martedì 25 novembre 2008

Il teorema di Cuccurullo

Le discussioni sui grandi temi di interesse pubblico vedono spesso un’alternarsi delle fortune degli argomenti più usati, che a tratti ricorda l’alternarsi delle mode. Nella discussione sul testamento biologico in generale, e sul caso Englaro in particolare, imperversa da qualche giorno un argomento portato alla ribalta dal professor Franco Cuccurullo, rettore dell’Università di Chieti e presidente del Consiglio superiore di sanità, che lo ha illustrato in un’intervista concessa ad Avvenire (Enrico Negrotti, «“Morirà per eutanasia. Non della sua malattia”», 20 novembre 2008, p. 7):

Si tratta di eutanasia perché la morte di Eluana sarebbe causata dalla sospensione di idratazione e alimentazione, non dalla patologia di base dalla quale è affetta. Vede, io faccio due esempi: un paziente cui si interrompe un trattamento terapeutico o quello cui si toglie il sostegno alle funzioni vitali. Il primo caso è per esempio una persona affetta da una malattia tumorale allo stadio terminale. Io posso interrompere una chemioterapia che sottopone il paziente a ulteriori sofferenze senza migliorarne le condizioni. In questo caso la morte che sopraggiunge è una conseguenza diretta della malattia da cui è affetto il paziente. Viceversa – è il secondo caso – se a un paziente io sospendo l’idratazione e l’alimentazione non muore per la sua malattia, ma muore di sete e di fame. Non è la malattia che lo fa morire, il decesso non è conseguenza diretta della patologia che lo affligge. Muore per disidratazione.
[…] Eluana Englaro non morirebbe della sua malattia, che è in uno stato stabile. C’è una forte spinta vitale in quell’organismo: per fermarla occorre sospendere idratazione e alimentazione. Cosa c’è di diverso dall’eutanasia, o dall’omicidio? Ruotiamo intorno a questi concetti, è difficile discriminare. Diverso era il caso di Piergiorgio Welby. La ventilazione meccanica era la terapia indispensabile alla [sic] sostenerlo nella sua malattia, che colpendo i muscoli rendeva impossibile anche la respirazione. La sospensione del funzionamento della macchina portava il paziente a morire della sua malattia.
La distinzione posta da Cuccurullo – il suo teorema, se mi passate il termine – è chiara: se è la malattia ad uccidere, sia nel caso del malato terminale sia di chi terminale non è (come Welby), allora non si può parlare di eutanasia od omicidio; se ad uccidere è la sospensione dell’alimentazione, sì.
Ma supponiamo che ci sia un malato nelle stesse identiche condizioni di Welby, collegato a un ventilatore artificiale; l’unica differenza è che costui non vuole morire. Se io nottetempo mi introduco in casa sua e lo stacco dal ventilatore, causandone la morte per asfissia, sono colpevole o no di omicidio? Supponiamo che davanti al giudice io usi l’argomento del professor Cuccurullo: non sono stato io ad uccidere quell’uomo, è stata la sua malattia; quale sarebbe la conclusione del magistrato?
Ma se questo è – come platealmente è – un efferato omicidio, e se pensiamo con Franco Cuccurullo che la sospensione delle cure a Welby non sia invece un delitto, su che base giustifichiamo la differenza fra i due casi? Facciamo qualche altro esempio: perché obbedire al desiderio di non curarsi di un cardiopatico va bene, e sottrargli il farmaco salvavita che intendeva assumere alla vigilia di una crisi invece no? Perché sabotare la macchina per la dialisi di un nefropatico è omicidio, e rispettare la sua volontà di sospendere la dialisi invece è un dovere professionale del medico? In tutti questi casi è sempre la malattia che uccide il paziente; l’unico fattore che cambia è la volontà di vivere del malato. Ed è questo, non altro, che stabilisce la rilevanza penale dell’omissione delle cure.
Immaginiamo adesso che in tutti questi casi io non faccia mancare al malato desideroso di vivere il suo trattamento, ma che lo chiuda in una stanza e lo lasci morire di sete e di fame. In questo caso non sarebbe la malattia ad uccidere quella persona, ma la sospensione dell’alimentazione (operata contro la sua volontà); ma ci sarebbe una differenza rispetto all’omicidio operato fermando il ventilatore, o sottraendo il cardiotonico, o rompendo la macchina per la dialisi? Sembra evidente che il giudizio, non solo sul piano giuridico ma anche su quello morale, sarebbe di assoluta identità (escludendo eventuali aggravanti per le sofferenze più o meno grandi nei vari casi): che la causa prossima sia la malattia o la fame e la disidratazione, non fa nessuna differenza.
Siamo arrivati al quarto e ultimo scenario. Supponiamo che io sospenda alimentazione e idratazione al malato consenziente; come debbo valutare questa omissione? Rispetto al caso della sospensione (sempre al malato consenziente) della ventilazione artificiale o dei cardiotonici o della dialisi, l’unica differenza è che in questo secondo caso si muore per la malattia, e non di fame e di sete; ma abbiamo appena visto che questa differenza non è moralmente né giuridicamente importante. Rispetto al caso della persona a cui sottraggo gli alimenti contro la sua volontà, l’unica differenza sta nella presenza del consenso; e abbiamo visto prima che questo fattore basta a determinare da solo la rilevanza penale di un’omissione.
La conclusione mi sembra inevitabile: non c’è nessuna differenza fra il sospendere un ventilatore (o un farmaco, o la dialisi) a una persona consenziente e sospenderle l’aimentazione e l’idratazione; il teorema di Cuccurullo, mi spiace, non sta in piedi. Quod erat demonstrandum.

37 commenti:

Anonimo ha detto...

