quello di scandalizzare i creazionisti, per di più mutuandone – e quindi implicitamente convalidandone – le fantasie di una vita creata in un fiat a partire dall’inorganico. Ignoriamoli, e speriamo che anche loro ci ignorino il più a lungo possibile.
E io la pillola non te la do
Il 21 Aprile viene presentato un disegno di legge dal titolo: “Disposizioni in materia di obiezione di coscienza dei farmacisti nella dispensa dei farmaci rientranti nella contraccezione di emergenza”. Sebbene il testo non sia ancora disponibile nel sito del Senato al momento in cui scriviamo, alcuni giornali ne hanno riportato il contenuto, d’altra parte immaginabile fin dal titolo.
È quindi possibile fare alcune considerazioni al riguardo.
Prevedere per legge l’obiezione di coscienza per la cosiddetta pillola del giorno dopo comporta una serie di problemi.
Innanzitutto la questione generale di poter ammettere per legge una eccezione bizzarra.
Bizzarra perché oggetto di una normativa positiva e perché incrina i doveri che derivano da una libera scelta. Il caso più eclatante, e affine alla pillola del giorno dopo, è quello della legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza, articolo 9. Perché un ginecologo che esercita in una struttura pubblica (compiendo 3 gradini di scelta: iscriversi alla Facoltà di Medicina, poi alla scuola di specializzazione in Ostetricia e Ginecologia e, infine, esercitare la professione in una struttura pubblica) potrebbe sottrarsi ad uno dei suoi doveri sanciti da una legge dello Stato? La domanda richiederebbe una trattazione a parte e che rimandiamo ad altra sede. Qui affronteremo aspetti che sono problematici indipendentemente dalla risposta che si abbraccia alla suddetta domanda.
Prima di tutto l’obiezione non dovrebbe essere indiscriminata: dovrebbe cioè riguardare i farmacisti e non le farmacie, che dovrebbero avere comunque l’obbligo di garantire il servizio previsto dalla legge (regio decreto legge del 1937, n. 1219). Ci auguriamo che gli estensori del disegno di legge ci abbiano pensato. La 194, in effetti, prevede la medesima distinzione: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalita’ previste dagli articoli 5, 7 e 8” (gli articoli citati sono quelli che regolano le modalità della interruzione di gravidanza). Che poi di fatto le percentuali di obiettori di coscienza pongano in serio pericolo la garanzia del servizio (cioè della interruzione di gravidanza) è ancora un altro problema. Ma teoricamente la differenza è rilevante. E il Movimento Nazionale Liberi Farmacisti (MNLF) la sottolinea: «“Mentre al singolo professionista non puo’ essere negata la liberta’ di scelta rispetto alle proprie convinzioni etiche o religiose – precisano i liberi farmacisti – alla farmacia, in quanto gia’ detentrice di un’esclusiva e concessionaria di un rapporto privilegiato con lo Stato di monopolio, non deve essere permesso di esercitare l’obiezione di coscienza e quindi rifiutarsi di vendere farmaci come la pillola del giorno dopo o affini”. E aggiungono: “Ogni farmacia, nel caso venga riconosciuto tale diritto al professionista, dovra’ provvedere che nel proprio organico sia sempre a disposizione almeno un farmacista non obiettore in modo da non ledere un altro diritto: quello del paziente di ottenere il farmaco. In caso di obiezione di coscienza del titolare della farmacia o dell’impossibilita’ della farmacia di consegnare il farmaco per assenza di professionisti disponibili, dovra’ essere revocata la concessione dello Stato che permette a quella farmacia di operare sul territorio e la stessa rimessa a concorso’’.» (Aborto: liberi farmacisti, obiezione coscienza? Farmacie non possono, Asca, 1 maggio 2010).
Ma c’è un altro ostacolo: perché c’è bisogno di una legge specifica? La condanna della pillola del giorno dopo e i potenziali obiettori sarebbero comprensibili se giustificassero la posizione con la contrarietà all’aborto e, al tempo stesso, sostenessero che la pillola del giorno dopo è abortiva – e quindi rientrerebbe nella 194.
Nel foglietto illustrativo del Norlevo, nome con cui la pillola del giorno dopo è commercializzata, si legge (il corsivo è mio): “La contraccezione di emergenza è un metodo di emergenza che ha lo scopo di prevenire la gravidanza, in caso di rapporto sessuale non protetto, bloccando l’ovulazione o impedendo l’impianto dell’ovulo eventualmente fecondato, se il rapporto sessuale è avvenuto nelle ore o nei giorni che precedono l’ovulazione, cioè nel periodo di massima probabilità di fecondazione. Il metodo non è più efficace una volta iniziato l’impianto”.
Tuttavia le recenti ricerche hanno dimostrato la sola azione contraccettiva, e non abortiva, del farmaco. E le agenzie hanno consigliato di modificare i foglietti illustratici.
Perché qualcuno dovrebbe obiettare contro un farmaco contraccettivo? E, qualora si riuscisse a trovare una buona ragione per farlo, sarebbero inclusi anche i preservativi e altri contraccettivi? Ecco perché serve una nuova legge: per giustificare senza alcuna ragione (anche se sbagliata o forzata) la sottrazione al proprio dovere: vendere farmaci. Insomma nemmeno loro sembrano credere fino in fondo che si tratti di aborto, ma di un dominio diverso che richiede una legge ad hoc.
C’è ancora un altro problema: l’effetto causato dal Norlevo (o da un farmaco equivalente) fino a poco tempo fa veniva ottenuto con la somministrazione di 4 compresse di Ginoden (o di un farmaco equivalente) prese nel giro di poche ore.
Come si fa a sapere se qualcuno compra il Ginoden a scopo contraccettivo “tradizionale” (e quindi ancora concesso?) oppure a scopo illegittimo (come rimedio a un rapporto sessuale a rischio e, per l’accusa, a scopo abortivo)?
Il prossimo ddl prevederà il monitoraggio degli acquirenti per le successive 48 ore? O la scansione delle loro intenzioni?
Anche alcuni farmaci, prescritti per patologie specifiche, hanno un effetto sicuramente abortivo: come dovrebbero comportarsi i farmacisti? Il Cybotex è uno di questi: è un gastroprotettore, lo prendi se hai l’ulcera ma come effetto collaterale provoca contrazioni uterine e interruzione di gravidanza. Ultimamente sta andando di gran moda, verosimilmente anche a causa delle difficoltà indigene per abortire. Molte donne sono finite in ospedale con emorragie e complicazioni perché lo avevano usato per abortire: anche il moderno aborto clandestino non garantisce sicurezza insomma, anche se è meno appariscente di ferri e di mammane.
Insomma niente di nuovo sotto al sole. L’obiezione di coscienza per i farmacisti sembra proprio essere un altro corto circuito con cui buon senso e rispetto dei diritti hanno la peggio.
Postato da Chiara Lalli alle 09:20 0 commenti
Etichette: Aborto, Legge 194/1978, Obiezione di coscienza, Pillola del giorno dopo
sabato 22 maggio 2010
Meglio la certezza del divieto
Sì, certo, ha ragione Eugenia Roccella. Se vai all'estero chissà cosa può succedere, meglio restare il Italia così hai la certezza di non poter avere un figlio. Non fa una piega.
giovedì 20 maggio 2010
La vita firmata
La creazione del primo organismo sintetico, portata a termine da Craig Venter e dai suoi collaboratori e annunciata oggi sulla rivista Science, occuperà per giorni i mezzi di comunicazione (anche se appartiene a quel genere particolare di notizie che per qualche strano déjà vu ti sembra siano già state annunciate qualche mese prima). Non ci saranno risparmiati, temo, i soliti falsi problemi e i soliti timori (un esauriente catalogo sul comunque ottimo blog Practical Ethics). A chi sente il bisogno irrefrenabile di dirne qualcosa di pittoresco, suggerirei di lasciar perdere i luoghi comuni e di concentrarsi su un particolare che trovo sul migliore resoconto uscito fino a questo momento (Ewen Callaway, «Immaculate creation: birth of the first synthetic cell», New Scientist, 20 maggio 2010): il genoma del batterio artificiale contiene i nomi di chi lo ha creato, scritti in un codice segreto (assieme ad alcune «citazioni filosofiche»). Ecco un buon titolo per un articolo non troppo impegnato: «La vita firmata». Molto meglio del solito, scontatissimo, insensato «Non giochiamo a fare Dio».
