lunedì 30 marzo 2009

Traffico di organi la tragedia scambiata per una leggenda


In “Human Organ Transplantation” due infermieri entrano nella casa di Mr. Brown, lo sbattono sul tavolo della cucina e gli prelevano il fegato. È un episodio di Monty Python’s The Meaning of Life, film esilarante e irriverente dell’indimenticabile gruppo inglese. Più che di trapianto, ovviamente, si dovrebbe parlare di rapina o di aggressione.
La versione reale è il traffico illegale di organi umani, ben poco divertente e troppo spesso liquidato dai media come leggenda metropolitana – proprio come i coccodrilli che fanno capolino dal water.
Nel maggio 2007 Alessandro Gilioli aveva raccontato di questo traffico da Kathmandu, del patto scellerato tra ricevente e “donatore”, dell’inferno della povertà e dell’illegalità, rompendo il silenzio complice di questa barbarie (“Ho comprato un rene in Nepal”, L’espresso).
Se le parole sulla carta non fanno abbastanza effetto, fare finta di niente davanti a testimonianze filmate è più difficile. La storia è abbastanza ripetitiva: abusi, miseria, violenza. Persone prive dei mezzi necessari a sopravvivere che vengono private anche di un pezzo del loro corpo. Questi filmati, cominciati proprio in Nepal e in India due anni fa, faranno parte di un documentario intitolato “Human Organ Traffic”. H.O.T. ha lo scopo di denunciare questa realtà di ingiustizia e di sopraffazione.
I protagonisti di H.O.T. sono bambini e adulti che raccontano la loro storia di disperazione.
La “realtà invisibile” e drammatica di un mondo popolato da pochi benestanti che sfruttano moltissimi poveri: “da un lato la necessità di sopravvivere alla povertà a qualsiasi prezzo, dall’altro, quelli disposti a pagare qualunque prezzo per sopravvivere”.
Il mercato nero degli organi, i medici corrotti, la promessa di una vita migliore. E poi i mediatori e le forze dell’ordine.
Una mappa degli abusi che va dall’India al Brasile, da Israele alle Filippine.
H.O.T. è diretto da Roberto Orazi e si avvale anche della collaborazione del “nostro” Ignazio Marino e dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes, cofondatrice di Organs Watch, team multidisciplinare su diritti umani e i trapianti di organi.

DNews, 30 marzo 2009

Come neonati

Barbara Spinelli, «Il coma dell’anima» (La Stampa, 29 marzo 2009, p. 1):

Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più fondamentalmente: la perdita di controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato che monopolizzando ogni cosa si sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l’ideale. Non contano l’uomo e i suoi modi scritti o verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, «gettato lontano» nelle cliniche, come scrive Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso piega la volontà delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione di maggiorità (la sua Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella paragona il comatoso irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato nutrito col biberon.
Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato dovrà vedersi da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di diritti dell’infanzia ma gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di minorità. Dovrà vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti ma privo di responsabilità.
La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se stesso, di parlare e pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità. È così comodo esser minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: «A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole» (Kant, Risposta alla domanda: cos’è l’Illuminismo?).

sabato 28 marzo 2009

NIA* (Sostegno vitale obbligatorio per tutti)

NIA (Sostegno vitale obbligatorio per tutti)
*Ovvero nutrizione artificiale (a sinistra) e idratazione (a destra).
Ciò che non si vede è un buco nella spalla per far passare nella vena cava superiore i suddetti.

giovedì 26 marzo 2009

Se arriva un marziano come gli spieghiamo questo ddl Calabrò?

Robot
Se un marziano, arrivato da poco in Italia, venisse informato dei nostri principi costituzionali e del consenso informato, non riuscirebbe a capire il dibattito sul testamento biologico. Se si può chiamare dibattito un coacervo di voci che non si ascoltano l’un l’altra e che spesso sono contraddittorie e insensate.
Il nostro povero marziano non capirebbe per quale ragione uno strumento giuridicamente tanto semplice abbia sollevato tali reazioni smodate. Bisognerebbe spiegargli che il paternalismo seduce ancora molti animi; che le libertà individuali non sono considerate come diritti inviolabili; e che la libertà viene spesso malintesa e calpestata.
Questa spiegazione, tuttavia, non basterebbe a chiarire al malcapitato straniero alcuni aspetti del disegno di legge Calabrò.
Anche se ci mettessimo tutto il nostro impegno esplicativo dei costumi indigeni, egli non riuscirebbe a capacitarsi del perché noi umani (o meglio, noi italiani) non possiamo includere nel testamento biologico il nostro volere riguardo alla nutrizione e idratazione artificiali. Egli ci tormenterebbe con varie domande.
“Siete liberi di decidere se alimentarvi o no?”. Certo, dovremmo rispondere, il diritto a non mangiare o allo sciopero della fame sono garantiti.
“E allora forse non potreste rifiutare la nutrizione e idratazione artificiali?”. No, possiamo rifiutare se siamo coscienti.
“Magari non sono trattamenti invasivi…”. Spesso lo sono, perché richiedono un intervento chirurgico e anche il sondino nasogastrico è una operazione abbastanza cruenta. E comunque sono sempre invasivi se l’individuo non vuole essere nutrito e idratato!
“Allora magari si segue una procedura internazionale?”. No, le leggi e i trattati degli altri Paesi lasciano la libertà di decidere.
No, non capirebbe. E nemmeno noi. Come non capiamo come sia possibile che in Senato ieri 164 abbiano votato no all’emendamento che voleva rimediare a questo scempio; solo 105 a favore e 9 si sono astenuti. 173 dei nostri rappresentanti non ci considerano in grado di decidere, ma ci ritengono inetti e irresponsabili. Dei mentecatti cui dire come vivere e come morire. Non ci vuole un marziano per capirlo.

