mercoledì 25 luglio 2007

Eugenia Roccella e le domande inascoltate

Non poteva mancare il commento di Eugenia Roccella alle recentissime vicende dell’assoluzione di Mario Riccio e della morte di Giovanni Nuvoli («Ma la sentenza dimostra che non serve alcuna legge», Il Giornale, 25 luglio 2007, p. 1):

Il proscioglimento del dott. Mario Riccio, il medico che ha staccato la spina a Piergiorgio Welby, dimostra in modo evidente che non c’è bisogno di nessuna legge sul diritto a morire, e che la battaglia radicale o era perfettamente superflua, o tragicamente ambigua. La Costituzione italiana prevede, come è noto, il diritto ad abbandonare le terapie, ed è quello che fa, ogni anno, un piccolo numero di malati gravi. Lo fanno senza scandalo e senza clamore, garantiti da una norma costituzionale che mai nessuno ha messo in discussione.
La memoria umana può essere labile, è vero; ma quella di Eugenia Roccella lo è in modo preoccupante. Sono passate pochissime settimane – sette, per l’esattezza – da quando il giudice per le indagini preliminari Renato Laviola invitava il PM a formulare l’imputazione di omicidio del consenziente nei confronti di Mario Riccio. Le circostanze della morte di Welby erano chiarissime, noti da tempo i risultati dell’autopsia; eppure, un giudice metteva in discussione proprio quella norma costituzionale in base a un supposto «diritto» (che nella neolingua di certuni significa «dovere») alla vita. E non era certo il solo: già oggi qualcuno accumula sofismi contro la decisione del giudice Secchi e contro il rispetto della Costituzione. Segno che la battaglia di Welby non era affatto superflua; così come non è affatto superflua una legge sul diritto a morire. Non è dato sapere a cosa si riferisca la Roccella, ma in questo momento l’unica legge seriamente in discussione sull’argomento è quella sul testamento biologico, che nulla ha a che fare col caso Welby, essendo destinata a persone incapaci di esprimere la propria volontà sui trattamenti medici a cui sono sottoposte.
Da notare poi in particolare l’invito velato (ma non troppo) alla segretezza e all’ipocrisia: quei malati che «fanno senza scandalo e senza clamore» quello che Welby ha reclamato come un diritto hanno, evidentemente, tutta l’approvazione della Roccella.
Nel caso di Welby, staccare il respiratore che lo teneva artificialmente in vita implicava anche l’immediata somministrazione di forti dosi di sedativi, per evitare al paziente le terribili sofferenze di una morte per soffocamento. Perché allora indagare su Mario Riccio, se tutto era legale? Perché la campagna radicale era esplicitamente concentrata sull’eutanasia, sulla richiesta di una legge, e sulla rivendicazione della morte come diritto individuale. L’eutanasia, cioè il diritto al suicidio assistito nel caso si ritenga la propria vita non più degna di essere vissuta, non è l’abbandono delle cure. Il cuore del diritto a morire è il concetto di qualità della vita, e non il problema umanissimo di evitare la sofferenza. Welby, per esempio, ha rifiutato di essere accompagnato alla morte dal proprio medico, che gli aveva proposto una sedazione meno brutale, garantendogli comunque l’incoscienza e l’assenza di dolore. Invece si è preferito chiamare il dott. Riccio, che non conosceva il paziente, ma è venuto da lontano con la sua valigetta attrezzata, per compiere un gesto che avesse più impatto mediatico, che somigliasse il più possibile a una scelta eutanasica. L’ambiguità insomma era prevista e voluta: la disobbedienza civile non c’è stata, ma si doveva pensare che ci fosse.