Il ragionamento di Cuccurullo è esatto nelle premesse ed errato nell'applicazione delle stesse premesse al caso di Welby: per escludere il nesso di causalità tra sospensione delle terapie (o della nutrizione o idratazione) e morte del soggetto ocorre che - come esattamente indicato - questi sia un malato in stato terminale, concetto - a sua volta - che per avere un qualche significato reale, deve riferirsi ad una persona la cui morte è imminente e inevitabile in conseguenza del progedire inarrestabile di una patologia in atto. In questo caso è evidente che sospendere le terapie (talvolta è opportuno anche sospendere la nutrizione, che l'organismo rifiuta, e limitarsi all'idratazione), irrogando possibilmente cure palliative, non determina la morte del soggetto che è causata dalla patologia e che giunge al termine di un processo, come già detto, orami in atto e in nessun modo inarrestabile.
Questa non è la condizione di Eluana Englaro e non era nemmeno quella di Welby, poiché la sua patologia non era giunta ad uno stadio tale che, nonostante la ventilazione meccanica, la morte sarebbe giunta in brevissimo tempo.
Per entrambi, quindi, la sospensione della nutrizione e idratazione o il distacco del ventilatore è attività che provoca la morte del soggetto. Si tratta, quindi, di omicidio (nel caso di Welby, di omicidio del consenziente) e come tale dovebbe essere trattato.
Giacomo Rocchi

Giuseppe Regalzi ha detto...

Il logico corollario di quanto dici è che si commette un omicidio del consenziente assecondando qualsiasi rifiuto di trattamento medico da parte di un malato non terminale, se questo rifiuto conduce a una morte prematura. Quindi al dializzato non può essere permesso di sospendere la dialisi, anche se soggettivamente non la sopporta più; il cardiopatico dev'essere costretto a prendere i suoi medicinali per sempre, e così via.

Anonimo ha detto...

Si, salva sempre la distinzione tra soggetto che è in grado di interrompere da solo la sua terapia (mi sembra che sia il caso del cardiopatico) e quello che invece necessita (come nel caso di Welby) di un intervento di estraneo per tale interruzione: intervento che - proprio perché esistono le fattispecie di omicidio del consenziente e assistenza al suicidio - è vietato e deve essere punito.
Giacomo Rocchi

Giuseppe Regalzi ha detto...

Questa distinzione, però, per essere valida deve distinguere rigidamente fra comportamenti commissivi ed omissivi: è vero che il cardiopatico può far da sé, ma io in ogni caso potrei costringerlo ad assumere i suoi farmaci (magari di nascosto, mescolandoglieli nella minestra, in modo da evitare ogni violenza). Se questa omissione non ricade nella fattispecie del suicidio assistito, allora non vi ricade nessun altra. Nel caso di Welby la distinzione fra azione ed omissione è oscurata da vari fattori, e lasciamolo dunque da parte; ma se io ho un paziente debilitato, che non può sottrarsi da sé alla chemioterapia, la sospensione delle cure su sua richiesta costituirebbe comunque un'omissione, non certo un'azione. Niente omicidio del consenziente, in questo caso, allora.

Anonimo ha detto...

Il nesso di causalità - che era l'oggetto del post - si costruisce differentemente nel caso di comportamenti commissivi e comportamenti omissivi: mentre nel primo caso è possibile stabilire il rapporto tra azione ed evento sulla base della successione degli eventi in natura (salva sempre la possibilità di accertare che a causare l'evento vi siano altre cause concorrenti), per determinare il nesso di causaltà tra omissione ed evento occorre passare attraverso una valutazione normativa - quindi astratta - della condotta e previamente stabilire se la condotta che è stata omessa fosse doverosa, se cioè il soggetto che ha omesso l'azione si trovasse in una posizione di garanzia. Non si può affermare il nesso di causalità tra omissione ed evento senza prima affermare che quella certa azione era doverosa per quel determinato soggetto.
L'esempio dei farmaci per il cardiotonico sciolti di nascosto nel cibo è quindi errato: sia perché non individua il soggetto che ha omesso quel determinato comportamento (saremmo tutti responsabili per non aver sciolto di nascosto il cardiotonico nella minestra?), sia perché presuppone l'obbligo (per chi?) di costringere il cardiopatico ad assumere le medicine.
Il caso di Welby non è affatto oscuro: il ventilatore artificiale gli permetteva di respirare e per ucciderlo occorreva una condotta commissiva, staccare il ventilatore (condotta cui Riccio accompagnò la somministrazione di sdativi che, peraltro, secondo la perizia medico legale, non ebbero alcuna influenza sulla causazione della morte del paziente).
La valutazione deve, quindi, essere fatta caso per caso, quindi anche nel caso della chemioterapia: vale il principio che il paziente in piena capacità di intendere e di volere e nell'immediatezza della cura proposta può rifiutarsi di sottoporvisi, anche se ciò può condurlo alla morte (art. 32 della Costituzione).
Giacomo Rocchi

Giuseppe Regalzi ha detto...

Ok, questo è in pratica il secondo comma dell'art. 40 C.P.: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Una volta che si sia stabilito che non esiste un obbligo giuridico a compiere una data azione (che potrebbe essere, per esempio, la somministrazione di alimenti tramite un sondino), l'omissione corrispondente non costituisce reato. Questo è anche il mio punto di vista, anche se poi ovviamente la discussione si sposta sulla deduzione degli obblighi concreti dai principi esistenti (art. 7 e 32 Cost., etc.), e qui torniamo a dissentire.

Riguardo a Welby: che ci sia qualche problema a definire la sospensione della ventilazione un'azione come le altre si vede considerando il caso seguente. Immaginiamo che a ventilare il paziente ci fosse stato un ventilatore manuale e non automatico (credo che ne tengano ancora negli ospedali in caso di perdita della corrente; in ogni caso una volta esistevano). E' ovvio che in questo caso sospendere la ventilazione costituirebbe un'omissione: chi aziona a mano la macchina dovrebbe cessare di compiere un'azione. Mi pare che far derivare rilevanti differenze giuridiche dalla differenza di natura del ventilatore - automatico o manuale - sia controintuitivo: da qui i miei dubbi. Per superare l'impasse si può considerare che le azioni che una volta avviate vanno avanti da sé, richiedono se necessario come dovere un'azione opposta che le porti a termine, da parte di chi ha le iniziate o di chi ne eredita la responsabilità. Esempio comprensibile: se io accendo un fuoco nel bosco e quello minaccia di estendersi pericolosamente, io sono obbligato a compiere l'azione di spegnerlo, che normalmente sarebbe richiesta non a un privato cittadino ma a un vigile del fuoco. Spegnendo il fuoco io in realtà 'sospendo' l'azione che avevo iniziato tempo prima, anche se per farlo compio effettivamente una seconda azione; non c'è nessuna differenza rilevante rispetto alla situazione in cui il fuoco per essere alimentato abbisogna che io stia ad azionare un mantice, che devo smettere di comprimere in situazione di pericolo.