(DNews, 26 marzo 2009)

giovedì 19 marzo 2009

Dove non c’è scelta non esiste morale. La Verità somministrata per sondino

Alcuni veri e propri pervertimenti semantici e concettuali affliggono il dibattito mediatico e parlamentare sul testamento biologico, così come alcuni nonsense sono presenti nel disegno di legge in discussione. Primo tra tutti: perché dovrei redigere un testamento biologico, o qualsiasi altro documento attestante il mio volere, se la mia volontà non sarà poi vincolante per il medico? Perché dopo cinque anni – e ogni cinque anni – dovrei rinnovare le mie volontà? Una normativa sul testamento biologico potrebbe essere considerata come una estensione temporale del consenso informato, secondo cui nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza che abbia ricevuto tutte le informazioni e senza che abbia fornito il consenso. Ma il testo Calabrò tratta i cittadini aprioristicamente come incapaci di intendere e di volere, privandoli della libertà di decidere oggi per un futuro in cui non potranno difendere i propri diritti, e intacca profondamente il principio del consenso informato. La storia del signor Bruno è un caso esemplare della contiguità tra consenso informato e testamento biologico. Nel dicembre 2006 deve sottoporsi a un delicato e rischioso intervento chirurgico. È consapevole del rischio, è stato informato del possibile esito infausto, contestuale o conseguente all'intervento. Bruno ha sottoscritto il consenso informato solo a condizione di inserire una clausola. Seguendo le indicazioni del comitato etico dell'ospedale San Martino di Genova, Bruno ha esplicitato le proprie volontà qualora in futuro non potesse più farlo. In caso di stato vegetativo persistente o altra grave inabilità, ha detto, rifiuto ogni forma di accanimento terapeutico (comprese idratazione e alimentazione artificiali) e rifiuto qualsiasi cura inefficace per la guarigione, come la rianimazione. Come il signor Bruno ogni cittadino dovrebbe poter decidere sui trattamenti che desidera ricevere in futuro, comprese la nutrizione e l'idratazione artificiali.
Il dibattito più bizzarro e inutile degli ultimi decenni è proprio quello riguardante la nutrizione e l'idratazione artificiali, o meglio il loro statuto: trattamento sanitario o mera assistenza? Bizzarro perché coloro che strepitano per il carattere assistenziale sembrano ignorare del tutto di cosa stiano parlando. Basti ricordare che l'avvio della nutrizione artificiale richiede un consenso informato, in cui si informa il paziente o un congiunto dei rischi. La dichiarazione si chiude con l'espressione del consenso alla effettuazione del trattamento sanitario indicato. La nutrizione artificiale, poi, richiede una attenzione nella gestione molto diversa da quella necessaria per cucinare e servire un pasto, anche il più complicato che si possa immaginare. Dalla premura per la sterilità degli strumenti usati (aghi, rubinetti, guanti), alla necessità di effettuare regolarmente le analisi del sangue. Chi non ha un sondino nasogastrico subisce un intervento chirurgico per inserire un port a cath, una valvola attraverso cui far passare la nutrizione; oppure per eseguire una gastrostomia endoscopica percutanea, ovvero un buco nell'addome. Insomma è difficile non considerare tutto questo come un atto medico. Tuttavia il disegno di legge in discussione è esplicito nel definire nutrizione e idratazione artificiali come sostegno vitale e, implicazione gravissima, nel sottrarle alla nostra decisione: «esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.» Questo significa che finché siamo coscienti possiamo rifiutarci; appena non siamo più in grado di invocare un nostro diritto fondamentale qualcuno ci farà un buco o ci infilerà un sondino nel naso per nutrirci – anche se abbiamo espresso volontà contrarie.
Non è possibile chiamare alleanza terapeutica una condizione in cui il medico decide e il paziente subisce: più corretto sarebbe chiamarla paternalismo. Un paternalismo celato e mascherato da altruismo e che svuota la nostra autodeterminazione lasciando intatto solo un involucro esterno. Il testo Calabrò non è solo un disegno di legge che mantiene meramente il nome di «dichiarazioni anticipate», mentre le umilia e le schiaccia sotto il macigno della coercizione; ma contraddice il principio sacrosanto secondo il quale ognuno di noi dovrebbe poter decidere circa la propria esistenza – morte compresa.
Ove non c'è scelta non esiste morale. Kant ha fornito una immagine efficace per descrivere lo spessore morale degli uomini se fossero privati della propria autodeterminazione: la libertà del girarrosto. Insensato discutere se il pollastro infilzato nello spiedo si stia comportando moralmente o immoralmente.
Ogni decisione che riguarda la nostra salute non è soltanto medica, ma coinvolge i nostri valori, ciò che crediamo importante, la nostra stessa idea di esistenza. Nessuno può ergersi a detentore della Verità. Questo è il tanto vituperato relativismo morale: l'idea che ognuno di noi possa avere preferenze diverse; la convinzione che se queste preferenze non danneggiano nessun altro dovrebbero essere rispettate e garantite. La libertà ha anche un ulteriore vantaggio rispetto alla coercizione: permette anche di rinunciarvi, o di delegarla. Se siamo liberi possiamo scegliere di far decidere qualcuno al posto nostro, o di sottrarci alle decisioni. Se invece siamo obbligati a percorrere una unica strada non possiamo che piegare il capo, trasformati in simulacri umani. Siamo costretti a subire la decisione di altri; un punto di vista, legittimo se valido per sé, viene trasformato in Verità Assoluta, in Dogma e come tale somministrato anche a chi la pensa diversamente.
La vera libertà di coscienza è quella che ognuno di noi dovrebbe esercitare in presenza di una legge rispettosa e liberale. Non quella che è stata invocata per giustificare l'ignavia e l'opportunismo politico. Non prendere posizione rispetto alla legge in discussione è un atto gravissimo. Non prendere posizione contro una ingiustizia non è moralmente neutrale e privo di conseguenza, bensì è una precisa scelta e come tale carica di implicazioni. Di fronte ad un attacco alla libertà tanto brutale e ingiustificabile è doveroso opporsi, difendere i diritti dei cittadini, rivendicare la libertà di scelta. Combattere affinché qualcuno non ci trasformi in polli allo spiedo.