Questa fantasiosa ricostruzione delle intenzioni di Welby e dei suoi amici non è solo scarsamente verosimile, ma cozza anche contro alcuni dati di fatto. Il medico a cui la Roccella si riferisce non era il medico personale di Welby, ma Giuseppe Casale dell’Associazione Antea, alla quale Welby era stato indirizzato dalla... Associazione Luca Coscioni, e che ha visto Welby in tutto per due (2) volte, come dichiara lo stesso medico (Fabrizio Falconi, «Welby. Per chi vuole saperne di più di quel che raccontano i giornali», Mysterium, 20 dicembre 2006). Quanto alla «sedazione meno brutale», si sarebbe trattato di una sorta di sedazione terminale, con la quale Welby sarebbe morto non per il distacco del ventilatore ma per inedia e disidratazione. Come mai Welby aveva rifiutato? Perché l’offerta era ambigua, come si evince dal racconto dello stesso Casale:
Ricordo comunque che la sedazione non è un atto definitivo, ma è reversibile in quanto il paziente può essere svegliato qualora se ne ravvisi la necessità, anche se nel caso specifico sarebbe stato abbastanza improbabile che ciò potesse avvenire
Non stupisce, di fronte a queste parole sibilline, il duro giudizio di Welby su questo medico. Come aveva fatto notare a suo tempo Marco Cappato in un intervento televisivo (che purtroppo non riesco adesso a identificare), Piergiorgio voleva la certezza – non la bastevole «improbabilità» – di non risvegliarsi. Basta un poco di umanità e di intelligenza per capire perché.
Quanto all’accento posto sull’eutanasia da Welby e dai suoi amici, esistono spiegazioni meno improbabili del complottismo vagamente diffamatorio di Eugenia Roccella. La distinzione fra eutanasia e sospensione delle cure esiste, ma è sottile, ed è chiara solo adesso, dopo mesi di dibattito pubblico. Piergiorgio non era un fine giurista: è tanto improbabile che abbia posto inizialmente la questione nel linguaggio della gente comune? Del resto, ancora il 12 giugno su Avvenire qualcuno aveva difficoltà a cogliere la differenza tra l’eutanasia e l’abbandono delle cure che per la Roccella è lampante:
Una successiva lettera di precisazioni del senatore Marino non è servita a dissipare i dubbi: l’eutanasia consisterebbe, secondo il professore, nella pratica di «iniettare un veleno nelle vene del paziente che esplicitamente lo richiede». Mentre sarebbe tutt’altra cosa la semplice sospensione delle terapie nella fase terminale di una malattia.
Purtroppo la distinzione non è così netta. Sospendere le terapie non vuol dire «accettare la fine naturale della vita»; può voler dire provocarla, anche soltanto per il rifiuto di assumersi pienamente le proprie responsabilità di medico; cioè di qualcuno che deve battersi, al fianco del paziente, contro la malattia e la morte, e non limitarsi ad applicare il consenso informato.
Il lettore rimarrà forse leggermente sconcertato nell’apprendere che l’autore di queste parole non è altri che la stessa Eugenia Roccella («Testamento biologico: questioni sottili. In mezzo può scapparci l’omicidio»); personalmente, non sono rimasto sorpreso per niente...
Ma torniamo all’articolo di oggi:
In questo campo, procedere per casi personali non aiuta. Basta pensare a Giovanni Nuvoli, protagonista di una vicenda densa di ombre e di contraddizioni. Se Piergiorgio Welby era un militante, e aveva consapevolmente deciso di dare significato alla propria morte trasformandola in un evento politico, Nuvoli era solo un uomo disperato, che più volte aveva cambiato parere, e la cui volontà di morire oscillava a seconda del contesto e della situazione. Oggi si dice che è stato costretto a una fine crudele, per denutrizione: ma è la stessa morte che nel caso di Terri Schiavo è stata considerata un atto pietoso, una scelta di eutanasia che avrebbe liberato la malata dalla sofferenza e ne avrebbe attuato le volontà.
Solo che Terri Schiavo era ormai ridotta a un corpo dotato solo di riflessi vegetativi, mentre Nuvoli era del tutto cosciente. E se la sua volontà di morire era tanto oscillante, ci può spiegare di grazia la Roccella perché mai Nuvoli abbia deciso di lasciarsi morire di fame e di sete? Non la si direbbe la scelta di un uomo indeciso...
Ma aspettarsi risposte da Eugenia Roccella e da chi la pensa come lei è vano: non sono le nostre né quelle di chi soffre senza speranza in un letto le domande e le richieste a cui danno ascolto.

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