Matrimonio omosessuale. Diritto, Morale, Politica
Politeia, Centro per la ricerca e la formazione in politica ed etica e l’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria” organizzano il convegno
Milano, 9 giugno 2010 − ore 15.00-18.30
Sala di Rappresentanza del Rettorato
Università degli Studi di Milano
Via Festa del Perdono, 7 - Milano
Registrazione Partecipanti
Ore 15.00
Apertura del Lavori
Presiede:
Patrizia Borsellino (Università degli Studi di Milano-Bicocca)
Ore 15.15
I Sessione:
Vittorio Angiolini (Università degli Studi di Milano)
Libertà di sviluppo della personalità in relazione al sesso
Barbara Pezzini (Università degli Studi di Bergamo)
Coppie same-sex e matrimonio: quale uguaglianza dopo la sent. 138/2010
Marilisa D’Amico (Università degli Studi di Milano)
Principi costituzionali e quadro europeo: una decisione ambigua
Ore 16.15
Discussione
Ore 16.45
II Sessione:
Paola Ronfani (Università degli Studi di Milano)
Famiglie e matrimoni dei nostri tempi
Chiara Lalli (Università degli Studi di Cassino)
I paradossi della sentenza 138/2010
Persio Tincani (Università degli Studi di Bergamo)
Difesa del matrimonio. Matrimonio omosessuale e principio del danno
Ore 17.45
Discussione
La partecipazione è libera fino ad esaurimento posti
Per informazioni: Politeia.
Tel.: 02 58313988; Fax: 02 58314072; e-mail: politeia@fildir.unimi.it.
lunedì 17 maggio 2010
Don’t let it drop
Art Director: Ettore Santucci
Copywriter: Jader Zani
Smk Videofactory 2010
Shooting and editing:
Andrea Paco Mariani
Angelica Gentilini
Water Aid.
Libertà di stampa?
Rispondetevi da soli dopo avere letto quanto ha scritto Silvia Garambois: Le mani sulla free press: Dnews licenzia i fratelli Cipriani.
Le mani sulla free press. Licenziati in tronco i direttori di “DNews”, quotidiano con redazioni a Roma, Milano, Bergamo e Verona. Eppure l'hanno fondato loro, Antonio e Gianni Cipriani.Qui invece la lettera che Antonio Cipriani e Gianni Cipriani scrivono alla redazione di DNews. Ne copio una parte qui sotto.
“Giusta causa”, secondo l'editore Mario Farina. Accusati, secondo i rumors, di non aver più firmato editoriali da troppo tempo... Sospettati, secondo altri, di aver troppe poche cautele nei confronti del potere costituito, Alemanno, Polverini, Moratti, Formigoni e, soprattutto, Berlusconi... L'ultimo numero con la loro firma, distribuito venerdì 14 maggio, titola in prima pagina nell'edizione di Roma: “La sanità ci costerà nuove tasse”. E, nell'edizione di Milano: “Prove di rivolta al Triboniano”. Come dire: una redazione a caccia di notizie e con in più un gruppo di editorialisti che non vuole mordacchie, da Ennio Remondino a Mario Morcellini, da Ritanna Armeni a Massimo Bordin. Mix evidentemente indigesto per chi più che alla libertà di stampa punta al marketing.
I Cipriani sono recidivi. Nel 2004 avevano inventato E-Polis, e tre anni dopo se ne erano andati con l'arrivo di Marcello Dell'Utri nella compagine societaria (e con loro lasciarono il giornale quaranta editorialisti). Nel 2008 hanno fondato Dnews, mezzo milione di copie. Gli unici due esempi italiani di quella che si chiama “free press di terza generazione”: distribuita gratuitamente e pagata dalla pubblicità, ma anziché puntare su notizie sincopate, per un pubblico che per leggere ha il tempo di poche fermate di metropolitana, si presenta come un giornale tradizionale, per una lettura più approfondita, riflessiva.
E' andata a finire che il pubblico ormai riconosceva E-polis del nuovo corso come giornale filo-governativo e Dnews decisamente libero e democratico. Adesso, probabilmente, si assomiglieranno di più: l'editore avrebbe già annunciato per la Dnews post-Cipriani una direzione moderata...
Perché il bavaglio non è solo alle tv.
P.S. Sono una dei 40 editorialisti che hanno lasciato E-polis insieme ai Cipriani. A DNews siamo assai meno, da quando l'editore ha imposto un drastico taglio di foliazione (e sacrifici alla redazione): e adesso ci risiamo... Solidarietà ad Antonio e Gianni, e a tutti i colleghi di DNews.
Ma noi siamo rimasti uniti, anche nelle difficoltà, anche quando si è aperta una crisi improvvisa e devastante, immediatamente dopo l'acquisto di Metro da parte di Nme, una società che successivamente è diventata tutta di Litosud. Come dire: due società, due giornali, uno stesso padrone e uno stesso sistema.PS
Siamo rimasti uniti e abbiamo passato l'estate a cercare soluzioni che garantissero il lavoro di tutti.
Ma torniamo a questi giorni. Sulle motivazioni del licenziamento non serve spendere neanche una parola: sono palesemente immotivate. Pretestuose, e servono solo a toglierci politicamente di torno in un momento caldo. In un momento in cui si apre una partita importante per tutti voi.
Parliamo invece di questa professione e ricordiamoci che la libertà di stampa e la democrazia dell'informazione dipendono giorno per giorno da ognuno di noi. E' difficile fare bene questa professione in una palude in cui prevalgono logiche discutibili, in cui la vicinanza con i potenti e una sorta di asservimento al sistema di potere, procura incarichi e denaro. E' difficile avere la testa alta e il coraggio del proprio sguardo quando sembrano prevalere i giornalisti d'acqua dolce.
Ma se una speranza c'è per questa professione, si cela in chi ha il coraggio delle proprie idee, di innovare e di faticare. In chi ha la voglia di essere testimone di ciò che accade e non "riportino" di ciò che serve che si sappia.
Se una speranza c'è ancora, va riposta sulle migliaia di colleghi e colleghe che giorno dopo giorno, in tutto il paese, in piccole o grandi realtà, sul web, sono testimoni della realtà. Non volti noti e televisivi, ma giornalisti bravissimi e sconosciuti alla maggioranza. Paladini di una informazione libera e democratica, come noi tutti con i nostri giornali, fatti con grandissimo senso di rispetto e professionalità proprio perché letti maggiormente dai giovani e giovanissimi. Da tutta quella fascia di persone che va informata seriamente e non indottrinata di sciocchezze.
Sono anche io una dei 40 editorialisti che ha lasciato E Polis e che ha scritto in questi anni per DNews. Che altro aggiungere? Un senso di schifo.
Postato da Chiara Lalli alle 09:06 0 commenti
Etichette: Antonio Cipriani, DNews, Gianni Cipriani, Libertà di stampa
sabato 15 maggio 2010
Una richiesta di Berlicche
Tutti possono imparare dai propri errori, dicono i saggi; ma dovrebbero aggiungere che si può imparare anche dagli errori degli altri. Certo, ci sono errori ed errori: dagli irrimediabilmente stupidi, dai pazzi, dai mentitori prezzolati ben poco possiamo apprendere. Ma capita talvolta che intelligenze di livello discreto si pongano con una certa sincerità al servizio di cause false (in genere per opzioni ideologiche e/o bisogni psicologici irrinunciabili), e che producano quindi una massa di argomenti in ultima analisi fallaci, ma non platealmente tali, che può risultare produttivo – oltre che piuttosto divertente – analizzare e confutare.
Prendiamo per esempio Berlicche, forse il più noto dei blog integralisti italiani: non c’è quasi post dei suoi che non sia sbagliato e fallace; ma si tratta in genere di errori intricati e non del tutto banali, dai quali – come abbiamo avuto modo di vedere in passato – c’è spesso qualcosa di interessante da apprendere.
Vorrei prendere oggi in esame uno dei suoi ultimi post («Una piccola richiesta», 13 maggio 2010, su cui si è già esercitato proficuamente Malvino). Berlicche non ama molto essere oggetto di un’attenzione critica, ma siccome il post contiene una piccola sfida agli «amici laicisti», possiamo procedere senza troppi timori di apparire scortesi. Si parla della Sindone, che Berlicche ha devotamente visitato in occasione dell’ostensione in corso:
se [la Sindone] fosse stata realizzata da qualche ignoto protoscienziato del milletrè allora quello che vorrei veramente è il brevetto.Qui la densità degli errori è inusuale anche per gli standard di Berlicche; sono sicuro che i lettori di Bioetica ne avranno scorto all’istante più d’uno. Ma andiamo per ordine.