(il Manifesto, 19 marzo 2009)

lunedì 16 marzo 2009

Somalia, Congo e tutte quelle crisi da “adottare”

“Adotta una crisi dimenticata” è una campagna promossa da Medici Senza Frontiere (MSF) allo scopo di opporsi al silenzio mediatico nei riguardi della sofferenza di milioni di persone; ha ottenuto il patrocinio della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI).
60 Paesi sono afflitti da catastrofi di varia natura, e sono condannati anche all’oblio e al silenzio da parte dei mezzi di informazione: civili martoriati dalle guerre, dalle malattie, dai disastri ambientali.
Per questa stessa ragione MSF Italia da cinque anni pubblica il “Rapporto sulle Crisi Dimenticate”, l’ultimo dei quali è stato presentato lo scorso 11 marzo a Roma (con gli interventi di Kostas Moschochoritis, direttore generale di MSF, e di Mirella Marchese dell’Osservatorio di Pavia, partner del progetto).
“Adotta una crisi dimenticata” vuole combattere l’indifferenza da parte dei media, spesso più attenti ai gossip o alla cronaca nera che alle crisi umanitarie. Se è difficile trovare qualcuno che non abbia mai sentito parlare di Cogne e dello zoccolo della discordia, o di Meredith e della sua vita sentimentale, è al contrario difficile trovare qualcuno che sappia della catastrofe umanitaria in Somalia o della situazione sanitaria in Myanmar. Oppure della crisi sanitaria nello Zimbabwe, dei civili oppressi dalla guerra nel Congo Orientale (RDC). L’elenco non finisce qui: la malnutrizione infantile; i civili uccisi o in fuga nel Pakistan nord-occidentale; la situazione critica nella regione somala dell’Etiopia; la violenza e la sofferenza in Sudan; i civili iracheni bisognosi di assistenza; la coinfezione HIV-TBC.
L’appello è rivolto anche alle scuole di giornalismo e alle università, non solo ai media. E moralmente anche ad ognuno di noi. Fino al marzo 2010 è possibile adottare una crisi, si può aiutare a diffondere le notizie su queste tragedie. Perché, è banale sottolinearlo, la prima condizione necessaria per farvi fronte è l’informazione.
Non parlarne non solo non le fa sparire, ma ci rende complici di questo orrore.
Per ulteriori informazioni e per aderire: www.crisidimenticate.it.

domenica 15 marzo 2009

Ddl Calabrò: migliore, ma ancora pessimo

La Commissione sanità del Senato ha finalmente licenziato il testo del disegno di legge Calabrò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), che dal 18 marzo passerà all’esame dell’aula.
Il testo rimane orrendo, contraddittorio, poco comprensibile, verboso, illiberale; ma ha almeno perso lo sfrontato carattere di legge criminale che aveva nella prima versione. Le modifiche non appaiono casuali; qualcuno deve essersi reso conto che la legge sarebbe andata incontro a una sicura bocciatura della Corte Costituzionale, non senza prima aver seminato grandi sofferenze e serissimi problemi di applicazione. Naturalmente il potere integralista ha notato le modifiche, e le prime messe in guardia sono già apparse sui suoi organi di stampa; rimane dunque incerto il destino ultimo del ddl.
Cerchiamo adesso di capire cosa accadrebbe se il ddl diventasse legge.

Varrà ancora il principio del consenso informato?
La prima versione del ddl non faceva solo strame del testamento biologico; cosa ancora più grave e inaudita, avrebbe impedito anche a chi è pienamente cosciente di decidere quali trattamenti sanitari accettare o rifiutare, come abbiamo cercato di mostrare a suo tempo qui su Bioetica.
La nuova versione sembra aver cancellato questa vergogna, seppur con qualche ambiguità. All’art. 1, comma 1 lettera c, afferma per prima cosa: «[La presente legge] garantisce che gli atti medici non possono prescindere dall’espressione del consenso informato». L’affermazione, piuttosto perentoria (e assente nella prima stesura), è seguita da un rinvio all’art. 2, dove viene ripetuto (cc. 1 e 5) che «salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso esplicito ed attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole», e che «il consenso al trattamento sanitario può essere sempre revocato, anche parzialmente». Questi due commi erano presenti anche nella prima versione; dov’è allora la novità? Tornando all’art. 1, c. 1 l. e, troviamo che «[la presente legge] vieta ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 del codice penale ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute, nonché all’alleviamento della sofferenza». Ecco una prima differenza: nella versione originale (art. 2 c. 1), si specificava «ogni forma di eutanasia, anche attraverso condotte omissive». L’assenza delle parole in corsivo è significativa, anche se purtroppo la dizione «ogni forma di eutanasia» è abbastanza vaga da poter restare aperta ad interpretazioni aberranti, per le quali anche il rifiuto delle terapie configurerebbe una forma di eutanasia omissiva da impedire. Proseguiva il vecchio testo (c. 2): «L’attività medica, in quanto esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute, nonché all’alleviamento della sofferenza non può in nessun caso essere orientata al prodursi o consentirsi della morte del paziente, attraverso la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente». Qui l’omissione è ancora più significativa (e forse si potrà in futuro usare per documentare l’intenzione del legislatore); si noti come nel nuovo testo la tutela della vita rimanga bilanciata dall’«alleviamento della sofferenza», senza ulteriori specificazioni. Certo, all’art. 1, c. 1 l. a, il diritto alla vita rimane «indisponibile», tale cioè che non è possibile rinunciare ad esso; ma in fondo già per la legislazione esistente la vita non è un diritto interamente disponibile (art. 5 Cod. Civile, artt. 579 e 580 Cod. Penale), e quindi l’impatto della norma potrebbe anche essere nullo.
Un’ultima nota: chi ha pensato di ricorrere alla nomina di un amministratore di sostegno per garantirsi il rispetto delle proprie volontà nel caso di un incidente che lo riduca in stato di incoscienza farà bene a cercare qualche altro mezzo, visto che la legge, se fosse approvata, chiuderebbe questa strada: l’istituto è previsto, ma «avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute psicofisica dell’incapace». Niente sospensione delle terapie, dunque.