Chiara Lalli ha detto...

Qual è la differnza tra un dono e un furto?
Già, sempre "quella" differnza.
Ma Cuccurullo la ignora, soprattutto nel caso suddetto.
Provate a dargli del ladro ora...

Anonimo ha detto...

La differenza tra ventilatore manuale e ventilatore meccanico è invece decisiva per qualificare la condotta di chi stacca il ventilatore meccanico o cessa di utilizzare il ventilatore manuale così provocando (o permettendo che avvenga) la morte del paziente.
Il ventilatore manuale, per sua natura, è uno strumento di emergenza e non un'apparecchiatura destinata ad un uso permanente: quindi quando esistevano soltanto i ventilatori manuali non era ipotizzabile per nessuno un obbligo di continuare a ventilare manualmente un paziente per un tempo indeterminato (nemo ad impossibilia tenetur); se quindi la ventilazione manuale si protraeva senza che si trovassero altri rimedi che permettessero la sopravvivenza del paziente (oppure la situazione dello stesso tornasse alla normalità) la cessazione della ventilazione - cioè l'omissione della prosecuzione dell'uso del ventilatore manuale - era condotta inevitabile e non violava alcun obbligo.
Se è vero che negli ospedali ancora esistono ventilatori manuali per il caso di black out, mi sembra evidente che, al contrario, nel caso ciò avvenisse e nel caso il medico ordinasse ad un infermiere di continuare la ventilazione manuale fino al ritorno dell'elettricità e al ripristino della funzionalità del ventilatore meccanico, si dovrebbe ipotizzare un obbligo dell'infermiere a non cessare la ventilazione e quindi una sua responsabilità per la morte del paziente in conseguenza di una eventuale omissione.
Nel caso di Welby nessuna omissione vi fu: la macchina funzionava da sola; vi fu invece un'azione positiva che staccò la macchina e fece morire - uccise - Welby.
Allo stesso modo chi staccherà il sondino ad Eluana la ucciderà - senza che la stessa l'abbia mai chiesto - sia perché la condotta sarà commissiva sia perché - anche a considerarla omissiva (cessazione della nutrizione e idratazione) sussiste l'obbligo di nutrire e idratare coloro che, affidati alle proprie cure, non sono in grado di farlo da solo.
Giacomo Rocchi

Giuseppe Regalzi ha detto...

Ma che il ventilatore debba lavorare a tempo indeterminato non è una condizione necessaria per il ragionamento. Se il paziente ne avesse bisogno per poche ore, ma subito dopo l'avvio decidesse di non poterlo sopportare, ci troveremmo nella condizione paradossale che se il ventilatore è automatico allora non è lecito staccarlo (azione che causa la morte del paziente, proibita dall'art. 579 C.P.), mentre se è manuale invece è lecito (omissione giuridicamente lecita, perché coperta dall'art. 32 Cost. e leggi sul consenso).

C'è un bellissimo esempio, di cui ho letto ai tempi del caso Welby (e con cui torniamo alle specifiche del suo caso). In Israele qualcuno aveva deciso che per evitare questi dilemmi i ventilatori automatici dovevano essere dotati di un timer da riavviare ogni 24 ore: non riavviarli costituiva un'omissione, e quindi fermarli diventava lecito. Ovviamente la cosa ci appare demenziale: la differenza rispetto al ventilatore automatico è del tutto artificiosa. Ma proprio il fatto che la troviamo demenziale ci fa capire che le due situazioni si equivalgono moralmente e giuridicamente.

Altro esempio: devo fare un'iniezione salvavita a un paziente, ma ho appena iniziato che quello ci ripensa e rifiuta. Mi viene richiesta un'omissione (devo cessare di esercitare pressione sullo stantuffo), e quindi la cosa è lecita. Ma se avessi applicato una flebo, per ubbidire al desiderio del paziente dovrei compiere un'azione (girare la valvola), e la cosa non è più lecita. Formalismi assurdi, che mascherano la realtà sottostante identica: si tratta di un'azione continua, anche quando viene effettuata per mezzo di un'apparecchiatura autonoma.

Eluana: è vero, si dice spesso "levare il sondino". Ma in realtà abbiamo a che fare con un'apparecchiatura in cui inserire del cibo, e questa è un'azione! La cosa essenziale è omettere di aggiungere l'alimento artificiale; non so se occorra poi levare il sondino (ne dubito), ma questo può tutt'al più essere dovuto a motivazioni secondarie; se il cibo non passa il sondino può anche rimanere dov'è, e il risultato finale non cambia.

Anonimo ha detto...

Ma, poi, Giuseppe, ci sarebbe anche la questione che nei pazienti in stato vegetativo come la Englaro non si tratta mai di " semplice " indratazione e nutrizione. In realtà, nei sondini vengono aggiunte sostanza nutritive ma ANCHE veri e propri medicinali, necessari per evitare infezioni, per esempio.E anche altri farmaci necessari per evitare altre patologie anche gravi che lo stato vegetativo porta. Se si decidesse di far passare i soli liquidi per idratazione e nutrizione, la Englaro potrebbe ammalarsi di qualcosa di molto grave che la potrebbe pure portare alla morte. Ecco, soffermiamoci su questo punto. Lasciamo da parte la questione se la Englaro è cosciente o meno e se è giusto staccare l'alimentazione in un soggetto impossibiltato a esprimere a viva voce la sue volontà. Se riconosciamo il diritto di rifiutare le cure, non è giusto allora riconoscere il diritto di rifiutare l'alimentazione, visto che con l'alimentazione si assumono farmaci? Cioè, mettiamo che si metta per iscritto che si può rifiutare una cura, ma non si può rifiutare l'alimentazione. Il testamento biologico Roccella Style, per chiarirci. Questo vuol dire che allora i pazienti in stato vegatativo ( e solo loro, pare), non possono rifiutare le cure?

Anonimo ha detto...

Giuseppe, ti stai dibattendo inutilmente. Invito te e tutti gli interessati a riflettere sulle semplici, basilari parole dell'art. 575 C.p., 'chiunque cagioni la morte di un essere umano è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21'. Stop.

Cosa significa 'cagionare'? Vuol dire essere la causa. E' semplice da capire. Senza perdersi in molte complicazioni.