Già, perchè sai che figata? Una procedura per imprimere un’immagine su un telo. Che non usa pigmenti. Con una nitidezza di particolari impressionante. E con informazioni tridimensionali! Ci pensate alla applicazioni di questa tecnica? Sai le T-shirt, le lenzuola? Se è stata fatta settecento anni fa probabilmente è stata anche usata una tecnologia primitiva, facilmente riproducibile con gli immensi mezzi odierni. Sì, so che parecchi ci hanno tentato, ma i risultati sono molto lontani dall’originale. Chissà quante prove, quanti esperimenti deve avere fatto quel lontano scienziato per ottenere un simile risultato. Davvero strano che solo la Sindone sia rimasta.
Per prima cosa, l’autore sembra ignorare che le caratteristiche inusuali dell’immagine da lui messe in evidenza – «una procedura per imprimere un’immagine su un telo che non usa pigmenti», «con una nitidezza di particolari impressionante», «con informazioni tridimensionali» – sono state in realtà emulate nella riproduzione della Sindone recentemente eseguita da Luigi Garlaschelli. Questi ha strofinato il telo steso su un bassorilievo con ocra (la tecnica usata è simile al ricalco), che in seguito è stata rimossa, lasciando però un’immagine che risulta dall’ossidazione superficiale delle fibre di lino del telo poste a contatto con il colorante, e che appare quindi impressa senza apparente uso di pigmenti (anche se poi di fatto alcuni sostengono che sulla Sindone le tracce di ocra sono ancora presenti). I particolari appaiono non meno nitidi che nella Sindone, e l’immagine contiene anche informazioni tridimensionali.
Per la verità, qualcuno ha messo in questione la tridimensionalità dell’immagine di Garlaschelli. Scrive Thibault Heimburger («Comments About the Recent Experiment of Professor Luigi Garlaschelli» [PDF], novembre 2009, p. 3):
It is not a true 3D: it is almost only made of “flat plateau” (contact) and “valleys” (no contact) with abrupt “vertical cliffs” between them. To the contrary, the Shroud has true 3D properties, i.e. fine variations of the “altitude”.Ai miei occhi – inesperti, lo ammetto – non c’è praticamente differenza fra la prima immagine 3D ricavata col computer dalla Sindone e quella ottenuta da Garlaschelli. Lo stesso Heimburger sembra preferire come termine di paragone un’immagine 3D della Sindone più recente, ottenuta con un affinamento della tecnica digitale di elaborazione, e in effetti un po’ più impressionante; ma questo vuol dire che il risultato dipende in misura determinante dal software usato (nonché dai settaggi impiegati e dalla qualità dell’immagine di partenza, come nota Garlaschelli in un articolo per MicroMega, n. 4, 2010, p. 45), e che quindi è bene essere molto prudenti nel fare paragoni. In ogni caso non vedo assolutamente nella riproduzione tutti gli «scoscendimenti verticali» di cui parla Heimburger (possibile che si riferisca a una diversa immagine?): mi sembra che l’informazione 3D sia presente qui come nella Sindone.
Si può obiettare che esistono comunque altre differenze, in particolare nella qualità delle sfumature dell’immagine, come nota sempre Heimburger e ammette lo stesso Garlaschelli; ma al di là dei dettagli tecnici il problema è di fondo. Come nota un commentatore al post di Berlicche, i sostenitori dell’autenticità ricorrono al classico argumentum ad ignorantiam: poiché un’ipotesi – di per sé ben corroborata da prove – presenta aspetti non del tutto chiari, allora deve essere considerata vera l’ipotesi opposta. C’è qualche aspetto delle immagini scattate dagli astronauti sulla Luna che non sappiamo bene spiegare su due piedi; quindi le missioni Apollo sono state una montatura. C’è qualche particolare oscuro nel crollo delle Torri Gemelle; quindi gli aerei che le hanno colpite erano giganteschi ologrammi e le Torri sono state minate dalla Cia. C’è qualche dettaglio nella formazione dell’immagine sindonica per opera di un falsario del ’300 che non siamo ancora in grado di riprodurre; quindi il telo è stato impresso dalla misteriosa energia della resurrezione 2000 anni fa.
Qui interviene anche un’altra fallacia (per la quale purtroppo non esiste un espressivo nome latino). Scrive Berlicche: «Se è stata fatta settecento anni fa probabilmente è stata anche usata una tecnologia primitiva, facilmente riproducibile con gli immensi mezzi odierni». Possiamo forse definire questo come razzismo cronologico (non si offenda Berlicche: prima o poi ci cadiamo tutti, più o meno): la credenza che gli antichi fossero meno intelligenti di noi, perché in possesso di tecniche meno avanzate; se quindi c’è nel mondo pre-moderno qualcosa che non capiamo, vuol dire che probabilmente gli antichi non ne sono stati gli autori. Un caso esemplare è quello delle piramidi di Giza; siccome ancor oggi non siamo sicuri del modo in cui siano state erette (ci sono problemi a raffigurarsi la disposizione delle rampe per il trasporto dei blocchi), alcuni hanno rifiutato l’idea che i «primitivi» Egizi, con la loro tecnica inferiore, le avessero edificate, preferendo attribuirle agli alieni o a scomparse, avanzatissime civiltà terrestri (Atlantide), gli uni e le altre, per molti versi, più somiglianti a noi di quei barbari sempliciotti.
Ma in realtà quei popoli e quelle persone erano intelligenti quanto noi, ed erano capaci di elaborare tecniche e procedure complesse e sorprendenti che eludono le nostre ricerche. In ogni caso, può essere difficile individuare anche una tecnica semplice, tra le innumerevoli tecniche possibili: la procedura del ricalco è stranota, è semplice benché ingegnosa, spiega la maggior parte delle caratteristiche della Sindone (e forse tutte), eppure solo nel 1983 è stato ipotizzato per la prima volta che il falsario l’avesse usata.
Come si vede, il paragone con le pseudoscienze ritorna di continuo. In effetti, la sindonologia deve essere considerata ormai anch’essa una pseudoscienza, almeno da quando, nel 1988, l’esame al radiocarbonio ha definitivamente confutato ogni ipotesi di autenticità, oltretutto fornendo una datazione compatibile con le prime testimonianze storiche, le stesse che parlavano di pannus artificialiter depictus. La reazione dei sindonologi, infatti, è stata quella tipica degli pseudoscienziati: per spiegare i risultati del C-14 si sono affannati a fabbricare ipotesi ad hoc, tutte tese a sospingere verso l’inconfutabilità la tesi dell’autenticità. Ecco allora che il carbonio 14 in eccesso è dovuto a un misterioso bombardamento neutronico connesso alla resurrezione; il campione tagliato dalla Sindone proveniva in realtà da un rammendo posteriore invisibile; gli scienziati (di tre centri diversi) che hanno eseguito il test facevano parte di un vasto complotto teso a distruggere la Chiesa; e così via. Lo schema è identico: i miracoli non sono per definizione empiricamente verificabili, i rammendi invisibili non si possono individuare, i complotti sono talmente ramificati da cancellare ogni loro traccia. (A questo, purtroppo, si aggiunge spesso anche una informazione truffaldina o più banalmente ignorante, che l’incessante ripetizione – «l’esame al radiocarbonio è stato ormai confutato!» – riesce a inculcare nelle menti dei più semplici.)
Una fede ormai lontana dall’ingenuo culto delle reliquie paga il suo omaggio alla cultura dominante, quella scientifica; ma l’omaggio è solo verbale, perché la «scienza» sindonologica è solo una scimmiottatura dei veri procedimenti scientifici: ne prende in prestito il tintinnio delle provette mentre ne rigetta il metodo.