Cosa si potrà indicare nelle dichiarazioni anticipate?
Una legge ideale dovrebbe consentire di rifiutare nel proprio testamento biologico ogni trattamento sanitario, né più né meno di come fa una persona cosciente e capace di intendere e di volere. E nel ddl Calabrò? Parlando in generale, la risposta è: non si capisce. Consideriamo i cc. 3 e 4 dell’art. 3:

3. Il soggetto può, in stato di piena capacità di intendere e di volere e in situazione di compiuta informazione medico-clinica, dichiarare di accettare o meno di essere sottoposto a trattamenti sanitari, anche se il medico ritenga possano essergli di giovamento. […]
4. Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato, futili, sperimentali, altamente invasive o altamente invalidanti.
Notiamo per prima cosa che anche qui la norma è stata resa più liberale rispetto alla prima stesura: al c. 3 (dell’allora art. 5) questa specificava infatti che i trattamenti sanitari, per poter essere rifiutati, dovevano essere «sperimentali invasivi o ad alta rischiosità», mentre adesso si parla di «trattamenti sanitari» in genere. Il problema però è un altro: a chi si applica il c. 3? A chi sta compilando le proprie DAT per un trattamento futuro o solo a chi rifiuta un trattamento attuale? Se è vero il primo caso, allora perché manca la premessa «Nella dichiarazione anticipata di trattamento», altrove presente? E a che diavolo serve il c. 4, che è più restrittivo del comma che lo precede? Se è vero il secondo caso, che ci fa qui questo comma, sotto il titolo «Contenuti e limiti delle dichiarazioni anticipate di trattamento»? Il c. 2 non ci aiuta:
2. Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto, in stato di piena capacità di intendere e di volere e in situazione di compiuta informazione medico-clinica, dichiara il proprio orientamento circa l’attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari, purché in conformità a quanto prescritto dalla legge e dal codice di deontologia medica.
Anche qui il linguaggio è generale, ma cosa si intende per «orientamento»? Vale quanto la rinuncia di cui si parla al c. 4? Confesso di non saper dare una risposta a nessuna di queste domande.

Si potranno rifiutare l’alimentazione e l’idratazione forzate?
Stavolta la risposta è chiara: no. Il c. 6 dello stesso art. 3 è perentorio:
In armonia con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.
Sarebbe interessante sapere da chi ha scritto questo comma dove mai la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità afferma che alimentazione e idratazione «sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita». L’unica volta che nella Convenzione si parla di food and fluids è all’art. 25 c. f, e solo per dire che «[States Parties shall] prevent discriminatory denial of health care or health services or food and fluids on the basis of disability». Cosa abbia a che fare questo con il testamento biologico lo sa solo l’autore del comma – o forse nemmeno lui.
Rimane comunque non del tutto chiaro se alle persone coscienti sia concesso o meno di rifiutare alimentazione e idratazione. Dal fatto che il ddl solleva esplicitamente la questione solo riguardo alle DAT si dovrebbe dedurre che sia concesso; ovviamente in questo modo risulta particolarmente stridente la disparità di trattamento tra chi è cosciente e chi non lo è più. Davanti alla Consulta sarà quindi facile mostrare l’irragionevolezza e incostituzionalità di questa norma, in particolare alla luce dell’art. 3 Cost. (uguaglianza di fronte alla legge).

Le dichiarazioni anticipate saranno vincolanti?
Qui il ddl parte bene: all’art. 4 c. 1 dichiara che le «dichiarazioni anticipate di trattamento non sono obbligatorie ma sono vincolanti, fatte salve le previsioni dell’articolo 7». Nella versione iniziale non erano né obbligatorie né vincolanti; ma prima di cantar vittoria dobbiamo vedere quali siano le previsioni dell’art. 7. Qui, al c. 1, troviamo che il medico può disattendere le indicazioni del paziente; ma in quali casi? Al c. 2 leggiamo che «il medico non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente». Siamo di nuovo in alto mare? Direi di no: nel linguaggio giuridico «cagionare» significa causare con un comportamento attivo, e non – in generale – omissivo; per essere considerata equivalente a un’azione, un’omissione deve venire esplicitamente sanzionata dalla legge. Quindi il ddl ci sta dicendo semplicemente che se scriviamo nelle nostre DAT che vogliamo ricevere un’iniezione letale il medico non può accontentarci; e non è certo una novità. Il c. 4, poi, prevede che «nel caso in cui la dichiarazione anticipata di trattamento non sia più corrispondente agli sviluppi delle conoscenze tecnico-scientifiche e terapeutiche, il medico, sentito il fiduciario, può disattenderla», e anche questo ci può stare: se rifiuto nelle DAT un certo trattamento perché lo ritengo troppo invadente, e in seguito la stessa pratica diventa per il progresso della scienza più accettabile, è giusto che il medico non si fermi alla lettera del mio testamento biologico. Prosegue il ddl al c. 5:
Nel caso di controversia tra fiduciario ed il medico curante, la questione è sottoposta alla valutazione di un collegio di medici […]. Il parere espresso dal collegio non è vincolante per il medico curante, il quale non sarà tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico.
La norma qui è discutibile (Stefano Ceccanti pensa che sia incostituzionale, perché non si preoccupa di rendere le DAT vincolanti per la struttura sanitaria), ma mi sembra che il contrasto fra medico e fiduciario possa sorgere solo nell’ambito abbastanza stretto delineato dai commi precedenti: richiesta nelle DAT di eutanasia attiva, e progresso medico che renda obsolete le volontà espresse in precedenza.
Attenzione, però: al c. 3 si dice che «il medico, nel caso di situazioni d’urgenza, sentito ove possibile il fiduciario, assume le decisioni di carattere terapeutico, in scienza e coscienza, secondo la propria competenza scientifico-professionale». Norma ambigua, che potrebbe celare un trabocchetto: se il paziente sta per morire le DAT non valgono più nulla, e il medico può seguire il proprio giudizio. Questa interpretazione è rafforzata dal più esplicito art. 4, c. 6: «In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica». Questo avrebbe senso se le DAT non fossero immediatamente disponibili; nella formulazione attuale raggiunge invece il risultato di consegnare il paziente ai voleri del medico non appena la sua situazione si avvicina alla soglia critica.

