giovedì 13 novembre 2008

Dell’amore e della morte (a Nassiriya)

Fight

Uomini caduti in nome dell’Italia. E donne la cui attesa non finirà mai. Oltre al danno, poi, l’umiliazione di vedersi sbattuto in faccia un amore senza carta e che dunque, non vale niente.

Sono passati cinque anni dalla morte di 19 italiani a Nassiriya, in quella missione di pace sporcata da sangue e rimpianti. Cinque anni ricordati, ieri, con una targa di ottone inchiodata sul muro di sinistra della Sala Conferenze del Senato. E denudata dal drappo rosso cupo che la copriva nel corso della commemorazione ufficiale. Alla presenza, tra gli altri, di Renato Schifani, presidente del Senato, Gianfranco Fini, presidente della Camera, Maurizio Gasparri; uniformi e occhi lucidi. Tutti in piedi, stretti, ammassati.

ONORE E UMILIAZIONE - È Schifani a prendere la parola alle 11,45, mentre una bambina di circa un anno piange e piange. Impettiti tutti si alternano sul pulpito. Alcuni sembrano distratti dall’idea del prossimo appuntamento, ma per lo meno nessuno ride come in altre occasioni. “La memoria di chi ha dato la vita per il nostro Paese non appartiene alle Forze Armate, né alle istituzioni, né ad una parte politica, ma è patrimonio indissolubile dell’intera collettività”, dice. Poi tocca a Ignazio La Russa, il quale sottolinea che “la morte ha dato alla loro vita [quella dei morti o la loro?] un significato profondo”. Chissà se c’è qualcuno che abbocca ancora a questa retorica. Intanto la bimba urla e urla a squarciagola. Peccato non si possa chiedere a quelli che sono morti. Anche se chi sceglie la carriera militare non può non mettere in conto il rischio di morire. Ma è pur vero che ci sono molti modi di morire, sebbene nella livella della morte è possibile distinguerli. Sarebbe doveroso riconoscere e distinguere la responsabilità. E poi magari per qualcuno è la vita a dare un significato profondo; un po’ meno la morte. C’erano poi due civili italiani: Stefano Rolla e Marco Beci. Anche per loro vale la profondità del significato della morte? E c’erano anche nove civili iracheni. E ci sono parole, tante parole che non smettono di rimbombare, fino a coprire quelle ufficiali e di circostanza: “Ma lei che lo amava aspettava il ritorno d’un soldato vivo/d’un eroe morto che ne farà?”. Il cerimoniale non è in grado di rimediare o di cancellare l’ingiustizia: non solo per un destino mortale (evitabile?) ma per quanto quelle morti hanno causato. Anzi: soprattutto per quanto una di quelle morti ha causato. Quella di Stefano Rolla. L’ingiustizia e la discriminazione oltre al dolore. E l’assenza di comprensione umana. Verso la compagna Adele Parrillo. E se il dolore è privato e inestinguibile, l’umiliazione pubblica era ed è evitabile. È un crudele carico che non è alleggerito dall’invito ufficiale alla cerimonia di ieri, né a tutte quelle che seguiranno foss’anche in eterno. L’umiliazione di un mancato riconoscimento pubblico, nel suo valore simbolico e in quello pratico.

(Continua su Giornalettismo, 13 novembre 2008)

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Certo la storia è straziante, con tutti i particolari sui progetti matrimoniali e gli embrioni congelati in attesa. Ma non possono essere queste storie a fare da grimaldello per svuotare il matrimonio dal suo significato millenario. Lasciamo da parte i discorsi sui sacramenti, qui la contrapposizione è tra semplice convivenza e matrimonio civile, previsto da una legge dello Stato Italiano, laico. Il matrimonio civile è un contratto previsto dalla legge con il quale 2 persone si impegnano di fronte allo Stato ad assumersi pienamente l'onere dei doveri coniugali, e in conseguenza a questo acquistano dei diritti. Un riconoscimento pubblico delle convivenze, con tanti diritti e nessun dovere, risolvibile con un piccolo scritto e un arrivederci sarebbe uno squilibrio e una ingiustizia. Gran parte dei conviventi per scelta (e non quelli per forza, in attesa di divorzio) dice di non volersi assumere doveri di fronte allo Stato; secondo me non vogliono assumerseli tra loro.
Lo Stato non può in questi casi essere un paracadute, se una coppia decide di non sposarsi, mantendendo il proprio legame al di fuori delle responsabilità prese di fronte alla collettività (questo è lo Stato), non può pretendere poi che la collettività la segua nel momento del bisogno.

paolo de gregorio ha detto...

Credo che invece al contrario possono proprio essere queste le storie su cui discutere. Io, personalmente, non credo che questa storia abbia a che fare nemmeno con lo statuto di coppia di fatto inteso come un eventuale nuovo stato giuridico per la coppia. Anche perché, ammesso che a quel tempo fosse esistito già, non è accertato che la coppia in questione lo avrebbe contratto.