C’è un’altra fallacia, nel post di Berlicche, che è particolarmente sottile e interessante: «Chissà quante prove, quanti esperimenti deve avere fatto quel lontano scienziato per ottenere un simile risultato. Davvero strano che solo la Sindone sia rimasta». Lasciamo da parte l’argomento capzioso sulla Sindone sola sopravvissuta (perché mai l’ignoto artigiano avrebbe dovuto conservare le prove fallite?), e concentriamoci sul nucleo del ragionamento. Ci aiuta il fatto che il già citato Thibault Heimburger lo ripeta a sua volta più articolatamente, e senza il sarcasmo berlicchiano:
What is the probability for a medieval forger, who obviously could not have in mind these properties, to produce by chance an image having these properties? Probably about 0%.Tradotto:
Quali sono le probabilità che un falsario medievale, che ovviamente non poteva avere in mente queste proprietà [la tridimensionalità etc.], abbia prodotto per caso un’immagine dotata di esse? Probabilmente circa lo 0%.Dov’è l’errore? Ricorriamo a un paragone: immaginiamo di lanciare un dado, e di registrare via via i risultati, fino a ottenere una stringa lunga, diciamo, 10 cifre: 1,3,3,4,2,1,6,1,6,3. Quali sono le probabilità di ottenere una simile sequenza di cifre? Esattamente 1/610, cioè meno di una su 60 milioni. A questo punto Berlicche e Heimburger, se fossero coerenti, dovrebbero proclamare che c’è qualcosa di strano in questa serie di lanci: la probabilità di ottenerla è così bassa che qualche fattore causale deve essere stato all’opera!
Naturalmente nessuno dei due sarebbe così sciocco da sostenere una cosa del genere: l’esperimento sarebbe sospetto solo se avessimo, per esempio, detto in anticipo che stavamo per ottenere proprio quella serie e non un’altra. Nella realtà, tutte le sequenze di dieci lanci di dado sono egualmente improbabili, ma dobbiamo comunque ottenerne una (a meno che il dado non si rompa o la polizia non faccia irruzione nella bisca in cui ci troviamo).
L’esempio non è perfettamente congruente con il caso della Sindone, ma aiuta a capire dov’è l’errore. L’artigiano che ha falsificato la Sindone non sapeva ovviamente nulla di tridimensionalità, immagini negative o ossidazione del lino; tutto quello che si prefiggeva era di produrre un falso plausibile. Il resto sono effetti accidentali della tecnica usata; se ne avesse impiegata un’altra avremmo notato oggi una diversa costellazione di effetti, non più probabili o improbabili di quelli che la Sindone presenta efettivamente. Da dove nasce allora l’errore di Berlicche & Co.? Probabilmente dalla retorica miracolistica che circonda il telo, le cui caratteristiche sono sempre descritte come eccezionali e misteriose. Ma queste caratteristiche non sono eccezionali; sono solo inusuali, perché inusuale è la tecnica con cui la Sindone è stata fabbricata, in un universo artistico composto di dipinti e sculture e non di immagini ricalcate su bassorilievi.
Molto altro ci sarebbe da scrivere sulla Sindone e i sindonologi: sull’incredibile frode dei pollini «palestinesi» trovati sul telo da un signore che qualche anno prima aveva firmato una perizia grazie alla quale un innocente era rimasto in galera per 12 anni, e che qualche anno dopo avrebbe autenticato i falsi diari di Hitler; sullo stile della tessitura, il cui unico analogo noto si trova in un telo del XIV secolo; e così via. La fonte più aggiornata e autorevole su tutto ciò è il già citato numero di MicroMega; una valida alternativa, almeno per chi conosce l’inglese, è l’articolo di Steven D. Schafersman, «Unraveling the Shroud of Turin» (Approfondimento Sindone 2, 1998). Ottimo anche il sito curato da Gian Marco Rinaldi.
Purtroppo a quanto pare Berlicche non profitterà di queste risorse, visto che parla di «tizi pagati per ingannare i deboli di mente su MicroMega». Noi abbiamo imparato qualcosa da lui, lui non vuole imparare assolutamente nulla da noi.
Verso il traguardo (ma sarebbe meglio darsela a gambe)
venerdì 14 maggio 2010
La terapia riparativa? Un inganno
“La verità è che non si è omosessuali, ma eterosessuali latenti. Far uscire la nostra vera identità maschile è possibile: noi ci siamo riusciti e siamo qui per tenderti una mano!”.
Questa e altre chicche si possono leggere sul sito che presenta l’imminente convegno di Joseph Nicolosi a Brescia il 21 e 22 maggio.
Nicolosi è uno dei padri della terapia riparativa, ovvero quella che ripara dalla omosessualità. Meglio sarebbe chiamarla ideologia riparativa, perché è difficile definire terapia qualcosa che ha la presunzione di “curare” ciò che non è intrinsecamente una malattia - proprio come sarebbe incongruo riparare ciò che non è rotto. Gli orientamenti e le preferenze sessuali costituiscono un dominio fluido ed eterogeneo e l’eterosessualità non è il golden standard cui ispirarsi o, peggio, l’unico modo sano e giusto di amare e fare l’amore.
L’ideologia riparativa è un inganno crudele e pericoloso, in cui purtroppo si può inciampare per varie ragioni: informazioni sbagliate, paura, pregiudizi (è ancora molto diffusa l’idea che l’omosessualità sia una patologia o una perversione, un difetto nello sviluppo sessuale e affettivo). Ragioni che portano a formulare una domanda di aiuto che riceve la risposta più sbagliata.
Meglio quindi conoscere i riparatori e lasciarli alle loro farneticazioni. Tra i rappresentati italiani presenti al convegno ci sono Chiara Atzori, Roberto Marchesini e Giancarlo Ricci.
Dnews, 14 maggio 2010.
Postato da Chiara Lalli alle 08:36 10 commenti
Etichette: Chiara Atzori, Chiara Lalli, Diritti individuali, Discriminazione, DNews, Giancarlo Ricci, Joseph Nicolosi, Omofobia, Omosessualità, Roberto Marchesini, Terapia riparativa
mercoledì 12 maggio 2010
Evoluzione autodiretta e futuro dell’Uomo
Si annuncia interessante fin dal titolo, «Evoluzione autodiretta e futuro dell’Uomo», il convegno organizzato da Giancarlo Stile, in collaborazione con il Network H+, che si terrà l’11 giugno 2010 a Caserta presso la Facoltà di Studi Politici e per l’alta formazione europea e mediterranea Jean Monnet della Seconda Università degli Studi di Napoli. È la prima volta in Italia, a quanto ne so, o comunque sicuramente una delle primissime, che le tematiche proprie di quel movimento finora un po’ di nicchia noto come Transumanismo approdano in un contesto accademico. I nomi dei relatori – Aldo Schiavone, Edoardo Boncinelli, Lorenzo d’Avack, Angelo Maria Petroni – aggiungono importanza all’evento.
La partecipazione è gratuita. È disponibile il programma ufficiale [PDF e JPEG], che riporto anche qui sotto, ed è stata allestita una pagina apposita su Facebook.
Dove:
Aula Magna
Sito Reale del Belvedere di San Leucio
Via del Setificio, 7
81100 Caserta
Quando:
11 giugno 2010, ore 10:30
Programma:
Ore 10:30 – Saluti istituzionali
Gianmaria Piccinelli, Preside Facoltà di Studi Politici “Jean Monnet”, Seconda Università degli Studi di Napoli
Gianni Delrio, Preside Facoltà di Medicina, Seconda Università degli Studi di Napoli
Ore 10:45 – Aldo Schiavone, Ordinario di Diritto Romano, Direttore Istituto Italiano di Scienze Umane
“La natura, la tecnica, la storia”
Ore 11:30 – Edoardo Boncinelli, Ordinario di Biologia e Genetica, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
“Evoluzione biologica ed evoluzione culturale”
Ore 12:15 – Lorenzo d’Avack, Ordinario di Filosofia del Diritto, Università degli Studi Roma Tre; Vice presidente Comitato Nazionale per la Bioetica
“Il potere della scienza versus i diritti dell’Uomo”
Ore 13:00 – Pausa lavori
Ore 14:30 – Angelo Maria Petroni, Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”; Segretario generale Aspen Institute Italia
“Liberalismo, progresso biomedico e potenziamento umano”
Ore 15:15 – Tavola rotonda/dibattito tra i relatori
Modera: Giuseppe Limone, Ordinario di Filosofia del Diritto e della Politica, Seconda Università degli Studi di Napoli
Ore 16:15 – Chiusura lavori
Altre informazioni:
tel +39.0823.363501
fax +39.0823.362692
info.studipolitici@unina2.it
martedì 11 maggio 2010
Io sono, io scorro
12-13 Maggio 2010, Io sono, Io scorro. Identità trans, lesbica e gay in Italia, Facoltà di Psicologia, Università “Sapienza” Roma, Aula Magna, via dei Marsi 78.