Bestialità assortite
Non mancano poi qua e là incongruenze grossolane; sembra quasi che la capacità di scrivere decentemente una legge si stia estinguendo nel nostro parlamento. Così, all’art. 3 c. 7, scopriamo che «la dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario». In stato vegetativo? E i pazienti che si trovano in coma (che è cosa diversa dallo SV)? Per quale ragione nel loro caso le DAT non dovrebbero «assumere rilievo»? E se invece che in stato vegetativo il paziente si trova in uno stato di minima coscienza, allora le sue DAT non hanno proprio più valore? Come mai?
Altra perla. Art. 4 c. 4: «La revoca, anche parziale, della dichiarazione deve essere sottoscritta dal soggetto interessato». Un testimone di Geova ha chiesto nelle sue DAT di non essere sottoposto a trasfusione di sangue. Sull’ambulanza ha un ripensamento, e lo dice all’infermiere. Poi perde i sensi, senza aver potuto ovviamente sottoscrivere alcuna dichiarazione. Risultato: il medico potrebbe (e forse sarebbe addirittura obbligato a) ignorare la volontà più recente di quella persona, che verrebbe lasciata morire in base a una dichiarazione non più rispondente ai suoi desideri.

Si dovrà ancora andare dal notaio?
Come anticipato dai vari organi di stampa, questo almeno ci dovrebbe essere risparmiato: basterà recarsi dal medico curante ogni cinque anni, per rinnovare le DAT. Lo Stato, da buon papà di minori scapestrati, non si fida della nostra memoria...

Che fare?
Di fronte a questo obbrobrio cosa dovrebbe fare in aula un’opposizione degna di questo nome? Mentre si organizza da parte di alcuni una sorta di ostruzionismo (i cui scopi personalmente non ho ben capito), direi che la cosa migliore sarebbe di presentare una serie di emendamenti che rielaborino il ddl, seguendone grosso modo la traccia, ma eliminando ogni ambiguità e rendendolo più sintetico e leggibile. Dovrebbero essere presentate due versioni: una in cui sia possibile rifiutare sempre alimentazione e idratazione artificiali, e una in cui sia possibile solo al di fuori delle DAT. Mentre non c’è nessuna speranza che la prima versione possa passare, dato l’investimento politico che è stato fatto sul tema, dovrebbe essere possibile raggiungere sulla seconda un compromesso con ampi settori della maggioranza. Si otterrebbe in questo modo una legge decente, con l’eccezione di un singolo punto, su cui la parola passerebbe comunque in seguito alla Corte Costituzionale, con ottime possibilità di vederlo cassato. Si otterrebbe anche il risultato politico di portare alla luce divisioni nella maggioranza analoghe a quelle che dilaniano il PD, con gli integralisti capitanati da Alfredo Mantovano che sicuramente non voterebbero una legge di quel genere (e che in effetti probabilmente non voteranno neppure il testo Calabrò, se dovesse rimanere immutato).
Ma appunto, parliamo di un’opposizione degna di questo nome...

Adotta una crisi dimenticata

giovedì 12 marzo 2009

Dibattito sul testamento biologico

Domani ci sarà un dibattito pubblico sul testamento biologico con Mina Welby e Chiara Lalli.

13 marzo 2009, ore 18:00
C/o sala Armadilla
via Botero 16A (Metro Colli Albani)

Organizzato dal Circolo PD “Alberone”
Via Appia Nuova 361 - 00179 Roma
http://www.democraticiappio.it

martedì 10 marzo 2009

Sconfitte e leggi illiberali

Il generale, il memoriale e il monastero

Chi legge regolarmente il blog di Luigi Castaldi sa ormai tutto del memoriale delle monache del monastero dei Ss. Quattro Coronati di Roma, in cui qualcuno pretende che fosse contenuta «la prova scritta dell’ordine che il Papa diede per ospitare gli ebrei nei conventi», per usare le parole di un articolo dell’agenzia vaticana Zenit (Antonio Gaspari, «“Pio XII ordinò di salvare gli ebrei”», 5 marzo 2009), il cui eloquente sottotitolo recita: «la conferma in un Memoriale del 1943». Ma come Malvino ha dimostrato («Padre Gumpel fa il furbetto», 6 marzo), basta una lettura cursoria del documento per rendersi conto che esso non è affatto contemporaneo dei fatti registrati, ma risale invece al dopoguerra. Ed è chiaro che il valore di una cronaca redatta ad anni di distanza, e soggetta dunque a tutte le possibili sollecitazioni, è ben diverso dal valore di un diario vero e proprio, scritto nell’immediatezza degli avvenimenti.
Rispondendo alla richiesta di un lettore, Malvino è tornato ieri sull’argomento in un secondo post («Scrivi, Malvino ti risponde», 9 marzo). È risultato che del memoriale si era già parlato qualche anno fa sulla rivista 30Giorni, in alcuni articoli apparsi nel numero di luglio-agosto del 2006. Anche qui si tentava di accreditare il memoriale come «diario ufficiale della comunità» (Pina Baglioni, «Il Santo Padre ordina...»), probabilmente a causa della struttura del documento, che registra gli avvenimenti anno per anno; ma dall’esame di un passo Malvino è stato questa volta in grado di datare il memoriale con maggiore precisione del post precedente, ad alcuni anni dopo la guerra.
In un commento al post ho cercato di definire ancora meglio il termine post quem. Questo è il passo, che è registrato nel memoriale all’anno 1944 (seguo per ora la trascrizione di 30Giorni):