Le semplici parole del 575 ricordano a tutti che viene punito chi causa 'la morte'. Non viene fatta nessuna menzione della qualità della vita che quell'essere umano stava vivendo.

La legge, laica, dello Stato italiano, non prevede in nessuna sua parte un distinguo sul tipo di vita, la sua qualità, le sue caratteristiche, su quello che la persona può o non può fare.

Eluana è viva. Altrimenti non staremo qua a parlarne e sarebbe già stata seppellita. Invece giace in gravissima infermità in un letto, respira da sola, il suo ECG NON è piatto, neanche i criteri della morte cerebrale per gli espiantabili sono applicabili a Eluana. E' viva, con un vigore che sbalordisce, (le è tornato il ciclo mestruale!).

Se RLMK legge vorrei farle notare che nelle semplici parole del 575 non c'è traccia delle specifiche di qualità a cui lei si riferiva nei suoi interventi. E non c'è traccia neanche di commistione tra etica e giurisprudenza. La legge punisce chi provoca la morte. Punto.

AnnaMaria

Giuseppe Regalzi ha detto...

MJ: questo è un punto che è stato sottolineato spesso da Ignazio Marino. Io direi che sarebbe bene prima esperire fino in fondo la via della sospensione della nutrizione artificiale, che - per quello che ne so - causa una fine più dignitosa e rapida della sospensione dei farmaci di contorno. Se, come sembra, la legge che uscirà fuori proibirà questa strada, allora quella è la possibilità che rimane (ma ci sarà comunque da lottare, visto che si vuole lasciare ai medici l'ultima parola).

Anonimo ha detto...

La Costituzione riconosce il diritto di rifiutare le cure, anche se questo comporta la morte, anche se il medico che non somministra più queste cure per volontà del paziente, compie un'azione che porta il paziente alla morte.

Giuseppe Regalzi ha detto...

AnnaMaria: prima di tutto io non mi sto "dibattendo"; casomai sto dibattendo.

Secondo: se io ometto di fare qualcosa che potrebbe impedire la morte di una persona, questo vuol dire che cagiono quella morte? Con questo ragionamento, se io non faccio un versamento per vaccinare persone colpite da un'epidemia, e ne causo così la morte, sono un assassino come chi sparge volontariamente batteri fra gente ignara? Il risultato finale è lo stesso...

Dignità: non so quante volte è stato ripetuto su questo blog e altrove. Probabilmente centinaia. Ma c'è chi fa finta di non sentire. Nel caso Englaro la valutazione sulla dignità di quella situazione viene da Eluana stessa; quella degli altri non conta nulla. Mi puoi dire che è tutto falso, che il padre, la madre e quattro testimoni la vogliono tutti morta per misteriose ragioni e si sono inventati quelle dichiarazioni; ma non mi puoi venire a dire che la Corte ha deciso di ammazzarla perché trova indegna quella condizione. Non è così.

Anonimo ha detto...

proprio non ce la fate...

non ce la fate a *non sapere* per forza e ad ogni costo cosa è meglio per gli altri

mi stupisco quasi della pazienza che hanno i (benemeriti) autori del blog e gli altri nel rispondervi

a voi di cosa vuole/volesse Eluana o cosa volesse Piergiorgio non frega un accidente, mentre è l'unica cosa che conta/contava

il vostro discorso alla fine è sempre lo stesso:
"io al suo/loro posto farei così; sbaglia chi farebbe diversamente"
è tutto quello che sapete dire alla fine

franco

Anonimo ha detto...

Annamaria scrive: «Invito te e tutti gli interessati a riflettere sulle semplici, basilari parole dell'art. 575 C.p., 'chiunque cagioni la morte di un essere umano è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21'. Stop.»

Come stop? Mai saputo che il diritto penale non è fatto solo di norme incriminatrici ma di tanti altri meccanismi tra cui le c.d. cause di giustificazione? Quando c'è una causa di giustificazione (es. stato di necessità, legittima difesa, esercizio del diritto, consenso dell'avente diritto, ecc. ) il fatto descritto dalla norma come reato non è più tale.

Qui la presenza della causa di giustificazione è affermata dalla Corte di Cassazione stessa (supremo interprete del diritto nel nostro ordinamento), che l'ha definita nella sentenza 16 ottobre 2007, ricavandola dal diritto vigente (legislazione ordinaria, fonti sovranazionali e principi costituzionali).

Ciao, mez

Anonimo ha detto...

La differenza tra azioni e omissioni non ha vera consistenza naturalistica: quasi qualsiasi condotta si presta ad essere descritta sia in termini attivi che omissivi. Nel caso di Eluana si può altrettanto parlare di «non praticare l'alimentazione artificiale» o di «togliere il sondino».
Solo una norma giuridica può fissare la descrizione e distinguere con rigore: c'è omissione quando la norma definisce la condotta dovuta (lasciando indefinite tutte le altre), c'è azione quando la norma definisce la condotta vietata (lasciando indefinite tutte le altre).

Ma qui la questione azione/omissione è irrilevante essendo superata dalle sentenze della Cassazione che ha affermato un diritto del paziente, per bocca del suo rappresentante legale, a rifiutare i trattamenti in presenza di 2 requisiti:

1) quando la condizione di stato vegetativo sia irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standards scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benchè minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza;
2) che tale istanza sia realmente espressiva, in base a elementi di prova chiari univoci e convincenti, dellla voce del paziente medesimo tratta dalle sue precedenti dichairazioni ovvero dalla sua persoanlità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire l'idea stessa di dignità della persona.

Questo opera come causa di giustificazione. Non occorre che questa causa di giustificazione sia riconducibile all'ipotesi del consenso dell'avente diritto ex art. 50 c.p.: le cause di giustificazione, essendo pro reo, non sono solo quelle elencate espressamente. Qui l'interpretazione del diritto viene dalla stessa Corte di Cassazione.

mez

Merc ha detto...
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Anonimo ha detto...

"E' viva, con un vigore che sbalordisce, (le è tornato il ciclo mestruale!)."

Sig.ra Annamaria, prima potevano essere giustificati solo dei sospetti; ora, dopo questa frase, che lei è sbalordita penso sia chiaro a tutti.

Marcoz

Giuseppe Regalzi ha detto...

