Malvino dedica oggi un bel post («Per principio», 19 ottobre 2006) a un articolo di Alessandro Pititto, «Laicità e fondamentalismo laico» (LibMagazine, n. 7, 16 ottobre 2006). Rimandando al blog di Malvino per una disanima completa, mi limiterò qui a commentare due passi del pezzo di Pititto.
È ovvio che, in base alla concezione che abbiamo delineato di Stato laico e alla rilevanza della libertà individuale all’interno del nostro ordinamento, non si può zittire legittimamente la Chiesa Cattolica, anche quando essa invia chiari messaggi politici; ma è anche vero che esiste un vasto arco di forze parlamentari, le quali sembrano spesso allineate con quelli che talvolta suonano come “diktat” vaticani. Il punto è che tale potere de facto, per quanto deprecabile possa sembrare, è assolutamente legittimo; in buona sostanza è uno dei difetti, ma allo stesso tempo delle basi, del funzionamento di una moderna democrazia: il gioco delle lobby. Come si può impedire a delle formazioni politiche di non seguire i “diktat” vaticani? Perché un partito ecologista potrebbe assecondare i desideri del movimento ambientalista, sulla base di considerazioni legate al puro ritorno elettorale, mentre un grande partito di massa dovrebbe ignorare l’opinione di milioni di cattolici, solo perché la loro sarebbe un’opinione indotta attraverso la persuasione da parte di un autorità religiosa? Esiste un motivo in diritto per cui un’autorità religiosa non possa parlare ai fedeli di qualsiasi argomento? Se proprio si vuole ravvisare un vizio in questo processo, allora non bisogna puntare il dito contro la Chiesa Cattolica, ma contro quei politici che agirebbero solo in funzione del ritorno elettorale. Vescovi, sacerdoti, finanche il Papa hanno diritto di proferire parola su qualsiasi questione, purché restino, appunto, parole; se queste parole si trasformano spesso in legge (o più spesso impediscono l’approvazione di nuove leggi), ciò non avviene certo per un privilegio conferito alla Chiesa Cattolica, ma per il più vecchio vizio della democrazia, quello di assecondare le lobby. Il lobbyismo, la persuasione dei politici, sarà sicuramente un atteggiamento da esecrare, ma resta un comportamento legittimo, almeno fino a quando non sia accompagnato da minacce o corruzioni.L’argomento di Pititto parte da una premessa largamente condivisibile – e cioè che in uno Stato liberale la Chiesa debba godere, come tutti, della libertà di parola – ma arriva a una conclusione che non lo è per nulla. Accettando il suo discorso, infatti, la natura liberale dello Stato può legittimamente essere cambiata da un voto democratico (sia pure qualificabile come cedimento a una lobby): quando i politici, per convinzione o per calcolo, proibiscono – per esempio – la fecondazione eterologa in quanto immorale, ecco contraddetto il principio fondamentale di ogni Stato liberale, che proibisce di violare il diritto all’autodeterminazione dei cittadini per qualsiasi motivo che non sia quello di impedire loro di violare l’identico diritto degli altri. Ma questo diritto non può essere alla mercè della prima maggioranza di clericali o di semplici confusi che si forma, e andrebbe piuttosto garantito costituzionalmente.
Libera poi la Chiesa di protestare; ma a patto – come riconosce più avanti lo stesso Pititto – di non godere del sostegno finanziario e morale dello Stato. Un altro principio liberale impone infatti di non alterare i mercati, siano essi delle merci o delle idee, con l’interferenza delle autorità: via quindi l’otto per mille, le innumerevoli provvidenze, i segni del favore statale come i crocifissi nelle scuole e nei tribunali, per lasciare quanto è più possibile libere le coscienze (e non per propagandare l’ateismo di Stato, come accusano i clerico-fascisti, o per evitare di «offendere» i credenti in altre religioni, come vorrebbero gli illiberali della parte opposta).
Ma questi pochi, chiari precetti, incontrano da qualche tempo un ostacolo estremamente insidioso, che un altro brano dell’articolo di LibMagazine descrive con precisione, pur mancando di notarne la natura maligna:
Un’ulteriore argomentazione a favore della libertà di “esternazione” da parte della Chiesa Cattolica risiede nel cambiamento epocale che essa ha compiuto nel modo di condurre le proprie battaglie. È un fatto cui, a mio modo di vedere, si presta troppa poca attenzione, ma è un problema di un’importanza cruciale. Quando parla alla società civile, quando si dice contraria ai PACS o alla ricerca sulle staminali, la Chiesa non si richiama principalmente ad un diritto divino, non tira in ballo Dio per dimostrare alla società la direzione in cui andare; la Chiesa ha imparato a comunicare da confessione religiosa, di maggioranza sì, ma in uno Stato laico. Il più delle volte essa sostiene le sue argomentazioni sulla base di concetti assolutamente laici, come quelli di “famiglia” o di “vita”. Non si batte contro il matrimonio gay, perché esso sarebbe contrario alla legge di Dio, ma si appella al concetto, che è anche un concetto laico, di famiglia tradizionale. Cioè, tenta di fare leva sulla società, non rivolgendosi ai fedeli, ma alla società stessa, intesa come società civile.La Chiesa, pur se con qualche residua ambiguità, ha preso contezza delle prescrizioni liberali, e si è regolata di conseguenza. Ad ogni sua ubbia morale o pseudo-morale si scopre corrispondere provvidenzialmente un argomento ‘razionale’: l’aborto uccide come mosche o storpia per sempre le stesse donne che lo praticano; chi vuole l’eutanasia è sempre depresso, e non va ascoltato; i Pacs distruggono la società; l’adozione dei bambini concessa alle coppie omosessuali provoca turbe mentali negli adottati; e così via.
In una repubblica ideale sarebbe facile mettere a margine del discorso pubblico queste imposture: basterebbe pretenderne le prove. Ma non viviamo, ahinoi, in una repubblica ideale, e i decisori possono impunemente proporre a sostegno dei loro decreti le fallacie più vecchie e le leggende più screditate, facendo finta di non capire (e in molti casi non capendo proprio). In ogni caso, per ogni confutazione accettata spuntano sette nuovi errori: perché il primo motore (non importa se annidato oltretevere o nella testa di un politico) sta sempre lì ad alimentarli, con i suoi interessi o le sue idiosincrasie non negoziabili.
Stavolta, mi pare, la soluzione costituzionale non è praticabile: si possono chiedere a una corte giudizi di conformità delle norme alla Carta costituzionale, ma non ai fatti e alla logica. Il dilemma è tragico, dunque, perché non sembra ammettere facili soluzioni; penso a volte che l’unica possibilità sarebbe di arrivare a una drastica divisione orizzontale della società, in una sorta di imitazione del sistema dei millet ottomani. O forse il lento progredire dell’individualismo e del disincanto, con le loro masse sanamente e gioiosamente «desideranti», riusciranno là dove i princìpi non possono (e neppure vogliono) arrivare: a schiacciare definitivamente l’infâme.
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