6 giugno. Finalmente si aprirono le porte a questi poveri rifugiati, e restammo di nuovo nella nostra libertà, ma per poco tempo, poiché il giorno 4 ottobre successivo ci fu ordinato di ospitare con la più scrupolosa precauzione il generale Carloni che era cercato per essere condannato a morte. Dalla Segreteria di Stato del Vaticano ci è ordinato di ospitarlo, imponendoci solenne segreto. E fu accomodato alla meglio nella piccola stanza sotto il salone, ma però era costretto a passare nel centro della comunità. Con lui fu ospitata la signorina direttrice di casa sua perché, malato di fegato, aveva bisogni di riguardi per il vitto. Detta signorina cucinava nella nostra cucina. Di questo i superiori erano al corrente. Si sperava che anche questo ospite in pochi mesi si sarebbe liberato. Purtroppo nel mese di marzo successivo fu scoperto che era presso di noi, e con tutta fretta monsignor Respighi con monsignor Centori lo condussero in auto in Vaticano presso le sacre Congregazioni in casa di monsignor Carinci e ivi si trattenne fino al 15 settembre, che dovemmo riceverlo di nuovo. E per ben cinque anni fu nostro ospite.
Va subito ricordato che se il 6 giugno 1944 si aprono «le porte a questi poveri rifugiati» (antifascisti, disertori, ebrei), è perché nella serata del 4 giugno la V Armata del Generale Clark è entrata a Roma. Come mai allora nell’ottobre successivo il monastero è costretto a nascondere un nuovo ospite? La risposta è chiara: le parti si sono invertite, e tocca adesso a un fascista trovare rifugio fra le mura dei Quattro Coronati.
Facciamo un po’ di conti: l’annotazione, come abbiamo detto, si trova registrata al 6 giugno 1944. Il generale Carloni arriva «il giorno 4 ottobre successivo», sempre ovviamente del 1944, e rimane fino al «mese di marzo successivo», cioè del 1945, quando si scopre che si è nascosto presso le monache. Lo si porta allora in Vaticano, dove si trattiene «fino al 15 settembre», ancora del 1945, e solo allora viene ospitato di nuovo nel monastero. «E per ben cinque anni fu nostro ospite»: cioè all’incirca fino al 1950; ammettendo una certa imprecisione nell’espressione, si può pensare in alternativa che i 5 anni coprano l’intera permanenza del generale, a partire dall’ottobre 1944, e in questo caso la data implicitamente riferita dal memoriale sarà il 1949. Poiché le monache non avevano, che si sappia, il dono della profezia, il memoriale sarà stato scritto solo dopo l’uscita del generale dal suo nascondiglio.

C’è però un problema. 30Giorni identifica il «Generale Carloni» del memoriale con «Mario Carloni, generale dei bersaglieri che era stato a capo della IV divisione alpina Monte Rosa della Repubblica di Salò» (Baglioni, art. cit.). Ma come facevo notare in un ulteriore commento al post di Malvino, questo non è possibile: negli anni di cui si parla, Mario Carloni si trovava infatti detenuto, prima in un campo di prigionia e poi nel Forte di Boccea, da cui sarebbe uscito solo il 19 maggio 1951. È quanto si deduce dalla voce a lui dedicata nel sito della Fondazione RSI: dopo essersi arreso alla fine di aprile del 1945 al corpo di spedizione brasiliano,
dal 339 PW Camp Coltano (PI) dal 22 novembre 1946 passa sotto la giurisdizione della CsA di Lucca e poi di quella di Chiavari, che lo scagionano. Sebbene il 4 ottobre 1946 sia stato assolto dalla Commissione Militare di Firenze del M.T.O. U.S. Army per l’uccisione dell’Ufficiale prigioniero Alfred Lyth a Camporgiano (LU) e la sentenza venga confermata il 27 febbraio 1947, il Tribunale Militare di Roma lo scarcera da Forte Boccea soltanto il 19 maggio 1951.
Queste circostanze vengono confermate da altre fonti (cfr. p.es. Davide Del Giudice, «Il processo Simonitti», Rivista mensile Storia & Battaglie, 2007). Va detto poi che il Carloni del memoriale, malato di fegato e bisognoso di «riguardi per il vitto», mal si concilia con l’immagine più ferrigna del reduce dal fronte russo, insignito di Deutsches Kreuz in Gold da Hitler.
Si tratta forse di un altro generale Carloni? Una ricerca sommaria non ha portato a nessun risultato: l’unico generale Carloni della II Guerra Mondiale sembra essere proprio Mario Carloni. Questo è un argomento e silentio, e va quindi preso con cautela; ma per trovarsi in pericolo di condanna a morte il Carloni del memoriale doveva aver avuto un ruolo non del tutto oscuro, e qualche traccia dovrebbe esserne rimasta.
Che fare a questo punto? Come ci insegnano i maestri, mai fidarsi delle fonti secondarie; se qualcosa non torna, il memoriale va consultato nell’originale, non in una trascrizione. Più facile a dirsi che a farsi, apparentemente; e invece no. A sorpresa, un’immagine del memoriale è disponibile in rete, e contiene fortunosamente (all’ultima pagina, terz’ultima riga) la prima occorrenza del nome del generale. Basta ingrandirla un poco per rendersi conto dell’esistenza di un occhiello che mal si concilia con la lettera elle; il nome è in realtà Carboni, non Carloni.
A questo punto ci serve un generale Carboni, fascista, ricercato dalle autorità dopo la fine della guerra ma latitante per alcuni anni. La ricerca è molto breve: il nostro uomo è con ogni probabilità il generale Giacomo Carboni, di cui Wikipedia ci dice quanto segue:
Al momento della caduta di Roma, fece distruggere buona parte degli archivi del SIM, custoditi nelle due sedi di Forte Braschi e Palazzo Pulcinelli, occultandone una parte superstite nelle catacombe di San Callisto. Indossati abiti civili e presa con se la cassa del Servizio, si allontanò furtivamente da Roma, frattanto occupata dai tedeschi.
Nel giugno 1944 venne spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura per la mancata difesa di Roma, ma Carboni eluse il provvedimento grazie alle protezioni dei servizi di intelligence degli Alleati anglosassoni, in particolare l’OSS americano. Più tardi venne processato e, il 19 febbraio 1949 venne assolto dalle accuse.
Non c’è ovviamente contraddizione fra la protezione offerta dai servizi alleati e quella del Vaticano; l’esito del processo spiega poi perché dopo tanti anni il generale abbandonasse finalmente il rifugio del monastero, togliendo l’incomodo alle povere monache, e ci fornisce anche – con precisione persino superflua – il terminus post quem per la redazione del memoriale: il 19 febbraio 1949, appunto. Rimane oscuro il motivo per cui le monache si siano risolte solo dopo tanti anni a scrivere una cronaca che, per la sua natura, ci si aspetterebbe venisse redatta al massimo anno per anno.

