sabato 1 novembre 2008

Perché non possono più dirsi cattolici

Roberta De Monticelli su Europa di ieri («Sono ancora cattolica?», 31 ottobre 2008, p. 1):

Kant avrebbe detto: criterio per “essere cattolici” è riconoscere un’autorità anche morale, sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti, alla Chiesa. Se così fosse, ancora una volta, sarebbe facilissimo non essere cattolici, non appena si sia raggiunta la maggiore età morale e anagrafica. Ma – mi chiedevo – c’è forse un solo pensatore “cattolico” che non abbia metabolizzato questo po’ di kantismo, espressione dell’età adulta in morale, e ancora pretenda che sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? Purtroppo oggi vediamo meglio che c’è: e come [Vito] Mancuso ci mostra non è uno solo né pochi.
[…] La grande, veramente rivoluzionaria novità del Concilio Vaticano II […] era stata appunto il riconoscimento di questa competenza morale ultima della coscienza personale da parte della Chiesa […].
Questa sola ammissione comunque poteva significare la completa conciliazione del cattolicesimo e con la modernità, cioè (con parole di Kant) con la coscienza dell’età adulta che l’uomo ha raggiunto. […]
Perché decisivo oggi è un sì o un no sulla questione: l’appartenenza alla Chiesa cattolica è o no definita dall’accettare la soggezione della propria coscienza in materia morale all’autorità magisteriale, in tutti i casi in cui la propria coscienza (morale) si trovi in conflitto con quell’autorità sulla questione di quale sia effettivamente il bene e il dovere? A me pareva che quella grande innovazione del Concilio comportasse la risposta: no. Non più. Perché questo è tanto importante? Perché diventa la sola garanzia che non sia mai più confuso ciò che una persona deve a tutte le altre in assoluto, con ciò che obbliga soltanto un credente, vale a dire ciò che non è evidentemente universalmente ammesso dalla coscienza morale. Così ad esempio sulla propria (non altrui) vita e sulla propria (non altrui) morte non è evidente a tutti, non credenti compresi, che debba decidere qualcun altro, e non noi stessi. Una scelta, ad esempio, di completo e fiducioso abbandono, che mi porti, in una situazione come quella in cui era Welby, addirittura a prescindere da ogni desiderio di affermare la propria dignità e di morire in pace, può ben essere la scelta sublime di un uomo di fede, può ben essere una scelta d’amore.
Ma c’è cosa più abominevole dell’ipotesi che questo amore sia imposto (per via di legge) da un uomo a un altro uomo? Non è appunto l’abissalità di questi consensi, di questi affidamenti supremi, come ogni atto di fede (il sacrificio di Abramo, per esempio, o quello di Cristo!), a esigere la più gelosa, la più imprescrittibile, la più silenziosa ultima libertà che una coscienza ha di consentirvi o no? Ecco: è la maturità della nostra età adulta, che ci ha resi consapevoli, di fronte a questo terribile rischio, della necessità di distinguere fra morale, religione e diritto. Questa distinzione è lo strumento che gli uomini hanno trovato per evitare che le coscienze possano cadere soggette all’arbitrio del potere, cioè in sostanza a forme di teopolitica, di sharia. Ma alla sua base, ancora una volta, c’è un’esigenza morale assoluta: che a ciascuno, ateo o credente, sia garantita l’ultima libertà di determinarsi (salva assenza di reato) in quei comportamenti che siano prescritti da una fede, e non dalla ordinaria coscienza morale umana. Quell’esigenza appunto che gli ultimi pronunciamenti della Cei sconfessano.

1 commento:

Luca Massaro ha detto...

Esimia Filosofa, com'Ella forse sa è più facile ammaestrare un gregge che una massa di cani sciolti. Questa storia dell'individuo e della sua autodeterminazione ci priverebbe, alla lunga, del ruolo di pastori; quindi è meglio rinserrare le fila, togliere dalla mente di ciascuno questa folle idea che ognuno possa avere garantita quella che lei imprudentemente chiama "l'ultima libertà di determinarsi" e ripristinare il sacrosante principio di autorità ecclesiale. Ricordi, infine, che il vero ispiratore del Concilio Vaticano II è stato l'indimenticato Santo Padre Pio XII.
Cortesi saluti da Siviglia,
suo Grande Inquisitore