Il blog del convegno con tutte le informazioni.
Postato da Chiara Lalli alle 10:16 2 commenti
Etichette: Chiara Lalli, Diritti civili, Diritto di famiglia, Famiglia, Famiglie Arcobaleno, Omogenitorialità, Omosessualità, Transgender
domenica 9 maggio 2010
Su darwin Slow Food e RU-486
È da pochi giorni in edicola il n. 37 (maggio-giugno 2010) di Darwin, in cui a p. 72 potete trovare una mia recensione del libro di Luca Simonetti, Mangi chi può. L’ideologia di Slow Food (Pagliai, 2010, pp. 119, Euro 8). Questo è l’incipit:
«Il fatto che un movimento come Slow Food – ideologicamente antiprogressista, antiscientifico, idolatra delle società tradizionali, delle piccole comunità stratificate e perenni, dedite a riti e festività atavici, in cui il posto di ognuno è eternamente fisso […] – possa essere oggi considerato, in Italia, di sinistra, è cosa che ci sembra debba generare più di qualche preoccupazione in chiunque abbia a cuore le sorti del nostro paese». È questa preoccupazione che ha spinto Luca Simonetti, avvocato esperto di diritto commerciale, a dedicare la sua prima, brillante «sortita fuori dalle materie giuridiche» all’associazione fondata da Carlo Petrini nel 1986, che oggi conta circa 100.000 iscritti e sedi in sette paesi diversi.(Il libro è la versione aggiornata e ampliata di un articolo che avevo segnalato qualche tempo fa.)
Di interesse per i lettori di Bioetica anche il pezzo di Anna Meldolesi, «Le pillole della politica» (pp. 68-69), sulla pillola abortiva RU-486:
La pillola abortiva Ru486 (mifepristone) ha iniziato a essere somministrata per via ordinaria anche in Italia. Ventidue anni dopo l’approvazione in Francia. Dieci anni dopo il via libera negli Stati Uniti. Ma il divario con gli altri paesi occidentali è tutt’altro che colmato. Quello che sta accadendo, infatti, è che una volta conclusa la battaglia sul divieto, il fronte si è spostato sul terreno dei protocolli, che rischiano di essere piegati all’obiettivo politico di complicare la vita alle donne in cerca di un’alternativa all’aborto chirurgico.
Che la politica si spinga fin dentro questioni tecniche come le modalità di somministrazione di un farmaco è una degenerazione tutta italiana, resa possibile dalla politicizzazione dei nostri organismi tecnico-scientifici. Solo così si spiega che il Consiglio superiore di sanità possa raccomandare il ricovero in ospedale fino all’espulsione del prodotto del concepimento, a differenza di quanto accade negli altri paesi, e nonostante la sperimentazione del farmaco sia già avvenuta in regime di day hospital senza problemi di sicurezza anche in qualche ospedale italiano. […]
Postato da Giuseppe Regalzi alle 12:27 2 commenti
Etichette: Alimentazione, Anna Meldolesi, Carlo Petrini, Luca Simonetti, Slow Food
sabato 8 maggio 2010
Moderna schiavitù: Come un uomo sulla terra
Postato da Chiara Lalli alle 19:42 0 commenti
Etichette: Come un uomo sulla terra, Diritti civili, Immigrazione
Not 2 late
Non mi sembra di avere trovato nulla di simile in italiano. Se proprio non si ha spirito di iniziativa si può anche copiare (facendo attenzione a cambiare qualche dettaglio).
The Emergency Contraception Website.
Postato da Chiara Lalli alle 10:47 0 commenti
Etichette: Contraccezione, Contraccezone d'emergenza, Pillola del giorno dopo, Plan B
giovedì 6 maggio 2010
Il farmacista non si accontenta
Da Avvenire di oggi («I farmacisti cattolici: sull’obiezione disegno di legge ancora incompleto», 6 maggio 2010, inserto È Vita, p. 3):
«Incompleto e da ridiscutere»: è questo il parere del presidente dei farmacisti cattolici (Ucfi), Piero Uroda, sul disegno di legge della senatrice del Pdl Ada Spadoni Urbani che tratta del diritto all’obiezione di coscienza dei farmacisti come «un diritto soggettivo». […] «È molto importante invece che sia riconosciuta alla farmacia la possibilità di non vendere contraccettivi d’emergenza e non solo al singolo farmacista – interviene il dottor Uroda –. Chi assicura la vendita di un prodotto abortivo se sono tutti obiettori? Economicamente non è possibile assicurarsi la presenza in negozio di un non obiettore ed eticamente perché dovrei lavorare con un collega che non condivide il rispetto della vita?». Piero Uroda ne è certo: «Il nostro diritto di non vendere farmaci che uccidono è superiore a quello di chi richiede il prodotto. Attenzione infatti, non si tratta di medicinali che curano, ma di prodotti che fanno fuori una vita umana ai suoi esordi e che danneggiano gravemente la salute delle donne». «Per un cattolico – sostiene Uroda – è una bugia che i contraccettivi d’emergenza non fanno nulla, visto che siamo convinti che quando due gameti si incontrano si forma una nuova persona».Già, chi «assicura la vendita di un prodotto abortivo se sono tutti obiettori?» Il punto è proprio questo (anche se la contraccezione d’emergenza non ha per nulla effetti abortivi), e il dottor Uroda senza volerlo si è condannato da solo.
Postato da Giuseppe Regalzi alle 17:00 18 commenti
Etichette: Obiezione di coscienza, Pillola del giorno dopo
Il Comitato e il Samaritano
È finalmente disponibile sul sito del Governo Italiano il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) su «La donazione da vivo del rene a persone sconosciute (c.d. donazione samaritana)», datato 23 aprile 2010.
Il parere – ma questo già si sapeva – ribalta quello precedente dello stesso CNB, «Il problema bioetico del trapianto di rene da vivente non consanguineo» (17 ottobre 1997), in cui si raccomandava di modificare la legge 458/1967 là dove consente la donazione da parte di donatori viventi estranei al ricevente. Per l’attuale CNB questo tipo di donazione è invece eticamente legittimo; naturalmente dal punto di vista giuridico non cambia nulla, visto che il Comitato ha un potere puramente consultivo, e non potrebbe cambiare né in un senso né nell’altro le disposizioni di legge.
Le anticipazioni della stampa avevano fatto pensare a un impianto più restrittivo di quello poi effettivamente presente nel parere. È vero che qualche spia linguistica tradisce un certo disagio, come quando la donazione di organi da parte di estranei viene definita un «problema», apparentemente solo per il fatto che non implica «nessuna forma di ‘ritorno’ o ‘compenso’ (anche indiretto)» per il donatore (§. 1); anche l’errore nella denominazione del file pdf che contiene il parere, domazione_rene.pdf, mi era sembrato di cattivo auspicio. Invece il CNB non ha insistito particolarmente in clausole vessatorie; in particolare, al di là di qualche espressione puramente declamatoria, non sembra auspicare accertamenti inquisitori che convalidino l’ultraterrena santità delle motivazioni dei donatori.
Qualche punto criticabile è comunque presente. Viene raccomandato, ad esempio (§. 5.3), che le due persone coinvolte nel trapianto (donatore e ricevente) non abbiano rapporti reciproci non solo prima dell’operazione (per evitare forme occulte di commercializzazione), ma neanche dopo, a quanto si capisce per evitare il problema, «frequente nel prelievo da vivente, di alcune comparazioni tra donatore e ricevente, che possono suscitare in ciascuno di loro degli atteggiamenti psicologici negativi». Non è chiaro però di cosa si parli, e se il problema riguardi anche o solo l’anonimato prima dell’operazione. Sarebbe stato bene fornire in merito qualche documentazione; rimane comunque il fatto che si tratta di una proibizione chiaramente paternalistica, che oltretutto pregiudica valori morali importanti, come l’espressione della propria gratudine da parte del ricevente. Il documento aggiunge che «l’anonimato consentirebbe inoltre di evitare che tali casi divengano oggetto di ‘strumentalizzazione’ mediatica, privandoli della loro autenticità»; se è apprezzabile l’intento di risparmiarci la visione di incontri strappalacrime sapientemente sceneggiati in qualche trasmissione televisiva pomeridiana, non si vede tuttavia in che modo sia evitabile che donatore o ricevente proclamino pubblicamente di aver donato o ricevuto un rene a/da un estraneo.