Nessuno dubita naturalmente che le monache abbiano effettivamente salvato la vita di numerosi rifugiati. Ciò di cui si dubita è che l’abbiano fatto su ordine di Pio XII, e non piuttosto di propria iniziativa. Come raccontava in uno studio ormai classico Giovanni Miccoli (I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano, Rizzoli, 2000, p. 247), dopo la perquisizione del monastero di San Paolo nella notte fra il 3 e il 4 settembre 1944, che aveva portato alla cattura di una cinquantina di rifugiati, «la Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, su decisione di Pio XII, ordinò ai canonici di San Pietro di allontanare quanti avevano trovato rifugio nei loro appartamenti». La crudele decisione non venne applicata, per l’opposizione dei canonici e di alcuni cardinali, che protestarono presso il papa. Ma rivela il vero volto di Eugenio Pacelli, al di là di ogni abbellimento agiografico e di ogni pia fraus.

Aggiornamento: al momento non ho a disposizione le memorie del Carboni (Memorie segrete 1935-1948. «Più che il dovere», Firenze, Parenti, 1955), ma da qualche avaro scorcio offerto da Google Book Search sembra confermato che si tratti proprio del nostro uomo, e che abbia persistito nella latitanza fino alla sentenza (p. 485). Emerge fra l’altro, per i più curiosi, il nome della «direttrice di casa» compagna di clandestinità del generale: Fernanda Bartolini, «una signorina ordinata ed energica […] un’umbra di animo gentile e intrepido» (pp. 367-68).

News from Narth, ovvero Luca è famoso

Fino al Narth è arrivata la fama del nostro caro Luca.

ps
Tanto per chiarire: ricevo le news del Narth per una specie di gusto per l’orrido che mi affligge (qualcuno lo chiama dovere di informazione), non di certo perché ritengo il Narth degno della minima considerazione. Non fornisco il mio elenco personale di newsletter, ma farebbe rizzare i peli sulla schiena.

lunedì 9 marzo 2009

Applausi

Dalla trascrizione del discorso di Barack Obama, pronunciato prima di firmare l’ordine esecutivo con cui ha posto fine alle limitazioni alla ricerca sulle cellule staminali embrionali introdotte dal suo predecessore nel 2001:

Today, with the executive order I am about to sign, we will bring the change that so many scientists and researchers, doctors and innovators, patients and loved ones have hoped for, and fought for, these past eight years: We will lift the ban on federal funding for promising embryonic stem cell research. (Applause.) We will also vigorously support scientists who pursue this research. (Applause.) […]
Ultimately, I cannot guarantee that we will find the treatments and cures we seek. No President can promise that. But I can promise that we will seek them – actively, responsibly, and with the urgency required to make up for lost ground. Not just by opening up this new front of research today, but by supporting promising research of all kinds, including groundbreaking work to convert ordinary human cells into ones that resemble embryonic stem cells. […]
Now, this order is an important step in advancing the cause of science in America. But let’s be clear: Promoting science isn’t just about providing resources – it’s also about protecting free and open inquiry. It’s about letting scientists like those who are here today do their jobs, free from manipulation or coercion, and listening to what they tell us, even when it’s inconvenient – especially when it’s inconvenient. It is about ensuring that scientific data is never distorted or concealed to serve a political agenda – and that we make scientific decisions based on facts, not ideology. (Applause.) […]
As we restore our commitment to science and expand funding for promising stem cell research, we owe a debt of gratitude to so many tireless advocates, some of whom are with us today, many of whom are not. Today, we honor all those whose names we don’t know, who organized and raised awareness and kept on fighting – even when it was too late for them, or for the people they love. And we honor those we know, who used their influence to help others and bring attention to this cause – people like Christopher and Dana Reeve, who we wish could be here to see this moment. […]
So thank you very much, everybody. Let’s go sign this. (Applause.)
(The executive order is signed.) (Applause.)

domenica 8 marzo 2009

Senza consenso

Fare qualcosa a qualcuno contro il suo consenso costituisce (con le dovute e ovvie eccezioni) un’aggressione. La persona capace e informata è il miglior giudice dei propri interessi; in questo caso agire contro il suo giudizio significa quasi automaticamente ledere i suoi interessi e violare i suoi diritti.
Fare qualcosa a qualcuno senza il suo consenso non è molto meglio. Nessuno mi conosce meglio di me stesso; chi sceglie per me senza consultarmi può facilmente conseguire un risultato contrario a ciò che voglio davvero. Certo, può capitare che costui indovini la mia preferenza. Mi ha visto fermarmi più volte di fronte a una palestra del mio quartiere, leggerne i volantini pubblicitari con un vago sorriso sulle labbra, valutare con aria critica i miei bicipiti allo specchio; prende quindi l’iniziativa di iscrivermi alla palestra, anticipando il denaro necessario, senza dirmi o chiedermi niente. Io posso anche essere stato effettivamente sul punto di iscrivermi, ma questo non toglie che potrei a buon diritto irritarmi: quel gesto rivela una pericolosa tendenza a non prendere in considerazione la mia volontà, che in altre circostanze potrebbe facilmente condurre quella persona a interpretarla in modo errato, causandomi un danno evitabilissimo: perché mai non chiedere il mio parere?
Ci si potrebbe domandare cosa accadrebbe se esistesse qualcuno in grado di conoscere infallibilmente le nostre preferenze e di anticipare sempre le nostre decisioni, eliminando quindi la possibilità stessa di sortire un effetto contrario alla nostra volontà. Mettiamo che fra trent’anni venga sviluppata un’intelligenza artificiale in grado, dopo un congruo periodo di rodaggio, di simulare un modello fedele della nostra mente, e quindi di indovinare alla perfezione che cosa vogliamo prima ancora che glielo diciamo. Come la dovremmo considerare? Le risposte, molto probabilmente, varierebbero a seconda delle persone. Qualcuno vi vedrebbe il segretario personale perfetto, e finirebbe per delegargli ogni decisione; qualcun altro temerebbe di venire espropriato della vita, e rifiuterebbe con forza di averci niente a che fare, perfino a costo di subire ogni tanto le conseguenze di azioni impulsive, che la macchina avrebbe evitato. I più, si può immaginare, delegherebbero alcune azioni e altre no: si lascerebbe al computer il compito di decidere quale fondo d’investimento scegliere per noi, e ci riserveremmo quello – molto più piacevole – di scrivere un affettuoso biglietto d’auguri per il compleanno della nostra amica Veronica.
È importante notare che qui c’è poco di oggettivo: delegare o meno sarebbe sempre una scelta personale (una meta-scelta, se si vuole), di cui di nuovo saremmo noi i giudici migliori. In effetti, se quel computer fosse davvero in grado di anticipare i nostri desideri, neppure ci proporrebbe di sostituirci nei compiti di cui andiamo più gelosi...