Mez: ho qualche difficoltà ad accettare che la differenza tra azioni e omissioni non abbia vera consistenza naturalistica e che solo una norma giuridica possa distinguere con rigore. Consideriamo il testè citato art. 575 c.p.: "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno". La legge chiaramente non elenca - né può elencare - tutti i modi in cui si può uccidere un uomo; ma se la differenza fra azione ed omissione fosse soltanto formale e determinata solo giuridicamente, come farei a distinguere fra le due? Tieni presente che, come dicevo qui sopra, le conseguenze di un'azione e di un'omissione possono essere quasi identiche: l'annegatore e colui che non interviene a salvare il bagnante in difficoltà (in mare mosso, tanto da evitare l'accusa di omissione di soccorso) ottengono ugualmente un morto annegato. Ma se potessi definire entrambe indifferentemente come azioni o come omissioni, come mi dovrei muovere per evitare i 21 anni di galera? C'è da qualche parte una norma che definisce vietato cacciare la testa di qualcuno sotto l'acqua e tenerla ferma? A me pare che solo l'intuizione sia qui quella che ci toglie d'impaccio, e pure abbastanza facilmente.

Ho spiegato più su perché penso che il sondino di Eluana possa rimanere dove sta; in questo caso, dove sarebbe l'azione nel mio semplice star fermo senza versare la busta di nutrimento nella macchina apposita?

Anonimo ha detto...

Question (sono ignorante ma voglio porvi rimedio): da quanto ho capito Eluana si trova nelle sue condizioni per via di un incidente.
E' corretto parlare di patologia o malattia? Non è una lesione?

Anonimo ha detto...

Giuseppe ha scritto : «ho qualche difficoltà ad accettare che la differenza tra azioni e omissioni non abbia vera consistenza naturalistica ... »

Occorre fare riferimento alla descrizione fissata da una norma giuridica perchè altrimenti si può giocare all'infinito con le parole: «non praticare l'alimentazione artificiale» e «togliere il sondino nasogastrico» sembrano rispettivamente una omissione e una azione, invece sono la stessa identica condotta. L'ipotesi che tu fai (sondino mantenuto senza versare il nutrimento) conferma appunto questa arbitrarietà della descrizione naturalistica.

Ma allora come faccio a limitare la responsabilità per le mie omissioni (cioè per il fatto che non corro a impedire la realizzazione di tutti i reati di evento di questo mondo)?
Ex art. 40 comma 2 c.p. una omissione è causa dell'evento-reato (qui: la morte di un uomo) solo se il soggetto ha un obbligo giuridico di agire per impedire quell'evento.
Quindi occorre che una norma giuridica mi imponga una specifica condotta attiva perchè la mia omissione di quella specifica condotta sia considerata causa dell'evento-morte e sia realizzato il nesso di causalità giuridica (tra la mia condotta e l'evento morte) e quindi l'elemento oggettivo del reato. Poi occorre anche l'elemento soggettivo: dolo o colpa. E occorre l'assenza di cause di giustificazione.
La formula è: elemento oggettivo + elemento soggettivo - cause di giustificazione

Allora in questo caso si può dire che la sentenza della Cassazione:
1. esclude che ci sia un obbligo giuridico di alimentare Eluana
2. e ha configurato una specifica causa di giustificazione

Il punto 2 è comunque quello decisivo: toglie in ogni caso (anche se la condotta «togliere il sondino» fosse un'azione) il carattere di antigiuridicità al fatto.

Ciao, mez

Anonimo ha detto...

A proposito del discorso di Cuccurullo. Lui dice:
1. se interrompo un trattamento medico salvavita, il paziente muore della malattia
2. se interrompo alimentazione e idratazione, il paziente muore a causa di questo e non della patologia da cui è affetto.

In realtà l'interruzione della condotta è condizione sine qua non dell'evento-morte in entrambi i casi. E nel nostro diritto (concorso di cause - art. 41 c.p.) non si distingue tra cause prossime o remote: tutte le condizioni sine qua non dell'evento ne sono causa (l'unica eccezione riguarda le cause sopravvenute che sono state da sole causa dell'evento: ma non è una vera eccezione perchè qui il concorso di cause non c'è più).
Quindi la causalità materiale c'è sia in 1 che in 2.
Può essere esclusa la causalità giuridica se l'interruzione si riferisce a una condotta che il soggetto non ha l'obbligo di tenere (art. 40 comma 2 c.p.), che è quello che si diceva sopra.

Tutto questo cavillare sui mezzi (attivi/omissivi, ordinari/straordinari) è fuorviante: serve a cullarsi nell'idea che ci sia ancora una morte naturale che non passa per una nostra decisione. Quindi serve a non assumersi la responsabilità di quello che invece comunque si decide (che passi o meno per condotte naturalisticamente attive o passive, ordinarie o straordinarie). Serve a evitare di ammettere che si sta comprimendo il principio di sacralità della vita umana biologica a vantaggio:
- della autodeterminazione del paziente
- di un giudizio sulla qualità della vita (es. irriversibile perdita della coscienza)

Questi sono infatti i due requisiti che (congiuntamente) la Corte di Cassazione ha indicato in modo esplicito come scriminante. La decisione della Corte è molto importante anche per questa limpidezza: imposta la questione correttamente, senza nascondini sui mezzi. Per questo fa scandalo ed è bene che lo faccia. E non vedo nessun problema poi a chiamare questo eutanasia. Parola che va assolutamente sdoganata perchè vuol dire diritto ad avere una morte meno brutta.

mez

Fuffa Forte ha detto...

Ma, pregevolissima Annamaria, se permetti, dopo svariati gradi di giudizio dovuti a ricorsi e rinvii, si e' giunti a sentenza NON appellabile che sancisce la liceita' ed anzi il *diritto* di Eluana a veder rispettata la sua volonta' cosi' come ricostruita in tutto l'iter giudiziario; conseguenza di tutto questo e' che NON ci sara' possibilita' in alcun modo di incriminare ex articolo 575 C.p. coloro che procederanno alla interruzione della alimentazione artificiale forzata.

Indi per cui, se permetti, *stop* lo hanno detto le svariate sentenze, e *stop* lo diciamo noi che riconosciamo in quelle sentenze il segno evidente che in questo paese ci sono anche magistrati che riescono ad avere ancora un lucido concetto di *liberta', autodeterminazione e diginita'* dell'individuo.