Più condivisibile l’intento, espresso più avanti (§. 5.5), di contrastare il desiderio, da parte del donatore, di un possibile futuro coinvolgimento economico con il ricevente. Questo però è un pericolo piuttosto improbabile, dato che il donatore ignora a priori le condizioni economiche del ricevente, la sua volontà di fare la reciproca conoscenza (qui forse potrebbe essere utile mantenere l’anonimato successivo al trapianto come condizione di default) e la sua disponibilità a fornire un contributo economico cui non è tenuto.
Si agita poi qualche spauracchio, come il cosiddetto «diritto di donare» (di cui mi sono occupato in precedenza), per rimarcare – come se ce ne fosse bisogno – «la necessità di chiarire al soggetto che si offre di donare che tale disponibilità costituisce una sua facoltà, ma non fa sorgere alcuna pretesa o diritto (il c.d. diritto di donare), essendo subordinata alla eventuale disponibilità di prelievo da cadavere e da parente e alla necessaria valutazione medica delle condizioni cliniche dello stesso donatore» (la subordinazione al prelievo da cadavere e da parente è già nella legge 1967 e non costituitsce un’innovazione del CNB).
Nelle conclusioni viene talvolta rimarcato l’ovvio, come per esempio che «l’atto supererogatorio [cioè la donazione] non può essere preteso né sul piano morale, né tanto meno su quello giuridico», o il fatto che «tale procedura non implica rischi maggiori, dal punto di vista medico, per il donatore samaritano di quelli che sono presenti nell’ambito di qualsiasi genere di prelievo di rene ex vivo».
Il parere risulta approvato a larga maggioranza; gli unici contrari sono stati Roberto Colombo, Francesco D’Agostino, Maria Luisa Di Pietro e Lucetta Scaraffia (da segnalare, con una certa sorpresa, il voto favorevole di Assuntina Morresi, nonostante le posizioni espresse a suo tempo sulla stampa). Come d’abitudine, i contrari hanno aggiunto delle postille in cui rendono esplicite le motivazioni del loro dissenso: lambiccate e non facilmente comprensibili quelle di Colombo; contraddittorie e dalla logica torturata quelle di D’Agostino (a cui aderisce la Scaraffia), di cui voglio citare almeno un passo:
Il carattere obiettivamente estremo di questa donazione indurrebbe a pensare che solo pochissime persone, dotate di un senso morale assolutamente eroico, potrebbero dichiararsi disposte a tanto; ma il diritto non è in grado di regolamentare e garantire pratiche così nobili (perché di questo si tratta e questo la legge pretende di fare), pratiche che lo proietterebbero in un’atmosfera così straordinariamente rarefatta, da apparire più pensabile che esperibile (quando mai, ragionevolmente, ci capiterà di conoscere un donatore samaritano?). Non si tratta evidentemente di negare che queste possibilità estreme possano darsi. Mi limito solamente ad osservare che compito del diritto non è quello di gestire situazioni estreme, ma situazioni ordinarie, ripetibili e standardizzabili.Questo è l’ennesimo esempio dell’espediente dialettico preferito da D’Agostino: trasformare una possibilità concreta in possibilità estrema, per poterla negare. Da notare anche il passaggio logico a vuoto, che dall’impossibilità del diritto a gestire certe situazioni pretende di dedurre la legittimità del diritto di negarle.
Maria Luisa Di Pietro, infine, esprime gli stessi argomenti presentati nel comunicato stampa del 23 aprile scorso, emesso dal Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica diretto da Adriano Pessina, e che abbiamo già esaminati in precedenza.
Postato da Giuseppe Regalzi alle 10:48 4 commenti
Etichette: Comitato Nazionale per la Bioetica, Francesco D’Agostino, Trapianti da vivente
mercoledì 5 maggio 2010
Due paradossi per una sentenza /2
Dopo aver esaminato nel primo post di questa serie le contraddizioni relative alle unioni civili della sentenza 138/2010, con cui la Corte Costituzionale ha rifiutato di dichiarare incostituzionali le norme che limitano il matrimonio ai soli eterosessuali, passiamo adesso al secondo paradosso contenuto nella 138.
Pierre Menard, autore della Costituzione
Dopo aver stabilito che le unioni fra persone omosessuali costituiscono una delle formazioni sociali di cui parla l’art. 2 della Costituzione, la Corte è passata a spiegare perché a suo giudizio il Codice Civile non viola l’art. 29 della Costituzione (§. 9):
La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.Un aspetto importante di questa parte della sentenza riguarda la sua incidenza su una possibile futura legge che estendesse il matrimonio alle coppie di persone dello stesso sesso. Com’è noto, la Corte si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme che limitano l’istituto matrimoniale agli eterosessuali, e non quindi direttamente sulla costituzionalità del matrimonio omosessuale; ma nel momento in cui afferma che i Padri Costituenti hanno inteso limitare il matrimonio alle coppie formate da un uomo e da una donna, è difficile vedere in che modo potrebbe in avvenire ammettere la costituzionalità del matrimonio omosessuale, qualora fosse chiamata a pronunciarsi in proposito.
Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).
Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.
Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.
Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.
Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.
In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.
La pensa così Andrea Pugiotto, che dichiara all’Unità (Delia Vaccarello, «“Così la Consulta conferma l’ipocrisia”», 19 aprile, p. 37):
Dato il suo «nucleo», una legge che introducesse le nozze omosessuali sarebbe incostituzionale. In Italia non si potrebbe fare ciò che è stato possibile, ad esempio, in Spagna e in Portogallo e che né la Convenzione europea dei diritti Umani (Cedu) né la Carta di Nizza vietano.L’avvocato Luigi D’Angelo ribadisce il concetto – non senza, par di capire, una certa soddisfazione – in un contributo per il Forum di Quaderni Costituzionali («La Consulta al legislatore: questo matrimonio “nun s’ha da fare”», 16 aprile 2010):
sembrerebbe potersi affermare alla luce della decisione de qua, in particolare, che mentre il legislatore non incontrerebbe limiti nel disciplinare detta unione come destinataria di un espresso riconoscimento giuridico (coppia di fatto, stabile convivenza, ecc.), lo stesso rimarrebbe tuttavia impossibilitato nel sancire l’ammissibilità del matrimonio tra omosessuali, pena l’incostituzionalità della relativa disciplina. […]Nella stessa sede, ma più sinteticamente, Marco Croce nota che «la lettura che è stata data dell’art. 29 C. esclude la possibilità di estensione dell’istituto matrimoniale» («Diritti fondamentali programmatici, limiti all’interpretazione evolutiva e finalità procreativa del matrimonio: dalla Corte un deciso stop al matrimonio omosessuale», 23 aprile 2010).
Se dunque è lo stesso dato costituzionale ad imporre una simile conclusione ovvero quella della diversità di sesso tra i coniugi – non potendo peraltro “il precetto costituzionale … essere superato per via ermeneutica” –, non si vede come un intervento del legislatore possa mutare “orientamento” al proposito.
Alle medesime conclusioni dovrebbe vieppiù pervenirsi se si dovesse ritenere che l’art. 29, comma 2, Cost. costituisce norma attuativa dell’art. 3 Cost. – nella parte in cui vieta discriminazioni basate sul sesso o di genere – come sembra peraltro potersi desumere altresì dalle parole della Consulta che inquadra proprio nell’ambito di un rapporto di genere il principio di parità di trattamento ex art. 29, comma 2.
L’unico ottimista, ancora una volta, è Luca Simonetti («Che cosa ha VERAMENTE detto la sentenza n. 138/2010 della Corte Costituzionale?», Karl Kraus, 22 aprile):
Notate quindi che la Corte NON sta dicendo […] che un eventuale matrimonio omosessuale sarebbe incostituzionale (ammesso e non concesso che un’affermazione ipotetica del genere potesse avere un valore giuridico qualunque)(All’inciso di Simonetti si può rispondere dicendo che il punto non è il valore giuridico attuale della sentenza, ma il principio affermato, che domani – a giurisprudenza immutata, si intende – potrebbe verosimilmente essere applicato di nuovo.)