Molti anni ci separano, nel migliore dei casi, dall’affrontare questi dilemmi; nell’immediato la vita ci propone purtroppo a volte scelte assai più drammatiche. Può capitare così che una persona perda la capacità di fornire il proprio consenso a un’azione che la riguarda, per esempio perché un incidente o una malattia l’hanno ridotta in uno stato persistente di incoscienza. Nessun problema, pur nella disgrazia, se quella persona aveva espresso in precedenza una chiara opinione sulla questione che si pone adesso: il suo consenso si può dare per acquisito, e va rispettato (lasciamo ai sofismi degli integralisti le proteste sulla sua pretesa «inattualità»). Ma può capitare anche che quell’opinione non sia mai stata espressa: la persona non aveva mai pensato alla particolare questione che adesso la riguarda (magari perché rappresenta una novità tecnica o di altro tipo), o non aveva mai detto niente in proposito. A decidere al suo posto dovrà essere allora un tutore o un fiduciario appositamente designato, che dovrà agire nell’interesse della persona incosciente (eventualmente sotto la supervisione di un’autorità).
Come definire l’interesse di una persona incapace di esprimere preferenze, se ammettiamo, come abbiamo fatto all’inizio, che è essa stessa il miglior giudice di quello che è il suo proprio bene? La risposta è abbastanza immediata: l’interesse della persona inconsapevole coincide con ciò che essa avrebbe deciso quand’era ancora cosciente, se fosse stata informata dei termini della questione (se la persona è un bambino o un disabile dalla nascita la risposta dovrebbe naturalmente essere diversa). Cosa deve fare allora il tutore, ammesso che lo stato di incoscienza sia permanente o che la questione richieda una decisione in tempi che sono più ristretti del previsto risveglio? La risposta, di nuovo, sembrerebbe abbastanza ovvia: il tutore deve tentare di ricostruire quale sarebbe stata la decisione dell’individuo incosciente, basandosi su tutto quello che sa di lui (o, in mancanza di questo, sulle reazioni più comuni e naturali alla questione); deve decidere non al posto dell’altro, ma come se impersonasse l’altro. Solo nel caso di una sostanziale impossibilità di ottenere una risposta potrebbe considerare gli interessi di terzi – o rassegnarsi a lanciare la classica monetina...

Alcuni però, pur sottoscrivendo il punto di vista liberale, non considerano ovvia questa risposta. Un errore, argomentano, è sempre possibile: non dicevamo all’inizio che nessuno ci conosce meglio di noi stessi? Meglio astenersi, se rimane un margine di dubbio e specie in materie delicate e personalissime; eviteremo così il rischio di andare contro la vera volontà della persona inconscia.
Ma l’argomento non regge. Assumendo l’impegno di tutore, chi ci rappresenta assume anche l’obbligo di fare tutto ciò che è nel nostro interesse. Anche non agire diventa dunque una scelta, di cui il tutore porta intera la responsabilità: per usare la formula felice del Codice penale (art. 40 c. 2), «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Anche in caso di dubbio la scelta dunque non potrebbe che ricadere sull’opzione più probabile, fosse pure l’alternativa fra una chance del 50,1% e una del 49,9%.
Un’obiezione più seria è quella che investe la possibilità stessa che un tutore decida al posto nostro. La sovranità dell’individuo su se stesso, si sostiene, è almeno in certi casi – come per esempio quando è in gioco la funzione generativa – inalienabile. Certe decisioni non si possono e non si devono prendere per un altro.
Ma, come vedevamo già nel caso dell’intelligenza artificiale, anche qui la presunzione di un bene ‘oggettivo’ valido per tutti deve cedere il passo al giudizio – magari ricostruito – dell’individuo. Sono sempre io il giudice migliore di cosa delegare e cosa no; anche qui, come altrove, è in gioco un mio interesse. E se non ho lasciato nessuna dichiarazione in proposito, è paradossalmente (ma non poi molto) il mio tutore che deve giudicare in via preliminare – basandosi su ciò che sa di me – se avrei voluto essere rappresentato da lui in questa o quella questione. L’autodeterminazione è fatta per l’uomo, non l’uomo per l’autodeterminazione: anche la libertà più personale si può – specie se le circostanze lo consigliano – delegare a un altro.

sabato 7 marzo 2009

Lyso Form Tutto in uno

No, non sto scivolando in una rubrica da casalinga ma mi ha davvero sbigottito sentire una pubblicità del prodotto Lyso Form di cui sopra. In chiusura dopo le menate su quanto pulisce e disinfetta la vocina accelerata che non ascolta nessuno, simile agli asterischi nelle polizze, scandisce: è un presidio medico (cioè un prodotto registrato presso il Ministero della Sanità).
Ma io dico: è solo un sostegno di pulizia, come presidio medico?

mercoledì 4 marzo 2009

Le unioni tra persone dello stesso sesso

Venerdì 6 marzo ore 18.30 presso la sede di Di Gay Project, via Costantino 82, Roma, verrà presentato il libro Le unioni tra persone dello stesso sesso. Profili di diritto civile, comunitario e comparato.
Il libro è a cura di Francesco Bilotta, che sarà presente insieme a Domenico Rizzo, Imma Battaglia e Stefano Campagna (2008, MIMESIS edizioni).

Altri dettagli qui.

lunedì 2 marzo 2009

IVF mothers can name ANYONE as 'father' on birth certificate

Già, ecco quello che succede in Inghilterra: IVF mothers can name ANYONE as 'father' on birth certificate, Daily Mail, 02nd March 2009.
In sintesi:

The new rules state: 'The women receiving treatment with donor sperm (or embryos created with donor sperm) can consent to any man or woman being the father or second parent.' The only exemption is close blood relatives.
Apriti cielo! (qui la notiziola in sintesi su Il Corriere della Sera di oggi).

domenica 1 marzo 2009