Saluti.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Leilani: si può dire che Eluana si trova in uno stato (o condizione) patologico, in seguito alla lesione subita. Non è una malattia, chiaramente.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Mez: provo a riformulare l'argomento del mio ultimo commento. Consideriamo l'atto di tenere a forza la testa di qualcuno sotto il livello dell'acqua, finché morte non sopravvenga. Tu sostieni che questo potrebbe essere indifferentemente visto sia come azione sia come omissione. La mia domanda è: come faccio a sapere che questo specifico atto/omissione è proibito dalla legge? Dove sta scritto che ho l'obbligo giuridico di agire, oppure dove sta la proibizione specifica di agire? Tutto quello che ho è l'art. 575, che mi dice genericamente di "non cagionare la morte" di nessuno.

(Anch'io trovo che oltre un certo limite la distinzione fra atti e omissioni sia un "cavillare". Ma credo che distinguere sia comunque necessario.)

Anonimo ha detto...

Signori, io mi rendo ben conto dell'importanza di prendersi quello che passa il convento, e magari anche baciarsi i gomiti, dato l'andazzo.

Ma vogliamo spendere anche una parola sull'insensatezza del rito superstizioso e barbarico consistente nel lasciar morire "naturalmente" un paziente vegetativo di fame e di sete, anziché fermargli il cuore e non pensarci più? Qual è ad esempio la plausibile giustificazione socio-etico-politica del prolungamento per gli astanti non per l'interessata) di un'agonia in un modo o nell'altro deliberatamente provocata?

La questione di quale sia il "diritto vigente", alla luce dell'interpretazione più o meno creativa che ne possa dare la Cassazione non mi pare possa esaurire la questione, specie quando si discute di come tale diritto sia chiamato a cambiare per intervento del legislatore.

E sotto tale profilo la questione dell'autodeterminazione del paziente non può essere indefinitamente eluso con ricorso a distinzioni appunto legalistiche utili unicamente ad esorcizzare il fantasma dell'eutanasia, e la cui onestà intellettuale, fatte salve le buone intenzioni di chi le difende, resta alla fine molto dubbia.

Anonimo ha detto...

Giuseppe: «Consideriamo l'atto di tenere a forza la testa di qualcuno sotto il livello dell'acqua, finché morte non sopravvenga. Tu sostieni che questo potrebbe essere indifferentemente visto sia come azione sia come omissione.»

Nell'esempio che fai c'è una causa efficiente esclusiva: una descrizione in termini omissivi, es. non essere stato da un'altra parte a fare una passeggiata, viene intuitivamente esclusa. Ma la non-passeggiata è una descrizione altrettanto *vera* della condotta e altrettanto *conditio sine qua non* dell'evento-morte. Mentre faccio una cosa non ne faccio tante altre: posso sempre descrivere un'azione in termini di quello che non facevo e un'omissione in termini di cosa stavo nel frattempo facendo. In tanti casi queste due versioni suonano altrettanto plausibili.



Giuseppe: «La mia domanda è: come faccio a sapere che questo specifico atto/omissione è proibito dalla legge? Dove sta scritto che ho l'obbligo giuridico di agire, oppure dove sta la proibizione specifica di agire? Tutto quello che ho è l'art. 575, che mi dice genericamente di "non cagionare la morte" di nessuno.»

Qualsiasi condotta *conditio sine qua non* del verificarsi dell'evento-morte ne è materialmente causa (salvo siano intervenute cause successive da sole sufficienti a produrlo, aggiunge l'art.41: ma le precedenti non sono più conditioni senza le quali...).
La rilevanza penale di questa causazione materiale è esclusa quando una norma giuridica rende lecita quella condotta (che la descriva in termini attivi o omissivi non conta). Che certi elementi essenziali per l'antigiuridicità del fatto siano descritti nella specifica disposizione incriminatrice (es. l'art. 575) o in altre disposizioni da cui si ricava una causa di giustificazione, è solo questione di tecnica legislativa: la fattispecie reato va comunque ricostruita tenendo conto di tutto l'ordinamento, non solo di una disposizione di legge.

Mettiamo che «staccare il sondino» sia un'azione: c'è causazione materiale esattamente come se fosse l'omissione «non praticare l'alimentazione artificiale». Ma non c'è antigiuridicità del fatto perchè una causa di giustificazione lo esclude. Questa causa di giustificazione è data dalla combinazione di 2 elementi:
1. la volontà di Eluana quando era cosciente
2. che lo stato vegetativo sia permanente

Infine: grazie a te e Chiara di tenere questo blog :)

Ciao, mez

Giuseppe Regalzi ha detto...

Stefano: che una scelta eutanasica sarebe stata più dignitosa e 'pietosa' lo ammettono persino coloro che, contraddittoriamente, paventano piani inclinati dal rifiuto delle cure all'eutanasia attiva.

Ma detto questo, quali erano le probabilità che la Cassazione avrebbe permesso la somministrazione di un farmaco letale? Zero: altro che interpretazione creativa, ci sarebbe voluta!
E quali sono le probabilità che questo Parlamento (o il prossimo, o quello dopo ancora) approvi un'eutanasia stile olandese? Meno di zero. E quindi ci toccano i ragionamenti più o meno legalistici, perché questo per adesso è il massimo consentito.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Mez: in parte ci siamo avvicinati, se - come mi pare di capire - ammetti che esistono descrizioni in termini omissivi che possono essere "intuitivamente escluse" o che non "suonano altrettanto plausibili". Il fatto è che la versione omissiva di "non fare x" è "fai qualsiasi cosa che non sia x", e non "fai y" (che sarebbe troppo specifico): la nuova descrizione è in realtà una parafrasi più verbosa della norma di partenza, che come unico elemento descrittivo contiene lo stesso x (un'azione). Anche elencare "fai y, y', y'', etc." non sarebbe percorribile, perché le azioni alternative sono in numero infinito. E lo stesso discorso vale per la norma che comandi "fai z", che si parafraserebbe inutilmente con "non fare qualsiasi cosa che non sia z".

