lunedì 25 settembre 2006

Un caso limite

Nel settembre del 2005 un uomo, M.H., entrò in una clinica dell’Oregon, dove si praticava la procreazione assistita. Consegnò agli addetti un campione del suo seme, perché fosse usato per fecondare la sua compagna; ma poco dopo quelli tornarono, dicendo che il campione era caduto, e che bisognava ripetere la procedura.
Quello stesso giorno una donna, «Jane Doe», accompagnata dal marito, raggiunse quella stessa clinica, per ricevere il seme di un donatore anonimo. L’operazione fu effettuata senza problemi, ma poco dopo gli infermieri informarono la donna che si era verificato un errore increscioso: il seme non era quello giusto. A quanto pare, alla donna fu impedito di lasciare l’edificio fino a che non ebbe acconsentito ad assumere una pillola del giorno dopo. Alcuni mesi più tardi M.H. fu informato che il suo seme non era andato affatto perduto...
L’uomo ha adesso in corso due cause legali: una contro l’ospedale, per ottenere un risarcimento dei danni morali, l’altra per stabilire se è divenuto padre o no; Jane Doe e suo marito si oppongono a rivelare alcunché, in nome della privacy e, verosimilmente, per timore che M.H. possa cercare di ottenere la custodia del bambino, anche se non ammettono che un bambino sia nato (Elizabeth Suh e Ashbel S. Green, «Fertility clinic mix-up sparks legal tangle», The Oregonian, 22 settembre 2006).

È chiaro che qui si scontrano due diritti fondamentali: il diritto a non diventare padre senza volerlo, e quello alla privacy e alla non interferenza. Una soluzione equa è difficile. Ignoro quali siano le leggi dello Stato dell’Oregon, ma se dovessi decidere io, proporrei un compromesso lungo queste linee: M.H. dovrebbe essere informato dell’esistenza di un eventuale bambino, e ricevere – se lo desidera – rapporti periodici sulla sua vita; in cambio dovrebbe impegnarsi a rispettare la privacy di Jane Doe e di suo marito, senza cercare in alcun modo di rintracciarli e di conoscere il bambino, e rinunciando a ogni ulteriore diritto su quest’ultimo. La clinica dovrebbe pagare caramente il proprio errore e, soprattutto, se risultasse vera la storia della pillola del giorno dopo, il tentativo di costringere la donna ad abortire.

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