Anche ammesso che la sentenza abbia queste conseguenze negative su ogni progetto futuro di estensione del matrimonio agli omosessuali, si potrebbe comunque osservare che al momento parlare di norme tanto avanzate è del tutto utopistico nel nostro paese. Ma, al di là degli effetti giuridici più o meno futuribili, il pronunciamento dei giudici costituzionali ha anche effetti culturali e sociali immediati, e vale dunque la pena esaminare quanto sia fondato.
La Consulta si è basata, come abbiamo visto, non sulla lettera della Costituzione ma sull’intenzione di chi l’ha scritta. Questo modo di procedere ha sollevato gravi perplessità; ecco cosa scrive Luca Simonetti:
Per quanto sia un testo intellettualmente e culturalmente di pregio eccelso, e per i suoi tempi estremamente avanzato, la Costituzione non può e non deve essere interpretata solo con riferimento all’intenzione del costituente, pena la sua irrimediabile cristallizzazione: mentre il pregio di una Costituzione valida (cioè la sua duratura attualità) deve essere accompagnato dalla flessibilità con cui il suo testo letterale può essere ‘adattato’ al mutare delle circostanze e dei costumi. La stessa Consulta questo processo adattativo l’ha adoperato innumerevoli volte senza grandi difficoltà. […] Se un fenomeno, naturale, economico o sociale che sia, pur sconosciuto ai costituenti e emerso solo recentemente, è funzionalmente simile ad istituti già presi esplicitamente in considerazione nel testo costituzionale, allora può benissimo essere meritevole della stessa tutela degli altri istituti costituzionalmente tutelati, anche se il legislatore dell’epoca non ci aveva mai pensato o non si sarebbe mai nemmeno lontanamente immaginato di doverci pensare. D’altronde non è molto coerente, a poche righe di distanza, dire prima che le unioni omosessuali rientrano tra le formazioni sociali dell’art 2 Cost. e poi che la famiglia dell’art. 29 Cost. non si può riferire alle unioni omosessuali: il test “letterale” usato per l’art. 29 Cost. avrebbe portato a risultati identici anche per l’art. 2!Per Marco Croce, con il criterio adottato dalla Consulta
l’interpretazione evolutiva si risolverebbe nell’original intent e tutti o quasi i diritti di ‘II e III generazione’ riconosciuti dal giudice delle leggi nella sua più che cinquantennale giurisprudenza non avrebbero dunque cittadinanza alcuna nell’ordinamento costituzionale.Da parte mia, mi limiterò a evidenziare quello che mi appare il secondo paradosso della sentenza. Supponiamo che in futuro il Parlamento, per superare l’obiezione della Corte, sia costretto a modificare l’art. 29 della Costituzione; ebbene, essendo l’intenzione del legislatore mutata, il Parlamento potrebbe riproporre un testo del tutto identico a quello originario, visto che nella lettera dell’art. 29 nulla contrasta col matrimonio fra omosessuali, e anzi il riferimento ai «coniugi» anziché a «l’uomo e la donna» sembra quasi un evidente esempio di linguaggio inclusivo!
Si avrebbe così una situazione simile a quella immaginata da Borges nel racconto «Pierre Menard, autore del Chisciotte», in cui uno scrittore contemporaneo riscrive alla lettera alcuni capitoli del Don Chisciotte, ma con un’intenzione diversa da quella dell’autore originale (Finzioni, trad. di Franco Lucentini):
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):Ma forse il paradosso è solo apparente, e potrebbe essere superato per mezzo di una legge costituzionale che proponga una sorta di interpretazione autentica della Carta.…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali – esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire – sono sfacciatamente pragmatiche.
Per la verità, la Consulta sembra aver proposto, seppur debolmente, anche due argomenti di natura letterale. Nel primo sostiene che «il secondo comma della disposizione […], affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale». Ma ovviamente è facile trovare situazioni in cui il coniuge debole sia invece l’uomo, e quindi il comma non ha implicazioni strette sul sesso dei coniugi. Il secondo argomento è il seguente:
Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.Quello della finalità procreativa del matrimonio è il frusto luogo comune della più sciocca propaganda integralista, che si può confutare senza possibilità di risposta con il semplice richiamo ai matrimoni – in tutto e per tutto legittimi e legali – in cui la donna sia più che cinquantenne, e quindi anche potenzialmente incapace di generare un figlio. Trovare una simile, risibile insensatezza in una sentenza della Corte Costituzionale è ciò che più genera sgomento nell’occasione odierna.
(2. Fine.)
Postato da Giuseppe Regalzi alle 11:39 7 commenti
Etichette: Corte Costituzionale, Matrimonio omosessuale, Unioni civili
lunedì 3 maggio 2010
Famiglia sostantivo plurale. Non esiste un modello unico da scegliere o peggio da imporre
“Venezia è bella ma non ci vivrei”. “Non esistono più i valori di una volta”. “La famiglia si sta sgretolando”.
Forse pochi ne sono consapevoli, ma l’ultima affermazione può stare benissimo insieme alle prime due. O alle altre innumerevoli che possiamo considerare luoghi comuni, battute da bar o da ascensore, giusto per riempire quel silenzio imbarazzante. Chissà perché, poi, il silenzio è imbarazzante.
Come ogni luogo comune che si rispetta quella frase incarna alcune credenze, prive di fondamento ma diffuse, e affonda le radici in un terreno che ha una qualche percentuale di legame con la realtà. A pensarci bene quasi qualsiasi affermazione può rivendicare una percentuale di verosimiglianza.
Basta però una analisi non troppo approfondita per rendersi conto che è difficile capire che non c’è nessuna ragione per allarmarsi e per gridare “al lupo! al lupo!”.
Che cosa significa che la famiglia si sta sgretolando? E da cosa nasce una idea di questo tipo?
Intanto sarebbe interessante scoprire se è una affermazione attuale o recente come si crede. In fondo i rimpianti per una età dell’oro che magari non è mai esistita sono una vecchia abitudine. Magari potremmo scoprire che i nostri nonni già se ne lamentavano, e ancora più indietro nei secoli tutti a inveire contro i tempi coevi in nome di un tempo che fu, famiglia compresa.
Forse dovremmo chiederci che cosa, oggi, una affermazione simile possa rispecchiare.
Una scarsa voglia di sottrarsi alla cantilena: è più facile abbandonarsi al “si dice” che fermarsi a interrogarsi sul significato di alcune affermazioni. La paura dei profondi cambiamenti sociali che inevitabilmente passano anche per un cambiamento dei ruoli familiari e della idea stessa di famiglia, e che sono l’effetto e la causa del cambiamento degli assetti politici e lavorativi. E sono strettamente connessi ai cambiamenti giuridici avvenuti in questi ultimi 40 anni anni: si pensi alla cosiddetta riforma del diritto di famiglia degli anni ’70, all’affidamento congiunto, ai congedi parentali. Leggi che, pur nella loro imperfetta applicazione, stanno delineando una struttura sociale immensamente diversa dal secolo scorso. Un secolo in cui a lungo le donne non hanno potuto fare il magistrato o votare. O potevano essere vendute come un comò (l’istituto della dote), vendute al loro carnefice (matrimonio riparatore) o finire in galera per adulterio (solo le donne, gli uomini non ci andavano e a lungo non erano nemmeno considerati adulteri ma seduttori). O ancora l’ingenua convinzione che la donna (la madre) sia intrinsecamente “più genitore” dell’uomo (il padre). I ruoli predefiniti lasciano spazio alla complessità della realtà familiare, nelle sue innumerevoli forme e nelle diversità delle organizzazioni, formali e sostanziali. Ecco perché l’insensatezza dell’affermazione “la famiglia si sta sgretolando” si nasconde anche nell’uso del singolare: esistono innumerevoli famiglie, non c’è nessuna Famiglia, unica o vera da usare come modello o, peggio, da imporre.
La definizione di famiglia può accogliere le formazioni più diverse e accettare vincoli semantici leggeri e riconducibili a un rapporto affettivo e relazionale tra le parti.
Il panorama che scegliamo come riferimento è fondamentale nel passaggio dalla famiglia alle famiglie. Panorami troppo angusti sono rischiosi: se, per conoscere la posizione degli italiani riguardo alla caccia, interpellassimo i nostri 8 più cari amici, non riusciremmo a tracciare un profilo che possa aspirare ad essere un campione davvero significativo, cioè statisticamente rilevante.