Il problema rimane comunque lo stesso. Se tu affermi che "qualsiasi condotta *conditio sine qua non* del verificarsi dell'evento-morte ne è materialmente causa", tranne quando "la rilevanza penale di questa causazione materiale sia esclusa da una norma giuridica che la rende lecita", cadi nel paradosso opposto a quello che sollevavo nei commenti precedenti: se il comportamento è omissivo, non troverai di solito una norma che lo renda specificamente lecito. Che non inviare pacchi di alimenti in Sudan sia lecito non lo dice una norma specifica; si deduce solo da principi generali, come l'art. 40 c.p., che però presuppongono la distinzione intuitiva fra azioni e omissioni (altrimenti diventerebbero validi anche per chi va in Sudan a bruciare magazzini di alimenti). Quello che dici invece è valido per le azioni, in cui la scriminante deve essere esplicitamente prevista da una norma. Credimi, logicamente è impossibile uscirne, se non accettando quella distinzione intuitiva.

E' vero comunque che nel caso in questione la distanza può non essere grandissima, ma solo perché il comportamento omissivo (non dare più da mangiare ad E.E.; ripeto, togliere il sondino non è veramente in questione) sembra andare contro alcuni obblighi giuridici a fare (cura del paziente da parte del medico e del tutore etc.), e quindi la corte ha dovuto comunque cercare delle scriminanti. Penso che su questo possiamo alla fine convenire.

"Infine: grazie a te e Chiara di tenere questo blog :)"
Grazie a te per esserci passata. :)

Stefano Vaj ha detto...

"E quali sono le probabilità che questo Parlamento (o il prossimo, o quello dopo ancora) approvi un'eutanasia stile olandese? Meno di zero. E quindi ci toccano i ragionamenti più o meno legalistici, perché questo per adesso è il massimo consentito."

Dipende. Se sei l'avvocato di Eluana, certo: non vai in tribunale a dire che una legge è sbagliata, vai a dire che "in realtà" non è mai stata violata.

Ma la ragione per cui a livello politico e culturale mille battaglie di questo tipo non fanno una guerra vinta è esattamente il fatto che il legislatore, come è ovvio, non è affatto vincolato dal diritto previgente, e una nuova legge finirà per farla, magari vietando senza nessun problema ciò che poteva essere più o meno plausibile prima.

Se uno ad esempio è antiproibizionista in materia di droghe, il problema non è ottenere mille assoluzioni per "non aver commesso il fatto" o per "insufficienza di prove" dimostrando che una volta l'imputato non sapeva che la pianticella fosse canapa, ed un'altra che la canapa la utilizzava per intrecciare corde, ma portare il proprio piccolo contributo verso la fine di quel tipo di egemonia culturale che fa sì che certi provvedimenti il parlamento italiano non potrebbe mai prenderli.

Tanto più che nel caso dell'autodeterminazione del paziente si tratta di un'egemonia che *già oggi* ha una rispondenza molto limitata in valori davvero condivisi a livello di pubblica opinione.

Nel frattempo, prendiamoci contenti tutto ciò che passa il convento; ma stando bene attenti che la difesa di ciò non porti *noi* sul piano inclinato di un sistema di principi al cui interno ragione in realtà ce l'ha la chiesa, e la soluzione di buon senso non risulta difendibile che a prezzo della propria onestà intellettuale.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Stefano (sempre Vaj?): mi pare difficile che questo blog scivoli "sul piano inclinato di un sistema di principi al cui interno ragione in realtà ce l'ha la chiesa"... :-)
Qui non leggerai mai esclamazioni tipo "Per carità, quella di Eluana non è eutanasia!", dette con aria virtuosa. Ciò che si vuole dimostrare è solo la compatibilità della sentenza della Cassazione con i principi giuridici esistenti, senza togliere nulla alle possibilità di evoluzione futura (e remota...).

Anonimo ha detto...

Sì, sempre Vaj (un po' maldestro nell'utilizzo dell'interfaccia del blog...).

No, naturalmente non alludo a questo blog, ma ad alcune autorevoli prese di posizione di cui abbiamo discusso anche nella lista AIT (es. Veronesi) che sembrano per esempio suggerire:
- è fuori discussione che se Eluana fosse viva avreste ragione, ma siccome invece è "morta"...:
- oppure: è fuori discussione che se se si trattasse di sospenderne attivamente le funzioni vitali restanti si tratterebbe di assassinio, ma in fondo smettere di nutrirla e idratarla è solo la sospensione di un "accanimento terapeutico"...;
- o ancora: in realtà è "faustiano" e "peccaminoso" tenerla in vita anziché lasciare che "la natura segua il suo corso" (cosa tra l'altro che introdurrebbe la bizzarra idea che sospendere la nutrizione in casi consimili dovrebbe essere non lecito ma obbligatorio!)...

Queste cose naturalmente mi fanno un po' accapponare la pelle, e non se sia peggio ipotizzare che siano dette per convinzione o in vista di una illusoria "captatio benevolentiae" che in realtà non capta un bel niente, ma solo rafforza i pregiudizi che creano tutto il problema (della serie "vedete, persino chi sostiene andasse rimosso il sondino riconosce che...")

Tutto qui.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Beh, sì, questo fa accapponare la pelle anche a me (al massimo posso dire che il fatto che Eluana sia "morta" può avere qualche attinenza con le modalità concrete della sentenza dei giudici, ma certo non con il diritto fondamentale in gioco).

paolo de gregorio ha detto...

Ho seguito una buona fetta della interessante discussione seguita al post. Sono d'accordo con Regalzi, la distinzione tra commissione e omissione ha del farsesco, come poi si giunge bene a dimostrare ricordando che basta osservare che nel sondino gli alimenti vanno messi con un atto motorio volontario e non ci scendono in automatico.

Ma sarebbe altresì risibile sostenere che un domani i diritti del malato cambierebbero in virtù dell'invenzione di un robot capace di fare tutta la procedura, e di attaccarsi poi alla corrente per rigenerarsi indefinitamente. Tutte queste distinzioni non fanno altro che allontanare il fuoco della discussione dall'attore sulla cui persona si presume che noi stiamo operando nei di lui interessi.

Nel caso Welby vale la stessa cosa: si arriverebbe all'assurdo che Welby, per poter rifiutare una cura che non era in grado di rifiutare per aver perduto la capacità motoria di sottrarvisi, avrebbe dovuto attendere l'inevitabile cortocircuito occasionale che avrebbe permesso al tecnico di turno di "non intervenire" per la riparazione, di modo tale da tenere slavati presunti principi giuridici, francamente risibili.

