venerdì 23 febbraio 2007

Il tema drammatico dell’imposizione

Il paziente rifiuta la cura? Il medico può andare avanti, Quotidiano.net, 23 febbraio 2007:
Il paziente rifiuta le cure? Il medico può andare avanti se il quadro clinico è talmente cambiato “con imminente pericolo di vita” per il paziente stesso. Lo sottolinea la Corte di Cassazione (Terza sezione civile) che, intervenendo “nell’attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte”, ricorda come anche i ddl sul ‘testamento biologico’ vadano in questa direzione.
Scrivono gli ‘ermellini’ che “nei vari disegni di legge sul ‘testamento biologico’, contenente le anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica”.
In particolare, i supremi giudici si sono espressi in questi termini affrontando il caso di un Testimone di Geova di Trento, T. S., che in seguito ad un grave incidente stradale era stato ricoverato presso il pronto soccorso dell’ospedale Santa Chiara e trasferito nel reparto di rianimazione perché affetto da rotture multiple e rottura dell’arteria principale con emorragia in atto.
Nel corso di un successivo intervento chirurgico, si legge nelle motivazioni della sentenza 4211, “veniva sottoposto a trasfusione sanguigna nonostante avesse dichiarato che, in ossequio al proprio credo religioso, non voleva gli venisse praticato tale trattamento”. Da qui la richiesta, peraltro rifiutata anche dalla Cassazione oltre che dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Trento, di risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto a subire la trasfusione rifiutata.
Secondo la Cassazione, che ha respinto il ricorso del paziente, bene hanno fatto i giudici di merito a negare il risarcimento richiesto in quanto “il giudice ha ritenuto che il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello del paziente ormai anestetizzato”.
Del resto, viene ancora annotato, T. S. aveva chiesto, qualora fosse stato indispensabile ricorrere ad una trasfusione, di essere trasferito presso un ospedale attrezzato per l’autotrasfusione, “così manifestando implicitamente il desiderio di essere curato e non certo di morire”.
In definitiva, dice la Suprema Corte, la motivazione dei colleghi di merito «si fonda su argomenti congrui e logici certamente aderenti ad un diffuso sentire in questo tempo di così vivo ed ampio dibattito sui problemi esistenziali della vita e della morte, delle terapie e del dolore», insomma, “delle varie situazioni configurabili nell’attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte, situazioni – osserva la Suprema Corte – da tenere ben distinte per evitare sovrapposizioni fuorvianti (accanimento terapeutico, rifiuto di cure, testamento biologico, suicidio assistito)”.
In altre parole, il comportamento dei medici che hanno praticato la trasfusione anche dopo l’ok ricevuto dalla Procura, è “legittimo” perché essi “hanno praticato nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido ed operante”.

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