L’idea che esista una Famiglia inciampa nell’errore di prendere come panorama un tempo e uno spazio terribilmente angusti: quello delle pubblicità sceme o dei pensieri semplificanti e disinteressati alla realtà.
Panorami con informazioni sbagliate sono infatti altrettanto rischiosi. Prenderemmo sul serio uno che è convinto che la Terra sia piatta? Discuteremmo con lui di natura umana o di inquinamento ambientale?
Oggi, in Italia, c’è un fenomeno che suscita irritazione e reazioni umorali e rivitalizza il fantasma della scomparsa della famiglia: le famiglie omogenitoriali. E, soprattutto, la loro sacrosanta rivendicazione di diritti. In Italia fa ancora discutere la regolamentazione delle unioni omosessuali – che sia il matrimonio o un altro istituto giuridico equivalente – e le uniche risposte sono state solo una caricatura di una parità di diritti. Nonostante questo i fantasiosi progetti di legge dai Dico, ai DiDoCo fino ai DiDoRe, sono miseramente falliti perché troppo azzardati!
Figuriamoci quando vicino ad “omosessuale” si affianca la parola “genitorialità”, e la richiesta di diritti e di doveri. La condanna è assicurata. L’elenco dei luoghi comuni è lungo: dall’accusa di volere un figlio a tutti i costi, all’egoismo passando sempre per la difesa dell’interesse del bambino.
Ora questa ultima presunta motivazione è la più bizzarra. Se si avesse davvero a cuore il benessere dei bambini si smetterebbe di essere a favore della discriminazione e della ingiustizia. E ci si precipiterebbe a dare loro protezione tramite una legge, per esempio, che permettesse al genitore non biologico (perché in una coppia di donne o di uomini uno solo è il genitore biologico) di diventare genitore legale. Un esempio chiarisce meglio l’importanza della questione: oggi se il genitore biologico muore non esiste una garanzia che il figlio possa crescere con l’altro genitore. Oppure, in caso di separazione, che possa mantenere un rapporto nel caso in cui il genitore biologico non volesse. Lo Stato italiano condannerebbe questo bambino ad essere orfano due volte, nel primo caso, e lo condannerebbe a una separazione forzata, nel secondo.
E, se si avesse a cuore il benessere dei bambini, ci si precipiterebbe anche a sostenere l’accessibilità al matrimonio per tutti, svincolata dal sesso e dall’orientamento sessuale dei coniugi. Proprio come dice la Costituzione italiana.
Purtroppo la versione che va nei dibattiti pubblici è ancora quella che dice il contrario. E come scimmie ammaestrate tutti a ripetere che lo afferma anche la Costituzione che questi matrimoni non s’hanno da fare! Senza averla mai letta. Il tanto citato articolo 29 non impone come condizione necessaria la diversità di sesso degli aspiranti sposi. E, se non bastasse, l’articolo 3 delinea l’uguaglianza tra tutti i cittadini, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Le ragioni, presentate di recente dalla Corte, per giustificare il rigetto della questione di costituzionalità sulla presente limitazione del matrimonio ai soli eterosessuali non sono convincenti, e la compatibilità costituzionale del matrimonio omosessuale non ne è intaccata.
“Non sono razzista, è solo che non credo sia giusto mischiare le razze in questo modo. Ho molti amici neri, vengono a casa mia, li sposo e usano il mio bagno. Li tratto come gli altri. Ma i figli dei matrimoni misti soffrono, e io devo tutelarli”. Queste le parole di un giudice di pace della Louisiana, Keith Bardwell, per giustificare il suo rifiuto di sposare una donna bianca e un uomo nero. Non è avvenuto nel 1950, ma pochi mesi fa.
I figli ne soffrono, le relazioni sono instabili: ricorda qualcosa?
Il silenzio è decisamente meno imbarazzante dele idiozie spacciate per autorevoli pareri. Sia in ascensore che altrove.
Gli Altri, 30 aprile 2010.
Postato da Chiara Lalli alle 16:57 11 commenti
Etichette: Chiara Lalli, Diritti individuali, Famiglia, Famiglie Arcobaleno, Gli Altri, Luoghi comuni, Matrimonio, Matrimonio omosessuale, Omogenitorialità
L’assurdo della discriminazione
Era circolata qualche giorno fa la notizia che il Governo Italiano avesse inserito nel ricorso contro la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, che condannava l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, una nota redatta dal professor Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico e Diritto delle istituzioni religiose presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre e abituale editorialista del quotidiano dei vescovi italiani Avvenire. È appunto su questo giornale che Cardia scrive quanto segue («Sentenza crocifisso. Cambiare si deve. È l’Europa stessa ad affermarlo», Avvenire, 1 maggio 2010, p. 15):
Ancora, la scuola italiana ammette simboli e pratiche di altre religioni. Leggi, decreti, circolari, e giurisprudenza, prevedono la legittimità del velo islamico, di altri simboli e vestimenti di derivazione religiosa […]. Il mancato esame di questi elementi giuridici e storico-culturali (e altro ancora) ha indotto la Corte di Strasburgo ad isolare il simbolo del crocifisso come fosse l’unico presente nelle nostre scuole […]. Se si seguisse la logica della sentenza si arriverebbe all’assurdo di togliere il crocifisso e mantenere i simboli di altre religioni, con la conseguenza che verrebbe ad essere sacrificata e discriminata proprio la religione della stragrande maggioranza degli italiani.Per l’illustre professore, dunque, il velo islamico, la kippà e la croce di Davide degli Ebrei, il turbante dei Sikh, il pentacolo dei Neopagani e tutti gli altri simboli indossati da privati sono in tutto e per tutto equivalenti non – come potrebbero pensare gli ingenui che non insegnano a Roma 3 – al crocifisso appeso al collo, al rosario, all’immaginetta di Padre Pio o alla statuina di San Giuda Taddeo recati su di sé dagli studenti cattolici, ma al crocifisso appeso al muro dell’aula davanti a tutti, imposto da un’apposita normativa statale; sicché se abolisci quest’ultimo, pur lasciando immutato tutto il resto, stai discriminando i poveri cattolici e sei poco meno di un persecutore di cristiani.
Con un simile difensore e con argomenti di questa forza, vincere il ricorso davanti alla Corte di Strasburgo sarebbe per il Governo italiano un autentico miracolo...
Postato da Giuseppe Regalzi alle 00:01 3 commenti
Etichette: Carlo Cardia, Crocifisso, Laicità dello Stato, Simboli religiosi
domenica 2 maggio 2010
Riflessioni domenicali sulla pillola del giorno dopo
Ripensando al tanto atteso ddl sulla obiezione di coscienza sulla pillola del giorno dopo per i farmacisti mi domandavo: che non credano nemmeno loro a quanto blaterano?
Mi spiego: la condanna (e la liceità della obiezione di coscienza) della pillola del giorno dopo viene generalmente sostenuta dalla condanna della interruzione volontaria di gravidanza. Se questa è condannata, allora anche la pillola del giorno dopo subisce la stessa sorte per il suo effetto abortivo (lasciamo tra parentesi il dubbio, molto dubbio, potere abortivo della pgd, annoverabile tra i contraccettivi e non tra gli abortivi). Ma se è abortiva (dovrebbe essere la logica conseguenza della tesi avversa) si può infilare nell'articolo 9 della 194: metti una nota dopo il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie e ci infili pure il farmacista.
Che bisogno ci sarebbe di redigere una legge a parte?
Forse non sono convinti nemmeno loro e, per non rischiare, ecco una legge che giustifica il sottrarsi al dovere di vendere un farmaco senza che vi sia alcuna giustificazione.
Così, perché ti gira storto.
Si potrebbero aggiungere numerose altre considerazioni.
Postato da Chiara Lalli alle 14:10 9 commenti
Etichette: Aborto, Contraccezione, Pillola del giorno dopo
Il sondaggio della settimana
A proporlo è Cremona on line dopo avere annunciato il funerale per i bambini non nati il prossimo 7 maggio. E dopo il 7 maggio ogni primo venerdì del mese.
Ne avevamo già parlato qui della sepoltura dei feti e del suo obbligo.
Postato da Chiara Lalli alle 10:21 22 commenti
Etichette: Aborto, Embrione, Feto, Legge 194/1978, Sepolture dei feti