Insisto che nelle proposizioni di qualcuno (alla Rocchi) si stia totalmente perdendo di vista il centro del contendere: ovvero che una attività terapica viene svolta, che sia in automatico o manualmente, nell'inetresse esclusivo del paziente e di nessun altro. Quando il paziente palesa il suo interesse a non subire cura la questione non può che ritenersi esaudita. L'unico modo per sostenere altrimenti sarebbe quello di affermare e deliberare che agenti esterni come macchine respiratrici o flebo o sondini siano parte integrante del corpo fisico della persona, e quindi parte inviolabile della persona stessa (una visione molto "tecno-scientifica" permettetemi di dire).

Sul teorema poco da dire: la falsità è ben dimostrata.

Vorrei invece dire la mia sulla questione dei farmaci che vengono mischiati nella flebo agli agenti nutrienti: io direi che in tale situazione sia sufficiente affermare che il paziente si rifiuta (o si sarebbe rifiutato) di avere costretta l'ingestione di alcun farmaco insieme alla somministrazione di nutrienti: anche in assenza di regolazione esplicita di questi ultimi secondo la legge. A quel punto basterebbe notificare che la somministrazione di nutrienti senza farmaci porterebbe alla morte certa del paziente e allora, se è assodato che la morte "per fame e per sete" è più "dolce" di quella per infezione, allora sarebbe nel miglior interesse del paziente procedere alla non somministrazione né degli uni né degli altri.

Anonimo ha detto...

Ho ritrovato un attimo di tempo per rifletterci e (se ho capito bene cosa sostieni, perchè ormai rischio di perdere il filo...) hai ragione tu sul punto che la distinzione azioni/omissioni ha una rilevanza naturalistica in rapporto al nesso causale. In questo senso: in natura ci sono forze fisiche che causano effetti, quindi ci sono solo le azioni, le omissioni sono tutte solo l'omissione di un'azione, cioè la descrizione in negativo dell'azione. In generale descrivere una condotta in termini di azione o di omissione è quindi una scelta arbitraria, che dipende da cosa focalizza la nostra attenzione (e il legislatore può definire un reato, una attenuante , ecc. altrettato in termini attivi o omissivi). Ma quando si tratta di nesso causale il rapporto con l'evento dà consistenza alla distinzione: c'è un'azione quando la condotta mette in moto forze naturali che lo causano, un'omissione quando la condotta è condizione dell'evento solo per non aver messo in moto forze che lo impedissero (mentre lo si sarebbe invece preteso). L'omissione in senso naturalistico è una delle infinite condizioni negative del fatto: perchè rilevi giuridicamente occorre che sia proibita come omissione (o imposta come azione) da una norma giuridica: «Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo» (art.40 c.p.)

Nella situazione di Eluana non alimentarla è azione o omissione? Qui una distinzione puramente naturalistica vacilla perchè sospendere l'alimentazione è un comportamento complesso, la cui dinamica dipende dalla situazione creata da comportamenti precedenti: se lo si va ad analizzare nei suoi singoli gesti, si compone di aspetti omissivi e di aspetti attivi, alcuni possono apparire necessari e altri accidentali... insomma diventa una questione di descrizione presentarlo come naturalisticamente attivo o omissivo. Anch'io propendo per l'omissione, ma ci si può arrovellare a lungo.

Ma la bella novità è che la sentenza della Corte di Cassazione è più avanti di tutte queste distinzioni e per questo non capsico perchè ci restiamo invischiati dentro facendo il gioco del nemico (passatemi il termine...).
La Cassazione crea una causa di giustificazione che cancella l'antigiuridicità del provocare la morte di Eluana (anche se il comportamento fosse azione e non omissione), sulla base di 2 presupposti:
- volontà di Eluana
- stato vegetativo permanente

Non vorrei che perdessimo di vista questo e restassimo indietro rispetto alla sentenza. Tra l'altro la sua motivazione è più forte del dispositivo e porta argomenti che sono tutti in chiave di autodeterminazione. Se non intervenisse il legislatore a cambiare le carte in tavola, potrebbe spingere successive sentenze oltre.
Una volta affermato (punti A, B, C) che il principio del consenso informato vale come presupposto per la legittimità dei trattamenti anche in caso di paziente attualmente incapace, e che il rappresentante legale è solo uno strumento per far valere la sua volontà, ricavata dalla personalità complessiva di quando era capace, l'aspetto ingiustificato è proprio il di più di vincoli (richiedere anche un livello molto basso di qualità di vita: lo stato vegetativo permanente) che il punto D pone. Nella logica argomentativa della sentenza, il giudizio sulla qualità della vita dovrebbe entrare in gioco solo quando non sia ricostruibile alcuna volontà del paziente in merito al caso.

Ciao, mez

Giuseppe Regalzi ha detto...

Mez: ok su omissione/azione.

"La Cassazione crea una causa di giustificazione che cancella
l'antigiuridicità del provocare la morte di Eluana (anche se il
comportamento fosse azione e non omissione)"
Non credo che si possa dire che la Cassazione abbia "creato" la scriminante, perché così si darebbe ragione a chi l'accusa di invadere la sfera legislativa; casomai "ha trovato" le scriminanti. Ma qui è forse solo questione di termini. Invece ho dubbi più seri sul fatto che la scriminante valga anche per il comportamento attivo, e questo al di là delle concrete indicazioni della Corte d'Appello. Credo che la Cassazione stessa indietreggerebbe di fronte a un'interpretazione così estensiva, dato che la sua deduzione di scriminanti si basa pur sempre su articoli costituzionali che parlano il linguaggio delle omissioni: io posso rifiutare qualsiasi trattamento medico, ma non esigere quel certo trattamento medico che consiste nell'iniettarmi un farmaco letale. Poi magari in futuro si arriverà anche a questo, ma a mio parere occorrerà trovare un'altra linea argomentativa (e contestualmente rivedere alcuni artt. del Codice Penale).

Sul di più di vincoli hai ragione, naturalmente, e in parte comunque il pensiero giuridico è già andato oltre (il consenso informato, con paziente capace di intendere, è quasi illimitato, come si è visto da diverse sentenze). Tieni presente che, come mi sembra di aver detto in qualche commento qui sopra, alcune limitazioni erano consigliate dalla situazione peculiare (assenza di direttive anticipate), per cui per tutelare diritti legittimi era forse opportuno limitare l'applicabilità a un caso disperato come questo.

Ciao.