E lo stesso vale per situazioni analoghe futuribili nelle quali, anche in presenza della possibilità del patto civile, una persona che perdesse il compagno di una vita sarebbe trattata allo stesso identico modo che se non avesse contratto (oltre al matrimonio) nemmeno quel patto civile.

Lasciamo anche stare da parte per un attimo il trattamento economico, se vogliamo: qui si tratta di uno Stato che fa della forma una sostanza, anche di fronte all'evidenza, anche di fronte a testimonianze. Uno Stato che ad una cerimonia per un caduto accoglie un totale estraneo al caduto, come il politico, e respinge la fedele compagna.

Il riconoscimento "di fatto" di una coppia dovrebbe anche essere altro, matrimonio o non matrimonio, patto o non patto. Soprattutto quando a normarsi è la sfera personale. La stupidità dell'ordinamento si manifesta quando tu passi dall'essere (moralmente dico) tutto verso una persona all'essere moralmente nulla, solo ed esclusivamente sulla base della firma di un accordo legale.

La cosa assurda è che un giudice si sostiene che è in grado addirittura di risalire a di chi è la colpa di un fallito matrimonio, eppure non viene interpellato per stabilire se due persone non sposate si volevano bene o meno.

Anonimo ha detto...

Tu confondi il personale con il sociale. Nessuno nega che due persone abbiano il diritto di dividere la loro vita, le loro esperienze, la casa, i sogni, senza dover sottostare ad un contratto di tipo sociale. E' una libertà però che vale nei due sensi, i 2 conviventi scelgono di rimanere liberi da obblighi e doveri sanciti dallo Stato, e lo Stato si ritiene libero da obblighi o doveri verso di loro.
Una coppia che si sposa si impegna a portare avanti un progetto familiare che rende lo Stato più forte, offrendo allo Stato l'assunzione dell'impegno, dell'onere. Le coppie sposate con figli costituiscono la trama robusta della collettività, gli agronomi direbbero la 'struttura del terreno'. Lo Stato che investe su di loro investe sul proprio futuro.
Nessuno mette in dubbio la profondità dei sentimenti di una coppia di liberi conviventi, ma questo non ha niente a che fare con lo Stato. Certo, anche all'interno di una convivenza possono nascere figli, ma allo Stato non è stata offerta nessuna garanzia scritta e firmata che i due genitori si impegnino a crescere, mantenere in salute, e istruire quei figli. Manca la firma sul contratto. Che il contratto, come tutti i contratti si possa rompere è un'altra cosa ancora. Alla rottura del contratto matrimoniale infatti segue l'intervento dello Stato che ricorda gli impegni presi e si fa garante del loro adempimento.
Purtroppo in molti campi si confonde la sfera personale da quella sociale e questo genera molti equivoci.

paolo de gregorio ha detto...

Benissimo, dopo questa lezione allora sentiamo: in che modo la presenza di una compagna alle cerimonie solenni per il proprio compagno deceduto in servizio per lo Stato lede allo Stato stesso e alla collettività? Oppure giova allo Stato e alla collettività la di lei assenza? Esempi similari: assistenza in caso di degenza. Fiducioso, in attesa.

Anonimo ha detto...

anonimo: la tua è solo ampollosa e pretenziosa retoriaca.

adele ha detto...

Sono Adele Parrillo…e vorrei solo dire una cosa…
Intanto qualcuno che sputa sentenza sulla vita degli altri, è pregato di fornire la propria identità, altrimenti vuol dire che si vergogna di quello che afferma..
A questo bel campione di etica, all’ANONIMO, che dice che “Lo Stato non può in questi casi essere un paracadute, se una coppia decide di non sposarsi, mantendendo il proprio legame al di fuori delle responsabilità prese di fronte alla collettività (questo è lo Stato), non può pretendere poi che la collettività la segua nel momento del bisogno.….
E CHE... "lo Stato si ritiene libero da obblighi o doveri verso di loro…."
VORREI CHE MI SPIEGASSE: perché nel caso D’Auria lo Stato ha applicato una norma diversa.
anche là c’era una coppia di conviventi, e nonostante 3 figli, non avevano sottoscritto nessun contratto. Però il governo ha riconosciuto validità giuridica ad una norma del codice canonico, l“Artuculo mortis”, per ottenere quello che in uno in uno Stato di diritto basato sulla laicità, si dovrebbe ottenere attraverso una legge come quella dei Dico o simili, in vigore ormai in tutta Europa, che il governo continua a rimandare.
Mi vuole spiegare l’ANONIMO, perché due pesi e due misure?
E si firmi, altrimenti taccia!